S’intitola The Golden House l’ultimo romanzo di Salman Rushdie, il più celebre – e celebrato – scrittore angloindiano del globo, 70 anni nel giugno di quest’anno, viso affatto diabolico, autore del – rutilante e magnifico – I figli della mezzanotte e dei Versi satanici, libro pubblico nel 1988 che è stato ‘battezzato’ da una fatwa dell’Ayatollah Khomeyni – che sarebbe morto l’anno dopo averla pronunciata – condannando a morte il povero Salman. L’ultimo romanzo di Rushdie, The Golden House, uscito nel mondo inglese il 5 settembre, edito da Jonathan Cape (pp. 400, $ 28.99) racconta la storia di una famiglia con patriarca straordinariamente ricco, che si è trasferita a New York dopo gli attacchi terroristici di Mumbai del 2008. “Il romanzo si apre con l’elezione di Barack Obama nel 2008 e si chiude con l’elezione di Donald Trump”. E qui viene il bello, cioè, il ballo politico. “Rushdie non crede che sia il solipsismo della sinistra ad aver contribuito alla vittoria di Trump, né la crisi economica. ‘Le racconto questo. Ero a Vero Beach, Florida, per una conferenza. Tanta gente, anziani, per lo più, per lo più benestanti, di buona scuola. Tutti elettori di Trump. Un tipo parlava del cambiamento climatico. Un altro gli diceva che, no, non tutti gli scienziati sono d’accordo su questo. Sono intervenuto io. Dicendo che il mondo non è piatto se dici che è piatto, che non ha bisogno che tu sia d’accordo per essere rotondo”.
L’articolo, per esteso, è qui: https://www.theguardian.com/books/2017/sep/02/salman-rushdie-interview