Va a finire che tocca arpionarsi alle bianche scogliere di Dover per capire chi è stato. In life, he played. E giocò bene, va detto. Su Granta, che non è esattamente una fanzine reazionaria ma una delle più importanti riviste letterarie d’Albione (nata nel 1889 dall’entusiasmo di un pugno di studenti di Cambridge, risorta negli anni Settanta, ha la fama di far esordire i futuri campioni delle patrie lettere, tra i tantissimi ha pubblicato Martin Amis e Kazuo Ishiguro, Hanif Kureishi e Salman Rushdie, Zadie Smith e Jeanette Winterson), Rebecca Watson firma un appassionato reportage dal Vittoriale degli Italiani, Five are the fingers, and five are the sins. Interessante il sobrio finale. “L’uomo che è stato il prototipo del fascismo, che ha sperimentato, in profonda apatia, gli effetti della fama e del potere, si indebolì. I discorsi si interruppero, ma la scrittura continuò. A 74 anni è morto di emorragia cerebrale, dopo vent’anni passati al Vittoriale, un tempo sufficiente per riposare, per perfezionare la sua già stravagante dimora, per camminare, per leggere, per traviare, ma non, a quanto pare, per rimpiangere”.
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Gabriele D’Annunzio ha giocato la vita, se l’è giocata tutta – e ora è diventato una macchietta, un fumetto. Parto da un dato di fatto. D’Annunzio muore nel 1938, 80 anni fa. L’editoria, dell’anniversario, se ne è voluttuosamente fottuta. Piccole cose per tenaci editori (Il fastello della mirra. Autobiografia, per Bibliotheka; L’uomo che rubò la ‘Gioconda’ per Solfanelli; Italia o morte per Idrovolante; Temperino Rosso ripropone Il piacere mentre Salerno pubblica la Francesca da Rimini), qualche studio eccentrico (Chez D’Annunzio di Marcel Boulenger per Odoya; D’Annunzio. Tra le più moderne vicende di Gianni Oliva per Bruno Mondadori; D’Annunzio e il piacere della moda di Giordano Bruno Guerri per Rubbettino), poco altro. Dove sono i testi inediti, gli studi clamorosi, le antologie divulgative? Cosa è successo? C’è che ci vergogniamo del poeta-soldato, del poeta romanziere, del poeta vertiginoso, dell’uomo che scrisse come un dio (meglio di Oscar Wilde), volle essere onorato come una divinità e oggi è pigliato a uova in faccia. Già. Se negli Usa ogni peto di Hemingway – saggio spurio, lettera prepuberale, racconto osceno nel cassetto – è venduto come un diamante, da noi Hemingway è usato per stigmatizzare il guerrafondaio D’Annunzio (“Chi meglio ha sintetizzato questi sentimenti è stato Ernest Hemingway: ‘Capito il figlio di puttana?/ Mezzo milione di mangia spaghetti morti/ E lui se ne fotte’”, così Andrea Cortellessa nella ‘riveduta’ Antologia dei poeti italiani nella prima guerra mondiale).
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Poco giova, d’altronde, misurare il grado di candida purezza dei poeti – che tali sono perché hanno l’anima lurida, per altro, e sempre qualcosa da farsi perdonare. L’Ungaretti che scrive a Mario Puccini del “D’Annunzio che fa ‘le pose plastiche’ in ginocchio davanti ai feretri… ‘eterna modella’ che mentre in ogni casa d’Italia c’è il lutto… fa il fatuo esteta”, è quello che adorna l’edizione 1923 del Porto sepolto con una Presentazione di Benito Mussolini (che ne scrive come di “una testimonianza profonda della poesia fatta di sensibilità, di tormento, di ricerca, di passione e di mistero”), al quale, si sa, il protagonismo del Vate non andava giù. Così, nell’anno dell’anniversario della morte, chi vuole leggere di D’Annunzio si deve nutrire delle 700 pagine che gli dedica Maurizio Serra nella biografia, D’Annunzio le Magnifique, edita in Francia, da Grasset; oppure fa un giro al Vittoriale leggendo Granta, a Londra. Il resto, sono gli articoli didascalici usciti per il centenario dal ‘volo su Vienna’. D’Annunzio, appunto, ridotto a puro gesto, a ornamento inane, a macchietta.
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Il punto non è cosa ti piace, ma chi sei. Parlare di D’Annunzio – per chi ancora lo conosce – è roba da bar: c’è chi ne difende l’etica, l’egida dell’estetica, chi lo fa a fette con il tagliaunghie – meglio Alcyone, ché il resto è fuffa retorica – chi lo interpreta come virus fascista, con lenti politiche. D’Annunzio, genio lirico totale – fece poesia anche facendo pubblicità – è inafferrabile: ci fosse qualcuno, oggi, a condurci verso la grande sbornia di Fiume (per altro, rileggetevi la Carta del Carnaro, please: “La Repubblica del Carnaro è una democrazia diretta che ha per base il lavoro produttivo e come criterio organico le più larghe autonomie funzionali e locali. Essa conferma perciò la sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione; ma riconosce maggiori diritti ai produttori e decentra per quanto è possibile i poteri dello Stato, onde assicurare l’armonica convivenza degli elementi che la compongono”), chi ha il coraggio di dar fede alle fole di un poeta?
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Per carità, colpa sua: D’Annunzio è l’icona della contraddizione, a forza di voler piacere risulta insopportabile, non possiamo semplicemente leggerlo?
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Vorrei dire un’altra cosa, ora. D’Annunzio fonda l’identità italiana moderna. Letteraria, eroica, ironica, anarchica. Sta nelle nostre vene anche quando vorremmo tagliarcele. Esempio. Il padre di mio zio, piemontese, comunista, ha raccolto i giornali che censiscono la morte di D’Annunzio. Lo zio li ha conservati, per donarli a me, anche se di reliquie m’importa nulla. Mio zio è cresciuto a casa della zia, partigiana onorata dallo Stato, affittava una parte della casa alla sede del PCI locale, gli veniva il conato in gozzo solo a sentir parlare di D’Annunzio. Eppure, in casa custodisce le prime edizioni di molte sue opere. E i giornali. Di cui mi ha fatto dono il Natale scorso. Perché? Perché si fa, perché la poesia si eleva sulle convinzioni politiche, perché D’Annunzio è D’Annunzio. L’elzeviro di prima pagina de La Stampa, 2 marzo 1938, dal titolo vertiginoso (Poeta dei nostri destini), recita: “Gabriele d’Annunzio è morto! D’un tratto, la notizia coglie e percuote le fantasie e i cuori, come alcunché di assurdo e inverosimile. Così immedesimato era quest’Uomo nello spirito di nostra gente, e così vivo; da cinquant’anni era la sua presenza nella storia nostra, e nel pensiero e negli affetti, così sovrastante ed eccelsa, che se non l’idea stessa di perennità, certo, oscuramente, misteriosamente, pareva legata ormai alla sua immagine, eroica, l’idea della necessità”. Alla faccia dei tromboni retorici, poi rimproverano Gabriele… Poco più avanti, a pagina 5, un titolo che ancora turba: Le vibranti giornate che l’Italia prepara a Hitler. Si cita, nel grand tour nazista, anche “La sosta artistica di Firenze”. Intorno a quella ‘gita’, un altro poeta, antidannunziano, Eugenio Montale, scriverà una delle sue poesie più grandi, La primavera hitleriana. D’Annunzio muore, la Storia va avanti. Anche quella letteraria. (d.b.)