29 Marzo 2018

Sean Penn diventa scrittore. E agonizza sepolto da una grandine di stroncature. Da noi sarebbe impossibile: i giornalisti s’inchinano davanti al potente

C’è una immagine che è indelebile, è leggenda. Mystic River. 2003. Filma Clint Eastwood. Forse il suo film più grande. Jimmy Markum si alza dal letto, va alla finestra. Una gigantesca Croce è tatuata sulla sua schiena. I muscoli della schiena guizzano come lampi. La moglie lo abbraccia, in vestaglia. “Perché tu sei il re, tu sei il re…”, dice. All’epoca, quindici anni fa, Sean Penn era il re di Hollywood. Grandi interpretazioni come attore. Film magnetici da regista (almeno due: La promessa e Into the Wild). E ora? Sean Penn, classe 1960, due Oscar nello zaino, s’è rotto le palle di recitare. E ha firmato un libro. Patetico. Le star stonate finiscono per fare una frittata del proprio cervello e a farci due uova così con un libro. L’anno scorso – quest’anno per l’editoria italiana – è uscito un libro di Tom Hanks. Attualmente, in Italy, spopolano i libri di Pupi Avati e di Silvio Muccino. Poco conta. In letteratura conta solo l’opera, mica la griffe dell’autore. Bene. Pare che l’opera di Sean Penn, che s’intitola Bob Honey Who Just Do Stuff (pp.176, $24.00) sia una merda. Una specie di satira antitrumpiana dove c’è un ricco sfondato, Bob Honey, che passa il tempo a fare minchiate. L’editore, ovviamente, esulta, ha beccato l’autore dalle uova d’oro. Dida adorante – “un tornado di parole provocatorie e di immagini stupefacenti, questo è il romanzo d’esordio dei uno dei più acclamati artisti d’America”; badate alla definizione, artista, mica vile attore. Grande scrittore – Salman Rushdie – che si presta a ungere con vaselina la bandella del libro: “Pare strano che un romanzo distopico sia così divertente da leggere, ma è così. Sospetto che Thomas Pynchon e Hunter S. Thompson amerebbero molto questo libro”. Prima dell’uscita del libro, qualche giornale compiacente ha preparato l’evento con recensioni timidamente positive. Poi si sono scaricate le armi della critica giornalistica. Non della critica accademica – che ragiona sulla lunga distanza – ma della critica giornalistica, quella che se bombarda bene riesce a cambiare le sorti dell’editoria serva del mercato. La prima è stata Claire Fallon, sull’Huffington Post. Titolo effervescente – “Il romanziere Sean Penn deve essere fermato” – e stroncatura madornale. Ecco due passaggi: “Bob Honey è l’esercizio di uno che ci mostra il culo per 160 pagine”, colpito dalla sindrome “dell’uomo bianco che si illude di avere una inaudita superiorità intellettuale”. All’accusa estetica – Penn ha scopiazzato da William S. Burroughs, “indorando la pappa indigeribile con qualche frase gergale tratta da Bukowski” – segue la sintesi, risolutiva: “Dio ci salvi dal misero pisciatoio del genio letterario di Sean Penn”. Mark Athitakis, dalle pagine del The Washington Post, limando le scurrilità, giunge alle stesse conclusioni. “Cosa dobbiamo pensare di Sean Penn? Che il suo romanzo d’esordio è un casino”. Conclusione: “L’era Trump deve ancora trovare il suo letterato gonzo che sappia catturare questo momento della storia scrivendo una commedia dell’assurdo. Il lavoro è duro. Sean Penn non ne è all’altezza. Ma, chi può dirlo? Può sempre farci un film”. Come a dire. Sean, smonta dalla penna o dalla tastiera e torna a cavalcare la macchina da presa. Morale. Negli States la sublime arte della stroncatura può ancora essere percorsa. Ha una storia, una nobile genealogia, è il sale della cultura giornalistica. In Italia la stessa violenza che ci si mette nelle ‘inchieste’ giornalistiche non è sfoggiata in campo culturale. Perché? Perché dei libri frega un cazzo a nessuno. E perché l’arte leccaculatoria della recensione è il mezzo più rapido per farsi quattro amici importanti e pubblicare le proprie immonde mutande presso un editore di lusso. La stroncatura, che ha regole precise e inderogabili – esasperazione dei toni e squilibrio di forze: lo stroncatore deve essere infinitamente più debole dello stroncato, perché non si spara in testa a un poveraccio – è espulsa dalla stampa patria. Ci credo. Se in un paese civile la stroncatura: a) fa godere il lettore; b) fa incazzare l’autore (che passa oltre); c) fa pensare l’editore, che forse ci pensa due volte prima di pubblicare cazzate simili. In Italia, la stroncatura, ti fa ingrassare la casella postale di casa manco fosse una donna gravida all’ultima settimana. Che partorisce diffide e querele per diffamazione. Già. Gli scrittori nostri leggono poco e scrivono male. Ma hanno l’avvocato. (d.b.)

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