01 Agosto 2024

“Quest’Anima ha la leggiadria di un enigma”. Un falso d’autore: “The Kasîdah”

Uno dei ‘falsi’ più affascinanti della storia della letteratura occidentale s’intitola The Kasîdah, è stato impresso nel 1880, in foggia di superba eleganza, dall’editore londinese Sangorski & Sutcliffe; promette – nel sottotitolo – di istruirci intorno alle norme di una “legge superiore” (Higher Law). Kasîdah – o meglio: qaṣīda – in arabo significa ode; i componimenti si sviluppavano in distici, in rima. La qaṣīda è il genere principale della poesia islamica classica, come per noi, per dire, il sonetto. In questo caso, The Kasîdah è un poemetto sapienziale, in distici, suddiviso in nove capitoli. Il traduttore dell’opera, “F. B.” – che sta per Frank Baker –, nella nota “al lettore” fa il sunto etico del libretto, d’intonazione biblica:

“L’Autore asserisce che miseria e felicità sono equamente divise e distribuite in questo mondo.

Crede che la coltivazione del sé, con il giusto riguardo verso gli altri, sia il solo, utile profitto della vita umana.

Suggerisce che affetti, simpatie, “il divino dono della Compassione”, siano i più alti godimenti possibili all’uomo.

Invoca la sospensione del giudizio, corredando di giusto sospetto i “Fatti, la più oziosa delle superstizioni”.

Infine, sebbene in apparenza devastante, distruttivo, questo libro mira alla ricostruzione di se stessi”.

Dell’autore, il fittizio Hâjî Abdû El-Yezdî, ci viene detto in appendice, con sfoggio di doti romanzesche:

“Conosco Hâjî Abdû da più anni di quanti voglia ammettere. Originario, si crede, della provincia di Yazd, in Persia, ha sempre preferito definirsi El-Hichmakâni, pseudonimo faceto che significa pressappoco “Di Nessuno, di Nessunluogo”. Ha viaggiato a lungo, con occhi accesi, come appare dai suoi distici. A una naturale predisposizione nell’apprendere le lingue, sommò letture varie, sporadiche, dall’antico cinese e dall’egizio, dall’ebraico biblico e dal siriaco; consultava testi in sanscrito, in slavo (lituani, in particolare), in greco e in latino, in accadico, in berbero, in dialetto nubiano. Non ignorava i trionfi delle moderne scoperte scientifiche. Aveva ogni dote tranne quella di mettere a frutto i propri talenti. Nessuno immaginava che “corteggiasse la Musa”: anche i suoi amici più intimi ignoravano che custodisse le sue Kasîdah in un armadio. Mi confidò il segreto quando ci incontrammo l’ultima volta, nelle Indie occidentali – lascio volutamente nel vago il luogo. Nel farlo, teneva in mano con timore i fogli e si rivolse a me sussurrando “Un tocco di Inverno screzia la mia barba/ gli dèi mi mettono in guardia dall’imprudenza”. I vecchi amici si avvicinavano a lui chiamandolo Nabbianâ, “nostro Profeta”: il lettore avrà capito che il poeta ha un messaggio da trasmettere. Egli predica una fede tutta sua, una versione orientale dell’umanitarismo mescolata a una scaltrezza scettica… Adora con incondizionata dedizione la “Santa Causa della Verità”, perché è bene privo di beni”.

La nota si dilunga tra rivoli filosofici, tenendo insieme Confucio, Novalis, Renan, il sufismo e l’esoterismo cristiano; il libro, stampato secondo i canoni del libro sacro, ebbe una circolazione notturna, per adepti – da allora, sono seguite innumeri ristampe. Il gioco del testo remoto, tradotto e ritrovato, un canone nella tradizione anglofona – dall’Ossian di James Macpherson al Rowley di Thomas Chatterton all’Onuphrio Muralto di Horace Walpole – vira qui in un altrove dell’arte lirica. The Kasîdah non è un libro antico, fortunosamente risorto e ‘riscritto’, ma il testo celato di un maestro vivente, d’Oriente, con la pretesa di introdurci alla “verità”. Siamo a metà strada tra William Blake e le Rubʿayyāt di Khayyam ‘rifatte’ da Edward Fitzgerald, siamo a un passo dal Necronomicon di H.P. Lovecraft.

La vera identità dell’autore fu presto scoperta. Dietro la celata di Hâjî Abdû El-Yezdî, si nascondeva Sir Richard Francis Burton, tra i massimi orientalisti del suo tempo, indemoniato avventuriero. Nato in una famiglia di lignaggio militare a Torquay, nel Devon, acido di carattere, intrattabile – fu cacciato dal Trinity College per aver sfidato a duello un compagno –, Burton dirà, da adulto, di essere cresciuto tra i rom, che lo adottarono come uno dei loro. I genitori si spostavano spesso tra Francia e Italia; il figlio imparò quasi subito le lingue: amava travestirsi, camuffarsi, diventare altro da sé. Ventenne, cominciò a far pratica nei ranghi dell’East India Company, in Gujarat. La sua rapacità nell’apprendere costumi e abitudini altrui destava impressione: alla fine della sua vita, Burton padroneggiava una trentina di lingue e dialetti, tra cui lo swahili, l’islandese, l’urdu, l’ebraico. Naturalmente, parlava con perfezione il farsi e l’arabo. La sua impresa più clamorosa fu il pellegrinaggio alla Mecca, compiuto nel 1853 sotto le spoglie di un musulmano pashtun. Grazie allo stratagemma, Burton giunse nell’area sacra all’islam, inaccessibile a occhi occidentali. Il reportage dalla Mecca gli consentì imperitura fama. Durante il ritorno da quei sacri luoghi, abbozzò la prima versione di The Kasîdah: massone, disse di essere stato introdotto alle segrete verità dei sufi.

Richard Francis Burton (1820-1880)

Inafferrabile, sfrenato, Richard Burton esplorò la Somalia e le sorgenti del Nilo, scoprì il lago Tanganica, diede indicazioni per giungere al lago Vittoria. Fu diplomatico nella Guinea equatoriale, in Brasile, a Damasco – in ognuno di questi luoghi, coordinò esplorazioni, collezionò azzardi. Visse i suoi ultimi anni a Trieste, dove tradusse Le mille e una notte, forse il suo capolavoro. Incuriosito dai costumi sessuali delle genti in cui scelse di vivere, tradusse, tra l’altro, il Kama Sutra e Il giardino profumato, classico della letteratura erotica araba. La moglie, meno disinibita di lui, mandò tra le fauci del fuoco diversi quaderni in cui il marito, minutamente, descriveva le abitudini erotiche capillari dei luoghi in cui era stato. Burton morì a Trieste, nell’ottobre del 1890, per un attacco al cuore; il suo mausoleo, a Mortlake, Londra, riproduce una tenda beduina: simbolo dell’indole al vagabondaggio del caro estinto, ma forse, anche, ipotesi di un nomadismo che continua nell’aldilà.

Come è ovvio, nel misterioso Hâjî Abdû El-Yezdî, Richard Burton celava se stesso. Credeva nell’uomo più che nell’umanità, riteneva vani i plateali, pletorici ‘valori’ – utili a forgiare fedi tiranne e governi ingiusti. Non confidava in vuote didascalie come “bene” e “male”, “inferno” e “paradiso”, i cui confini mutano a seconda dei luoghi e delle circostanze e che spesso fungono da giogo – se non da ghigliottina. Fondeva, per così dire, lascivia e buon senso, culto del piacere e scetticismo. Forse voleva farsi maestro spirituale – ma accade così di rado un uomo in grado di scardinare le inferriate dello spirito. Ci resta questo libro, il testamento di un uomo in corsa, che amava svestirsi del proprio nome e fare del proprio cuore un caravanserraglio, una stazione di posta.

***

The Kasîdah

I

L’ora è prossima; la Regina in declino si muove per governare la prossima notte;
sua corona è lo scintillio della stella, suo trono l’astro di cinerea luce:

la coda del Lupo spazza le palizzate dell’Est e genera una oscurità profonda
l’Alba mostra il cranio, splendido, e sospira imitando il vento:

gli altipiani catturano il bagliore orientale, le savane sono viola;
nebbia perlacea, orgoglio del mattino, si libra come incenso per onorare il cielo.

Nitrito di cavalli, gemito di cammelli, splendono le torce, le fiamme fuggono;
il caravanserraglio si inabissa e anche l’uomo, frastornato, ara di frastuoni l’aria.

I Cancelli d’Oro oscillano, il Sole si mostra con la fronte fiammeggiante;
nuvole di rugiada si spezzano in fiotti di luce, la terra è imbrattata di chiarore.

Lentamente, tutto diventa selvaggio e il Giorno intona i suoi inni,
tristezza mi ottura il cuore, le orecchie desiderano il campanaccio dei dromedari:

oltre i deserti e i pianori di ghiaccio, oltre l’orrido colle e l’orbata valle
dimora la macabra bestia, il Ghoul, demone dei luoghi ostili, guida dei malvagi.

Breve è la gioia del palmeto che si inchina sull’arsa piana
pieno di pensieri, di ombre che frusciano, sogni di piogge e di primavere…

Ma noi? una fitta strazia il cuore: perché incontrarci
sul ponte del Tempo, scambiare un saluto e partire?

Ci conosciamo per dividerci: perché dunque incontrarsi?
Violenta curiosità dell’uomo, che non sa nulla dell’Onnipotente.

Perché unirsi per separarsi, perché sopportare il giogo del dovere?
Il tiranno Fato tortura le sue vittime senza chiedere il permesso.

Una donna luminosa, felice, contrasta contro il grigio mattino;
che lo scriba non aggiunga alle cronache anche questo giorno.

Gli occhi, la mente e il cuore sono tristi – un dolore mi dilania:
tutto muta, passa, muore: ahimè, il giorno natale è un infortunio.

Amici della gioventù, addio! Forse ci incontreremo ancora
ma gli anni forgiano nuovi uomini ed è nostra la sparizione.

La luce del mattino è sbocciata in mezzogiorno, è pallida:
addio! Svanisci dalla mia vita come muore il tintinnio del cammello.

*

V

Il Bene non esiste, non esiste il Male, meri capricci della mortale volontà:
ciò che mi fa agire bene è il Bene, ciò che mi fa del male è il Male:

cambiano a seconda del luogo e delle origini, in poco tempo
il Vizio diventa Virtù, il Bene viene bandito come un crimine.

Come fili si incrociano e si slegano, si fondono e si separano:
soltanto Khizr [Elia] sa vedere dove comincia l’uno e finisce l’altro…

“L’uomo allo stato naturale è disegno di Dio”, dice il saggio incolto;
“L’età primordiale dell’uomo era il suo oro”, sogna il poeta:

delirio, ignoranza! Ben prima che l’Uomo cominciasse a respirare sulla Terra
il mondo era una continua successione di angoscia, tortura, predazione, Morte;

la “bella giovane Terra” partorì la più spaventosa razza di mostri
e poi il caldo, ardente, i ghiacci, i vapori nauseabondi.

*

VII

Non ha Anima, l’uomo, esistono soltanto le cose, statico nulla,
suoni, parole che generano ciò che l’occhio vede, ciò che l’orecchio gode.

Dov’è l’Anima della bestia selvaggia smarrita nelle foreste primordiali,
che forma ha e quale ruolo nel piano della natura?

Quest’Anima ha la leggiadria di un enigma: chi ama la vana dualità?
Sono abbastanza: non ho bisogno di un “io” sommato a un “io”.

Parola, parole che tentano un significato! L’Anima è l’ultima arrivata:
non basta il soffio della Vita a far funzionare la macchina della materia?

*

VIII

Né Paradiso né Inferno, meri sogni di bimbi, strumenti
del Ricattatore che spaventa i vili con la sua cieca astuzia.

Impara dagli onnipotenti Spiriti del passato: Inferno
e Paradiso sono in questa vita, sta a te abitarli.

Insopportabile per il cuore è la morte: che l’Essere non termini nel Niente!
Amore ha reso gradevole il sentimento finché il Prete non lo ha pervertito.

Non voglio questo né quello: di te, di me, sono stufo;
se andiamo incontro alla muta cosa ne sarà di te, di me?

Fai ciò che il coraggio ti intima di fare, non aspettarti applausi;
il nobile muore come l’infido, chi custodisce le leggi come chi se le forgia per sé.

Un’altra vita? Sarebbe morte vivente, pianoro di spettri
un respiro, un vento, un suono, una voce, il dolce tintinnio del cammello.

*In copertina: Mariano Fortuny, Angelo, s.d.

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