
“L’oggi è l’ultimo termine”. Su una poesia di Marina Cvetaeva
Poesia
Giorgio Anelli
I polsi avvitati da un paio di manette – corolla di coercizione. Pallidi – ultimi squarci di libertà scortati da un Caronte in divisa. Vestibolo d’inferno è il rio delle Convertite. Riva estrema dell’isola della Giudecca, frangia lagunare della ‘città più inverosimile del mondo’ – Venezia, secondo Thomas Mann.
Una croce inconclusa a crepare le mura esterne del penitenziario femminile. Legno in fuga tra fughe carminie, di mattoni, flagrante tentativo d’intercettare una finestra ornata di sbarre. Vaticinio di crocifissione a metà – pena senza morte.
I piedi piagati di Maurizio Cattelan – fra il Cristo morto del Mantegna e Caravaggio –, chiodati dall’occhio della facciata, epidermide della casa di reclusione. Stridio da contraddizione in termini. Fa il suo ingresso, la donna – dall’accesso riservato alle detenute. Categoria della parola ch’è sentenza senza appello. Nessun happening o artistica performance, solo vita che si palesa, inattesa.
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Con i miei occhi – reca il pannello giallo della Biennale impresso ai bordi del canale. Il carcere femminile della Giudecca ospita il Padiglione della Santa Sede all’Esposizione Internazionale d’Arte – la veste di Commissario la indossa un poeta d’eccezione, il cardinale José Tolentino de Mendonça, Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione.
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La malia del rito si compie nell’attesa. Nel gorgo dell’ignoto. Condicio sine qua non per varcare le porte blindate del penitenziario è spogliarsi di ogni contatto col mondo esterno – entriamo, grumi di cellule privi di cellulari. Bastano gli occhi, per calarsi all’inferno – essenziale è non voltarsi, fino all’orlo della fine, per traghettare qualcosa indietro.
Virgiliane, in kimoni per metà bianchi e metà neri – didascalico dualismo –, due detenute affrescano il percorso di delucidazioni, l’essenza delle opere incrociate, il loro dialogare con gli artisti. Nel muto cortometraggio di Marco Perego e Zoe Saldana, una donna sta per riacquistare la libertà – un’altra carcerata le dona una ciocca di capelli, marziale atto di sorellanza, ricorda il passaggio di grado delle geishe. Protagoniste ideali, le detenute fanno da comparse, estemporanee attrici. La Biennale come possibilità di un’isola – in mezzo a un tempo senza tempo, sentirsi parte di qualcosa. Stranieri ovunque – il tema dell’edizione in corso presta il fianco alla retorica, ma in carcere non residua spazio per moti compassionevoli e ipocrite empatie, solo nuda realtà. Nessuna ‘mistica della prigione’ – la direbbe così, Josif Brodskij. Qui dimora lo straniero – l’uomo straniero a se stesso.
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Legge i suoi scritti, una delle due donne recluse – poetici versi, una lettera all’amata, pensieri di nitida violenza. Punta al cardine delle parole, con turbe da poeta inconsapevole – le cose, se definite, finiscono, asserisce. ‘Inferno’ è parola ben scandita; ‘amore’ resta annidata in un livido nembo. La privazione del cuore rimbomba come pena accessoria. Scrivere, impone la responsabilità di una scelta. Confessa, lei, ieratica – scevra da virtuosismi rieducativi – il volto oscuro dello spazio-loculo in cui “non esistono amicizie ma solo convenienze”, dove “se stai affondando ti posano una mano sulla spalla per aiutarti ad andare giù”. Qui cerca deserto e trova rumore. Nessuna requie. Fine pena mai. Urla, pianti, il chiacchiericcio che accompagna sommesso l’aria, il ferro delle regole, quello dei ‘blindi’ – anche le parole sanno fare rumore. Ci rivela il suo nome, ma un inquieto pudore mi impedisce di riprodurlo, consegnarlo per vezzo di tangibilità. Consegnare equivale a tradire – quante volte avrà già incontrato il suo Giuda? In questo poco spazio e troppo tempo, fra “cuori puri e cuori marci”, la sua individualità s’è rotta, che almeno l’identità resti incorrotta. Seguita a leggere – i miei occhi si schiudono in una laguna di lacrime. M’infilza, diurna falena, con una scheggia della sua croce.
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L’orto, quindi. Successiva stazione di questa via crucis impollinata d’arte. Orto come arresto. Orto come poesia. Un capanno degli attrezzi – s’intuisce il lavorio della terra che caglia lo spirito. Epicentro, un tavolo, bianco come ossa – altare baciato di luce. A decorarne la matrice, una finestra spalancata. L’unica priva di sbarre in tutto il penitenziario. Ai suoi margini, sono posizionate delle poesie. La parola come libertà – sguardo sull’abisso e sull’infinito. Riflettono, i versi scelti, la suggestione del tema – Con i miei occhi. Gli occhi tradotti in visita possono portare via le poesie – la poesia è l’unica a poter entrare e uscire da qui a suo piacimento. Farle entrare è stato un privilegio, muto, di cui ho potuto beneficiare, selezionandole verso per verso. Si sono fuse a quelle composte dalle detenute – i loro pensieri, mescolati ai grandi poeti di ogni tempo. La parola non ha sbarre che tengano.
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Parola è già un luogo. Giudecca – come Giuda, ma anche giudizio. Alla Giudecca, Dante incontra il male primigenio, ne scala le ali, per uscire dall’Inferno – nel canto ultimo, destinazione dei sommi peccatori, i traditori del mondo. Nel cortile del penitenziario, ammantato di un grigio che arriva a liquefare la vista, un’installazione di Claire Fontaine s’illumina al neon: “Siamo con voi nella notte”. Speranza, per le anime gelate di qui, è uscire a riveder le stelle.
Venivano inviate le ex prostitute, alla Giudecca. Donne peccatrici da confinare in se stesse. Nell’antica Venezia, l’attuale carcere era un convento – il convento delle Convertite. Ci guidano, le due detenute, fino alla chiesa dedicata alla Maddalena, vestale della categoria, nell’immaginario comune. Alla donna che ha molto amato, sono stati perdonati i suoi peccati, reca un’iscrizione – spiega, ancora, la nostra guida, che vive serrata in una monastica regola senza avervi aderito. Dal soffitto, pendono bozzoli femminili – a piantarli è stata l’artista brasiliana Sonia Gomes –, sono intessuti nell’ascesa, costringono gli occhi a puntare all’orto del cielo.
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Occhi in ogni dove. Occhi della secondina che stringe un mazzo di chiavi massicce e dorate, di angoscia fiabesca. Occhi di telecamere ovunque – orwelliana realtà a controllare presente, passato e futuro. Occhi squittiscono da fessure invisibili. Occhi, estranei, nell’intimità degli incontri coi propri cari. Per alcune, la sala colloqui è un pozzo di solitudine – non hanno nessuno, fuori.
Altre sono madri – in una stanza, nivea, sono eternate le immagini dei loro figli. O delle stesse detenute da bambine. Le ha realizzate la francese Claire Tabouret – a lei si deve questa zona franca, muro d’innocenza. Con la sua arte, ha sbarrato l’accesso al male.
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L’arte. La vita. Si fondono, due atomi in galera – fissione nell’asfissia. La reazione è materia preterintenzionale – la messa in crisi dell’intera Biennale d’arte. La veemenza del contesto cannibalizza l’estetica dell’opera, ma l’arte qui introdotta libera la vita. La donna reclusa può, per la prima volta, rappresentare il suo io senza veli, mimetizzandolo nello sciabordio della poesia. Nel distretto in cui la vita supera la rappresentazione della vita. Su quest’isola cinta dalle acque del suo Cocito, in cui morte e vita bordeggiano la geografia emotiva, surreale, di Venezia. Gondola, feretro, cella – paiono la stessa icona.
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Tempus fugit. È ora di abbandonare “il luogo dove conviene armarsi di coraggio” – per usare le parole del poeta all’Inferno. La donna-Virgilio si volta, detiene i segni della detenzione sul volto, avanza a ritroso a passi lenti. Marcia funebre del rientro. Sibilla veneta, mi sibila un ‘ciao’ – la forma della parola, priva di formalismo, è il terminale della sua autenticità. Esco e la scorto fuori, nel tremito della libertà. Con i miei occhi.
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Neve acquosa sulle tue ciglia,
angoscia dentro i tuoi occhi,
e tutto il tuo aspetto è composto
come in un unico blocco.
(Convegno, Boris Pasternak)
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Quando le parole smettono di fluire, divento pazzo.
Quando non potrò più lodare il sole
mi caverò gli occhi.
(Poesia, Paolo Jašvili)
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Ogni uomo porta la sua faccia in mano
e faccia dietro faccia sino agli occhi
abbracciato con sé muore lontano.
(Prima domenica, Alfonso Gatto)
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E fissando i neri occhi su di me,
Ricolmi di segreto dolore,
Come il tuo acciaio sul tremulo fuoco,
Erano a volte buio, a volte splendore.
(Il pugnale, Michail Lermontov)
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La carne cerca nelle carni
le sorgenti e trova gli occhi
che si schiudono come fiori.
(Estate, Scipione)
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Il tuo nome − ah, non si può! −
il tuo nome è un bacio sugli occhi,
sul tenero freddo delle palpebre immobili.
Il tuo nome è un bacio dato alla neve.
(Versi per Blok, Marina Cvetaeva)
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Mi sono risolto.
Mi sono voltato indietro.
Ho scorto
uno per uno negli occhi
i miei assassini.
Hanno
– tutti quanti – il mio volto.
(Rivelazione, Giorgio Caproni)
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È rimasta laggiù, calda, la vita,
l’aria colore dei miei occhi, il tempo
che bruciavano in fondo ad ogni vento
mani vive, cercandomi…
(Passo d’addio, Cristina Campo)
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Morte
giungerà troppo tardi a darci aiuto.
Quale il fine se non l’amore che fissa morte negli occhi?
Una città, un matrimonio che fissi morte negli occhi
L’enigma di un uomo e di una donna
Che infatti se non l’amore fissa morte
negli occhi; l’amore che genera le nozze,
non infamia né morte
(A che parlare…, William Carlos Williams)
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nel mover gli occhi in lagrimosi giri
fermarsi i fiumi, e ‘l mar depose l’ire
per la dolce pietà de’ miei martíri
(Veronica Franco)
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Autunno, occhio di cristallo,
guardami:
come te sono
passione coniugata al gelo,
una verità più severa voglio
proprio ora
desidero il bianco
ramo raggelato.
(Autunno, occhio di cristallo, Margot Ruddock)
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i corpi a morsi si scardinano
gli occhi bruciano al buio
i sogni penetrano nella carne
i corpi rotolano come troni rovesciati
(Dario Villa)
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O lasciate lasciate ch’io mi perda
ombra nell’ombra –
gli occhi
due coppe alzate
verso l’ultima luce –
(Largo, Antonia Pozzi)
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La nostra vita si leva dal fango
come un crinale caucasico,
sotto una pioggia di avvoltoi che beccano
i nostri occhi pieni di luce.
(Epistola al signor Perilli, Angelo Maria Ripellino)
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L’anima vorrebbe essere una stella,
ma non già quando esse, come occhi vivi,
dal cielo della mezzanotte
guardano al mondo addormentato,
sì a giorno, quando esse, occultate
dal fumo dei solari ardenti raggi,
come divinità più luminose
ardono nel non visto etere puro.
(Fëdor Tjutčev)
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Rimani davanti ai miei occhi, e lascia
che il tuo sguardo infiammi i miei canti.
(Rimani davanti ai miei occhi, Rabindranath Tagore)
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davanti alle chimere chiudo gli occhi;
eppure remote speranze
mi agitano talvolta il cuore:
mi rattristerebbe lasciare il mondo
senza una traccia impalpabile
(Aleksandr Puškin, Evgenij Onegin)
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Ma devi desiderare
la visione senza oblio
sapienza che non affonda
nel latifondo dei nostri occhi.
Osserva la vita intera
dal trono, dall’unità, dal grembo.
(Matrix, Dorothy Wellesley)
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Cristo agisce in diecimila luoghi,
diletto in membra, diletto in occhi non suoni,
diletto al Padre sui tratti dei volti umani.
(Gerard Manley Hopkins)
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Alle Stelle, mia Sacra Famiglia
lascio i miei occhi avvezzi a pregare,
poiché Dio li ha presi – orientando eroicamente
le sue sillabe in ampie brevità.
(Testamento, Margiad Evans)
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Quando così ti parlo e gli altri
in un denso fumo si rialzano
si guardano attorno e lasciano la sala,
sull’orlo dei tuoi occhi compare
un glutine di torpida inconsistenza spirituale;
perdi conoscenza.
Presto sarà l’inverno e
tu ancora non capisci che la caduta è eterna.
(Alessandro Ceni)
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Questa virtù d’amor, che m’à disfatto,
da’ vostr’occhi gentil presta si mosse:
un dardo mi gittò dentro da ‘l fianco.
(Guido Cavalcanti)
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Questa è l’ora dei volti senza orbite, degli occhi
aperti come pozzi nelle tenebre
dove il verme tombarolo s’incapsula nelle vertebre.
Liberaci dal male, nostro Padre celeste.
(Compieta, Marie Noël)
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I will always love you
and think of you with bitterness,
standing on the corner with your life
passing before your eyes.
(The Past, Denis Johnson)
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I fellowed sleep who kissed me in the brain,
Let fall the tear of time; the sleeper’s eye,
Shifting to light, turned on me like a moon.
(I fellowed sleep, Dylan Thomas)
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Das Auge war empor gewandt,
Halb auf zum Kuß der Mund.
Er sah das Werk von seiner Hand,
Und Amor schoß ihn wund.
(Pygmalion, Johann Wolfgang Goethe)
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Dans la source de tes yeux
vivent les nasses des pêcheurs de la mer délirante.
Dans la source de tes yeux
la mer tient sa parole.
(Éloge du lointain, Paul Celan)
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Придут незаметные белые ночи.
И душу вытравят белым светом.
И бессонные птицы выклюют очи.
И буду ждать я с лицом воздетым
Verranno furtive le notti bianche.
E scaveranno l’anima con la bianca luce.
E insonni uccelli mi beccheranno gli occhi.
E aspetterò con il viso arreso.
(Verranno furtive le notti bianche, Aleksandr Blok)
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Mis ojos, sin tus ojos, no son ojos,
que son dos hormigueros solitarios,
y son mis manos sin las tuyas varios
intratables espinos a manojos.
(Mis ojos sin tus ojos, Miguel Hernández)
*I versi qui riportati sono frutto di una selezione operata da Fabrizia Sabbatini per il Padiglione della Santa Sede alla Biennale d’arte di Venezia, della quale si riproduce una breve scelta.