Pirandello è il “grande frainteso” di cui nessuno conosce il segreto
Teatro
Andrea Caterini
«Sono sicuro che qui, tra queste colline, tra questi campi coltivati a grano, in mezzo a questi noccioleti bassi e fitti, su questi tornanti che non finiscono mai, ci siamo già passati». «Le Langhe sono così» mi aveva detto Federico senza neppure alzare la testa, mi sedeva accanto mentre ci spostavamo in macchina da un set all’altro e ripassava distratto il copione, «ti danno l’impressione di conoscerle già, ma perché se le hai percorse una volta, ti sembra di girare in tondo, come non ti fossi mai mosso dal punto di partenza». Erano le sue terre, quelle delle estati della sua infanzia, e quindi mi fidavo, lasciandomi guidare. Poi, svoltando l’ultimo gomito di curva, appare un cartello che mi commuove. È l’insegna di San Benedetto Belbo. Parcheggio la macchina nell’unica piazzetta, davanti la chiesa. C’è una foto che ricordo benissimo. In fondo il campanile, poi, la strada segue in salita la linea della prospettiva tra un nugolo di case in pietra viva. Su quella strada, verso il centro dell’obiettivo, cammina fiero Beppe Fenoglio. San Benedetto è il suo paese, quello del “parentado” paterno, quello in cui trascorreva tutti i fine settimana e le estati, prendendo una corriera da Alba. San Benedetto è lo spazio dell’immaginazione. Fenoglio non è il solo scrittore ad aver fatto di un paese un intero mondo. Ma forse è il solo che è stato capace di concentrare ancora di più l’attenzione, facendo accadere tutto dentro un’osteria. Oggi la censa di Placido non c’è più. O meglio, non è più un’attività commerciale, quella in cui tutti andavano a comprare beni di prima necessità, o si fermavano a bere nebbiolo o barbera e giocare a carte per interi pomeriggi. Ma la porta d’ingresso è la stessa, con quei tavelloni di legno spesso, con quelle cerniere grosse e cigolanti. Il sindaco ci fa entrare, dice che la stanno ristrutturando e che presto diventerà un luogo turistico, una sorta di spazio letterario per gli amanti di Fenoglio. Insomma il contrario di quello che ha rappresentato nei suoi libri. La vita che si trasforma in marketing. Nulla di sconvolgente. Non stiamo qui a far le verginelle. Eppure entrando chiudo gli occhi, e mi sembra di sentirle ancora le voci del dottore che beve e fuma a scrocco e farebbe di tutto per non curare nessuno, dell’allevatore che si ferma a mangiare un boccone dopo aver passato la mattinata al mercato comprando due vitelli. Sento le discussioni, i pettegolezzi di figli che non sono dei genitori ma di qualche scappatella amorosa che lenisce l’immobile ferocia del tempo, o del prete che dopo il confessionale e i padre nostro si sfila la tunica in canonica, lo schiocco dei ceffoni che partono dopo una partita finita male; le ciniche battute, le risate, la noia; il rumore di «madama corriera» che arriva in alta Langa tutta impolverata, o quello della pioggia e del vento, che quando si incanala tra queste colline fischia da mettere paura; il silenzio dei morti nel cimitero («Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra», leggevo nella Malora), e quello di chi, stanco della vita, s’ammazza, prendendo coraggio da un bicchiere di Barolo, scendendo al torrente, tra boschi accecati di nebbia. Dentro l’osteria accadeva il mondo intero.
La vita di un paese – non di una provincia, non di una città – pochi hanno saputo raccontarla come Fenoglio. Se penso ai contadini del nord e del sud Italia di un secolo fa, mi dico che la differenza tra gli uni e gli altri era nel possedere, i secondi, un senso del mito e del sacro – un mondo di magia – di cui i primi erano assolutamente privi. La realtà, qui sulle Langhe, non aveva altro significato che se stessa. E forse proprio per questo è insopportabile. È l’incapacità di immaginare un significato diverso per ciò che accadeva a renderla intollerabile, quasi una prigione. Quanta rabbia trattenuta, quanti morti ammazzati, quanti suicidi nelle pagine di Fenoglio. E non ci si toglie la vita solamente per la miseria, la disperazione, la povertà. Ma perché lo spazio non ha vie di fuga, è troppo stretto, strozza la gola. Fenoglio è infatti uno scrittore che non conosce metafora, ma questo non fa di lui un neorealista, né tanto meno un narratore didascalico. Questa era davvero la “Malora”. Una realtà uguale a se stessa, che non può, non sa immaginarsi diversa da quello che è.
Fuori da ogni romanticismo, o arcadiche idee pastorali, la nostra storia contadina è una schiena spezzata all’infanzia. La malora le racconta come nessun altro libro le campagne e le colline delle Langhe, quelle intorno la città di Alba e tagliate dal Tanaro all’inizio del secolo scorso. Quando parliamo di famiglia come radici, dovremmo ricordare che queste, le radici, sono anche una ferita. Erano i tempi della mezzadria. I mezzadri erano povera gente che chiedeva ai padroni di lavorare la loro terra e di offrirgli un alloggio. In cambio, il padrone riceveva metà della produzione. Era una vera e propria forma di baratto, e sempre con il baratto, e quasi niente con i soldi, ci si procurava ciò di cui si aveva bisogno. Un pollo, un quarto di manzo, un’altra qualsiasi bestia allevata, poteva essere scambiata con un indumento cucito da un sarto. L’Italia è stata fino a poco fa anche questo. Storie di uomini che hanno sacrificato tutta la vita per costruire il paese in cui viviamo oggi. Uomini che hanno saputo anche vedere molto lontano. Quando la terra era poca e poco se ne ricavava, i figli, non i figli a cui si corre dietro col cucchiaio per convincerli a mangiare la minestra preparata, li si rincorreva per prenderli a calci nel culo, o per spingerli, con quel calcio, a lavorare da altri padroni, da altri mezzadri per un tozzo di pane e due soldi da mandare a casa, se avevano già le braccia buone, ancora adolescenti, e la spina dorsale dritta; oppure li si spediva in seminario, perché si era convinti che i preti, di fame, non morissero mai, e un figlio lontano da casa, nonostante il dolore, era pur sempre un figlio di meno a cui dare un piatto di polenta la sera. «I nostri padre e madre ci spiegavano i loro affari non più di quanto ci avrebbero spiegato il modo che ci avevan fatti nascere: senza mai una parola ci misero davanti il lavoro, il mangiare, i quattro soldi della domenica e infine, per me, l’andare da servitore». La memoria a volte mente. Ci si costruisce un immaginario su qualcosa che, non avendolo vissuto, ci pare di poter idealizzare. La verità è che la campagna, per chi la campagna l’ha vissuta quando non c’era alternativa, era una maledizione. Ma non è vero che la terra non tradisce, solo che anche chi tradisce in realtà si offre in dono, se è vero che “tradire” è pure un “trasmettere”, un “consegnare”. L’antropologia nazionale passa per questo tradimento, per questa ferita che sono dono e maledizione.
Nonostante fossi venuto molte volte e avessi percorso queste zone dalla cime delle Alpi Marittime ai suoi paesi collinari, fino a valle, dove il Tanaro taglia come una cesoia il falso dal vero, l’abito da sera dagli stracci da lavoro, insomma, le Langhe dal Roero, la sensazione che avevo era sempre la stessa. Il Piemonte, anzi, la provincia di Cuneo, erano circondati da un’aurea di morte che mi pungeva il petto, mi metteva addosso il desiderio di fuggire – «Della malora non se ne sono mai davvero liberati», diceva Federico. Non sarei stato capace di abitare qui, eppure, per caso o per volontà, ci tornavo, attratto come lo si può essere da quei pericoli che non riusciamo a evitare, che addirittura facciamo in modo capitino. Anche Federico sembrava cambiare il suo umore; la sua feroce ironia ligure qui diventava malinconica. A ogni tornante mi ripeteva che tra questi dolci pronunciamenti della terra, in quella borgata che portava il suo stesso cognome, Quaranta, era seppellito, nella cappella di famiglia, suo padre. Chi è rimasto orfano in età adulta come lui e come me, invecchia prima; o addirittura il contrario: sente la necessità di tornare alla propria infanzia, di poterla, almeno emotivamente, rivivere, perché troppo presto ha dovuto trasformarsi in padre del proprio stesso padre. «Voleva riposare per sempre qui, coi piedi sulle Langhe e la testa rivolta al Monviso, che è la nostra montagna, il nostro faro, la prima cosa che si osserva al mattino, quando ci si sveglia prima di una giornata di lavoro per vedere se da lì, da quella cima, il tempo muterà in meglio o in peggio, e l’ultima che si ringrazia prima di andare a dormire, se tutto è andato bene, o si bestemmia, se un temporale ha mandato in malora il raccolto, coprendolo di sassi e fango che come furie si abbattono sui campi quando il Tanaro si gonfia».
Il Tanaro. Il nome forse deriva dal celtico: “Taranus”, o dal britannico: “Taran”, che vuol dire tempesta, tuono, dio del temporale. Ricordo una pagina del Partigiano Jonny in cui Fenoglio restituisce bene un sentimento di paura che questo corso d’acqua può metterti addosso. «Il sole non brillò più, seguì un’era di diluvio. Cadde la più grande pioggia nella memoria di Johnny: una pioggia nata grossa e pesante, inesauribile, che infradiciò la terra, gonfiò il fiume a un volume pauroso e macerò le stesse pietre della città». Sono convinto però che il vero talento di Fenoglio non sia nella lunga narrazione, nel romanzo, dove la tensione narrativa molto spesso scema, e la costruzione diventa argillosa; e nemmeno nell’epica partigiana, in una visione politica per niente ideologica e tutta esistenziale, ma nella forma breve, nel racconto, dove riesce a centrare l’attenzione su attimi di vita – appartenga questa alla disperata vita di paese, o all’esperienza di quei ragazzi (i peli ancora morbidi della barba) che imbracciavano il fucile vivendo alla macchia -, anche singoli episodi che spalancano la visione di un mondo intero.
L’incipit di uno di questi ritratti di vita quotidiana è folgorante, «Nostro padre si decise per il gorgo, e in tutta la nostra grossa famiglia soltanto io capii, che avevo nove anni ed ero l’ultimo». Tutto si focalizza in un’immagine. «Il gorgo», che ritorna numerosissime volte nelle pagine di Fenoglio e qui proprio come titolo della novella, non è altro che una sineddoche, ma non soltanto di un corso d’acqua, del Tanaro così come del torrente Belbo, che attraversa l’Alta Langa, ma anche di un pericolo imminente – in definitiva, è l’immagine stessa della morte. Non credo che Federico lo avesse letto, ma parlandomi dei suoi ricordi con quella dolcezza a me tornava in mente quel ragazzino che si rende conto che il padre, annunciando di andare a sistemare delle fascine nei campi vicino al torrente dopo un temporale, in realtà stesse pronunciando il suo addio alla famiglia e alla vita. Il figlio lo segue. Il padre lo respinge a sberle e a calci. Poi, quando arriva davanti al gorgo, il ragazzino è ancora lì, silenzioso e tenace, «Ma arrivammo insieme alle nostre fascine. Il gorgo era subito lì, dietro un fitto di felci, e la sua acqua ferma sembrava la pelle di un serpente. Mio padre, la sua testa protesa, i suoi occhi puntati al gorgo ed allora allargai il petto per urlare». È in quel momento che l’uomo comprende che è suo figlio ad avergli salvato la vita, una vita che pure maledice. «Tornammo su, con lui che si sforzava di salire adagio per non perdermi d’un passo, e mi teneva sulla spalla la mano libera dal forcone ed ogni tanto mi grattava col pollice, ma leggero come una formica, tra i due nervi che abbiamo dietro il collo». Anche a me adesso veniva in mente mio padre e i suoi ultimi attimi di vita. Steso, inerme, in un letto d’ospedale. Chiedeva acqua e mi sembrava una violenza indicibile non potergliene dare. Con il braccio buono si era strappato via la mascherina dell’ossigeno. Quando gliel’avevo rimessa sembrava avere già dimenticato il suo gesto, entrato di nuovo in quel buio dentro cui non potevo abitare. Nessuno potrà mai sapere un corpo semicosciente in quale spazio di mistero agisce, quale lingua pronuncia per la prima volta, e chi sia l’interlocutore dei suoi monologhi. Sentiamo soltanto che la vita passa tutta lì – il suo principio e la sua fine -, ma che non riusciremo mai veramente a trovarle un significato. Aiuto era stata l’ultima parola. Una carezza, poi. Anzi no. Mi aveva poggiato tutta la mano sulla guancia e l’aveva tenuta immobile qualche secondo prima che le forze cedessero. Capivo che l’eternità passa come una scarica elettrica su gesti come questo: sul pollice di un padre che gratta leggero i nervi del collo del figlio, su una mano che si poggia su una guancia. Un gesto che unisce appunto il principio e la fine. Così, la nostra fragilità può emergere senza alcun controllo mentre le nostre difese crollano. Ci si sente nudi. E vuoti. E troppo uomini; tanto che vorremmo tornare bambini, farci proteggere come un tempo; un tempo che si è capovolto troppo rapidamente. D’un tratto, il posto che occupava dentro di noi quel bene lo sentiamo esplodere, e noi troppo piccoli per contenerlo. Era questa la sensazione che provavo io, e che molto probabilmente, ora che parlavamo in quello spazio di intimità che si era creato tra noi, provava anche Federico.
Seguivamo il ritmo arzigogolato delle colline – il motore della macchina su di giri, tirato com’era tra seconda e terza -, costeggiavamo il Tanaro anche nelle sue zone più selvagge, in quella parte in cui la terra, milioni di anni fa, era franata, creando una separazione tra Langhe e Roero e mostrando pareti di roccia argillosa, calanchi che si aprivano come una lama di coltello rivelando la loro origine geologica. Un silenzio senza pesantezza, condiviso, era sceso tra me e Federico. Forse per quanto ci eravamo confidati, o per il paesaggio che ci si presentava, o ancora per come le due cose si stessero miscelando nella mia mente, continuava a martellarmi la scatola cranica la parola “principio” e cosa volesse dire esattamente. La utilizziamo con un doppio significato. Nel primo caso parliamo di principio come punto di partenza, origine, causa, fondamenta da cui nasce qualcosa: una forma di vita, sia questa geologica, naturale, umana. Nel secondo caso, invece, diciamo: “è una questione di principio”, a intendere che esiste un’idea basilare e astratta alla quale facciamo riferimento e che ci rende fermi nella nostra posizione. È il cristianesimo ad aver fuso i due significati. Nel Vangelo di Giovanni troviamo scritto: «In principio era il Verbo». L’origine del tutto, l’origine della vita stessa, è in un’idea, in una visione immutabile e generatrice, in un pronunciamento, in una voce alla quale non sappiamo attribuire alcuna lingua conosciuta. Qualcosa che non conosceremo mai fino in fondo, che resta in uno spazio di mistero ma alla quale ci appelliamo, alla quale facciamo continuamente riferimento. Il principio, mi dicevo, è la necessità che non conosciamo ma che provoca in noi una pulsione di vita, quasi attingessimo da lì, da quella sorgente sconosciuta, ciò di cui abbiamo bisogno per vivere – noi che sopravviviamo ai morti e i morenti a cui la morte parla.
Non ero nella predisposizione giusta per incontrare nuove persone, mi bastava il carico emotivo di cui ci eravamo non so se liberati o gravati, e forse per questa ragione Pier Paolo, un imprenditore nel campo delle nocciole, non mi aveva fatto l’impressione che sperava lui e che speravo io, che dovevo farlo parlare davanti a una telecamera. Non faceva che riferirci dei bilanci positivi, della sua visionarietà imprenditoriale, delle innovazioni tecnologiche, di quanto fosse il solo imprenditore delle Langhe a mettere ogni anno sotto gli occhi dei competitor gli utili che aumentavano. Mi ero ritirato, nascosto in quel mutismo che utilizzavo per proteggermi dal mondo, alle volte, respingendolo quando sentivo la necessità di proteggermi, di restare raccolto. Mi domandavo solamente quando fosse avvenuta la trasformazione, il mutamento; quando questa terra maledetta fosse diventata la patria della finanza. Nell’immediato dopoguerra, i noccioleti, i cui coltivatori non sapevano più cosa farne perché nessuno ne acquistava i frutti, diventano una ricchezza nelle mani di un uomo. Un uomo che ha una visione che cambia la vita di molte persone. Nella sua azienda di dolciumi, decide di far lavorare tutti i contadini che vivono di stenti. Li passa a prendere e dopo il lavoro li riporta a casa organizzando un pullman che attraversa ogni giorno tutte le campagne delle Langhe. Quei contadini diventano operai. Ma non si limita a questo. Decide che le nocciole che fino a quel momento marcivano sugli alberi, sarà la sua stessa azienda a comprarle. I contadini, così, oltre a un salario garantito, sono pagati anche per ciò che produco nei loro campi. Operai e al contempo imprenditori, insomma. Quell’uomo era Michele Ferrero, il quale probabilmente non immaginava che la sua azienda diventasse una multinazionale e che i suoi operai si trasformassero da gente semplice a insopportabili gestori di conti. Ma era nella natura del territorio questo tipo di trasformazione, nella sua antropologia intrinseca. Il fatto che non sapessero immaginare una realtà diversa da quella che vivevano, la loro totale estraneità a un mondo di magia, come accadeva ai contadini lucani o pugliesi, il loro rifiuto di qualsiasi metafora non poteva portarli ad altro che questo, a rimuovere dai loro volti, come strofinandoli con un panno severo, la sofferenza e le miserie che erano stati costretti a vivere per troppo tempo. Ma ciò che siamo stati, il dolore che abbiamo patito, per quanto ci si sforzi di mascherarlo, in un modo o nell’altro riemerge, pure se non sappiamo in quale forma.
«In questa contrada, della mia generazione, che è davvero quella della malora, non è rimasto nessuno. Sono tutti scappati da quella miseria. E sono scappato anche io, dopo essere riuscito a prendere un titolo di studio, grazie ai sacrifici di mia madre – che non voglio neppure immaginare come abbia dovuto degradare la sua esistenza per far vivere noi -, facendo per tutta la vita l’assicuratore. Poi il richiamo della terra è stato troppo forte. Tornare, ma da padrone, non da miserabile, era il mio sogno. Sai cosa significa nascere in una famiglia di cinque figli senza un padre – il mio s’è ammazzato che avevo un anno? Bisogna imparare ad avere subito le spalle larghe, a sgomitare». Avevo lasciato a Federico l’onere di condurre la conversazione, tenendomi un poco in disparte. L’atteggiamento di Pier Paolo continuava a infastidirmi. Eppure, quel cinismo, quella durezza qualcosa pure la rivelavano. Pier Paolo non aveva un briciolo di sentimentalismo, aveva imparato a sputarci sopra fin da subito, eppure, sentivo che in lui si muoveva una forma di pietà, una pietà prima di tutto per se stesso, per l’orfano che era stato, per la colpa che attribuiva a suo padre di aver lasciato solo lui, i suoi fratelli e sua madre; o forse oggi era addirittura capace di ringraziarlo, suo padre, per l’uomo che era stato costretto a diventare, per il vanto che si faceva d’essersi fatto da solo, d’essere diventato insopportabile, di avere la pelle dura. Sentivo che davvero esiste una differenza tra chi resta orfano in età adulta e chi invece lo è fin da ragazzino. Da una parte ci si infragilisce, e non soltanto per come il dolore si somma a tutte le esperienze vissute, ma per come si è capaci, o incapaci, di razionalizzarlo, di vivere la ferita come esperienza non soltanto emotiva ma intellettuale. Dall’altra il lutto non disarma, piuttosto può provocare rabbia, trasformarsi in pragmatismo, in perenne lotta. La realtà, la stessa vita, non ci si può permettere di immaginarle, meno che mai sognarle. Sono un campo di battaglia, una corrida in cui si getta sangue, in cui i vuoti non aprono spazi a sprofondamenti. La vita è quella che è. Schiacciata su se stessa. Pesante come la nebbia. La malora, pensavo adesso, aveva a che fare con questa condizione di orfanezza che avevano vissuto tutti, qui sulle Langhe, che i padri fossero morti di stenti, si fossero ammazzati o anche solo avessero mandato i figli via di casa per lavorare fin da bambini.
Adesso sentivo solo il bisogno di tornare a casa, o quanto meno rifugiarmi nella mia camera in albergo, e lo avevo detto a Federico, citando le parole di un racconto di Fenoglio, – «Andiamo via, prima che la nebbia ci ingorghi i polmoni».