09 Giugno 2021

Scrittori in guerra: Curzio Malaparte, Tommaso Landolfi & Beppe Fenoglio

Lo stato essenziale della letteratura è la guerra – il lettore, in questo caso, ora è un soldato ora è lo storico che redige il conto dei morti dopo il massacro, ricorda le basiliche ridotte a bunker, le vertiginose città falciate come un prato. La Seconda guerra ha costretto gli scrittori italiani a fare i conti con una Patria sgangherata, in cui cambia la ragione sostanziale – la Repubblica in vece della monarchia – e quella parlamentare – la caduta del Fascismo – con paesi semidistrutti e una strana fedina “etica” – siamo eroi perché i partigiani hanno aiutato l’azione degli Alleati o traditori perché eterni voltagabbana, incapaci di resistere con gli “alleati” tedeschi? La guerra, legge antica e truce, procura soltanto vincitori: non eleva eroi ma scopre assassini. In questa guerra, la più devastante, gli scrittori fanno i conti, anche, con una lingua tarlata, crivellata, disfatta. L’Italia, da Dante in poi, si è fatta coagulando il linguaggio; d’altra parte come parlare a un popolo in cui tutti sono un po’ traditori e un po’ colpevoli? Colpevoli, almeno, di essere sopravvissuti.

Tre opere, per la loro eccentricità assoluta, nel proliferare di romanzi “a tema”, allineati all’esaltazione della Resistenza con le armi del “realismo socialista”, spiccano per forza linguistica e violenza verbale. Segnalano tre modi – da tre diverse latitudini cronologiche – di raccontare la guerra. Di questi, Curzio Malaparte è il più avvezzo alla guerra: nato nel 1898, partecipa alla Prima guerra (uscendone decorato), vive la Seconda da inviato del Corriere della Sera. Questa esperienza emerge in Kaputt, romanzo scritto “sul campo” (una prima versione è del 1942, quelle definitive del 1948 e del 1950), che sgretola ogni forma narrativa “orizzontale”, incastrando sezioni sceniche quasi “cinematografiche” una all’altra, incarnate sulla realtà quasi cronachistica di ciò che Malaparte ha visto, toccato, sentito. Sgorga così un romanzo terribile e visionario, che racconta lo sgretolamento dell’Europa, e il cui termine, kaputt, che, ci viene detto nel romanzo, “proviene dall’ebraico kopparoth, che vuol dire vittima”, è doppiamente cruento: la parola tedesca deriva da quella ebraica, ma sono i tedeschi, atrocemente, ad aver compiuto sterminio di ebrei. Eppure, sono i tedeschi – o meglio, la civiltà europea – le vere vittime del conflitto mondiale. Vittime inermi e inutili, non “sacrificali”, perché non c’è più un dio a illuminare l’Europa. Il romanzo è pieno di scene livide, indimenticabili, come quella del paniere colmo di “frutti di mare, massa viscida e gelatinosa di ostriche”, che si scoprono essere “venti chili di occhi umani”. Al principio del capitolo Ilse dice al narratore che “gli occhi sono uccelli prigionieri”, che “gli occhi di Hitler sono pieni di occhi morti”.

Grosso modo negli stessi anni in cui viene edito Kaputt, nel 1947, lo stesso editore di Malaparte, Vallecchi, pubblica un cupo, ardito, aristocratico romanzo di uno scrittore di una generazione successiva a quella di Malaparte, Tommaso Landolfi (classe 1908). Racconto d’autunno è un romanzo plumbeo, gravemente “gotico”, che adotta una tattica narrativa opposta a quella di Malaparte: piuttosto che accumulare fatti, nomi e circostanze storiche con la disperazione del cronachista, assolutizza. La Seconda guerra è descritta semplicemente come “la guerra”, la “campagna cruenta che parve infinita”, i tedeschi indicati come “l’invasore” e il partigiano protagonista del racconto un “brigante, di continuo braccato” che s’inoltra in un bosco e fa esperienza di una casa disastrata, ma piena di memorie. Lì accade l’esperienza onirica, simbolica, dell’incontro con una donna che è enigma e demone, Patria e fuga, dark lady e luminosa fatalità: un tu-per-tu con il patriottismo, un valzer con l’Italia ammantata di tenebre. Il grottesco adottato da Malaparte non ha quartiere, qui: Landolfi è dominato dall’indole del “manierista”, dell’orafo e del cesellatore. Il romanzo non è una colata lavica, ma un oggetto di superba porcellana.

Due sono le strade per narrare la guerra, allora: dall’interno, alternando cinismo a compassione (Malaparte) o dall’esterno, esagerando nel rigore simbolico. La “terza via”, per così dire, è quella epica. Ma epica di verbi a disagio, di aggettivi che rifiutano il “parlar materno”. Sarà uno scrittore di altra generazione ancora, Beppe Fenoglio, nato nel 1922, giovane partigiano e resistente durante la Seconda guerra, a narrare l’orrido, la morte – la morte assurda di soldati in espatrio dal proprio cuore, senza più patria. Il partigiano Johnny ha l’andamento narrativo vasto, omerico – se Kaputt “ha voluto dire per la letteratura quel che Roma città aperta ha voluto dire per il nostro cinematografo”, come scrisse Bruno Romani, è vero che Il partigiano, secondo l’interpretazione di Dante Isella, “è come il Moby Dick nella letteratura marinara” –, un genere mai realizzato in Italia. Ed è per questo, forse, che Fenoglio, gran traduttore degli elisabettiani, soprattutto Christopher Marlowe, e dei romantici inglesi (Coleridge, Hopkins, Cime tempestose), impasta gli italiani con anglicismi, comincia la frase nell’idioma di Dante per terminarla in quella di Shakespeare. Di certo, una scelta di campo etica – l’italiano è lordo di troppo sangue – ma pure la pretesa di far scollinare il romanzo provinciale italiano. Insomma, per narrare la guerra non basta più soltanto un linguaggio, non basta un genere letterario. La guerra moderna – che non è epica, ma odiosa, bastarda, assurda – resta indicibile: Fenoglio muore senza aver terminato la propria opera, pubblicata postuma – ed è questa incompiutezza a renderla leggendaria.

Se Lev Tolstoj in Guerra e pace poteva narrare il conflitto come Omero lo ha cantato nell’Iliade, selezionando i personaggi, tessendo le loro vite come Dio, dall’alto, serenamente, lo scrittore italiano che descrive la Seconda guerra è un dio minore scampato al flagello dei titani. Malaparte, Landolfi e Fenoglio non raccontano la storia di una comunità, ma di un singolo: la guerra non si compie più insieme, ma da soli; non si difende altro che l’integrità del proprio sguardo. Si è in espatrio, in esilio, nessuna patria autenticherà in inno queste narrazioni. Questo è dunque lo scopo della guerra moderna: isolarci. La guerra è sempre dentro di noi.

In un passaggio preveggente, di stordente acutezza, Malaparte scrive che “ciò che muove il tedesco alla crudeltà, agli atti più freddamente, più metodicamente, più scientemente crudeli è la paura. La paura degli oppressi, degli inermi, dei deboli, dei malati, la paura dei vecchi, delle donne, dei bambini, la paura degli ebrei”. E poi: “I tedeschi nudi sono meravigliosamente inermi. Sono senza segreto. Non fanno più paura. Il segreto della loro forza non è nella loro pelle, nelle loro ossa, nel loro sangue, ma nella loro uniforme. Sono talmente nudi che non si sentono vestiti se non in uniforme. La loro vera pelle è l’uniforme. Se i popoli d’Europa sapessero quale floscia, inerme e morta nudità si cela sotto il Feldgrau dell’uniforme tedesca, l’esercito germanico non farebbe paura nemmeno al popolo più debole, più disarmato. Un bambino oserebbe affrontare un intero battaglione tedesco”. La guerra, lo sterminio nasce dalla paura dell’inerte: lo scrittore, che si fa misero tra i miseri per descrivere la miseria – ed è per questo nobile – ci esilia dalla paura.

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