
La Tigre e l’Agnello. Sui “Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza” di William Blake
Letterature
Massimo Triolo
Andrea Caterini è un amico. Ma se siamo amici è per affinità elettive, non perché ci conosciamo dai banchi di scuola. Nessuno che io conosca crede alle cose in cui crede con la sua forza. Posso parlare di letteratura con lui come con quasi nessun altro. Ma anche della vita. Non prende alla leggera nessuna delle confidenze che gli fai. Senti che è partecipe. E come scrittore ha elaborato una sua visione del mondo e forgiato una lingua per raccontarla. E quando dico “scrittore” intendo il narratore quanto il critico letterario. Basta leggere poche pagine delle sue opere per comprenderlo. Giordano ad esempio (romanzo del 2014). O Patna (2013), La preghiera della letteratura (2016). Entrambe raccolte di saggi di critica letteraria. O il suo nuovo libro, “Vita di un romanzo”, in uscita per Castelvecchi. Tra saggio e romanzo autobiografico. Meglio: un’autobiografia intellettuale. Il precipitato di una “mente al lavoro”… O anche solo leggere questa intervista, perché so che poi non si potrà non prendere in mano i suoi libri.
Andrea Caterini è una persona molto intelligente. Capisce tutto al volo, prima che tu finisca. Ma ti lascia finire, perché ha il dono dell’ascolto. In più è una persona giusta. Cosa intendo con questa parola? Lo scoprirete leggendo l’intervista e i suoi libri. Ha una sensibilità non comune e capisce la letteratura come pochi. Gli basta immergersi in un testo una volta sola per smontarlo e rimontarlo con facilità, per capirne la ragion d’essere. Ma usa i guanti, per non sporcarlo. Ecco perché parlare di letteratura con lui è un piacere con pochi eguali.
Andrea, in “Vita di un romanzo” tu scopri te stesso attraverso Proust e Proust attraverso le tue esperienze private. È così? E cosa scopri di te stesso e cosa di Proust?
Ho scoperto che per vivere sulla pagina qualcosa nella vita di tutti i giorni deve morire (morire per risorgere sulla pagina). Poi, che si scrive sempre per liberarsi da un senso di colpa. A me interessava – è sempre stato questo a interessarmi – capire in che modo (come) la vita cambia. In fondo non mi sono mai mosso dai primi versi della Commedia dantesca: «Nel mezzo del cammin di nostra vita», che non ha nulla a che fare con l’età anagrafica di Dante. Si può vivere una vita intera senza che quel «mezzo» lo si viva mai. Il mezzo è il momento in cui la vita cambia, entrando in una «selva oscura», cioè in uno spazio a noi stessi sconosciuto; uno spazio che è già dentro di noi. Proust, a un certo punto, si chiuse in una stanza, fece diventare quella stanza una scatola cranica, la sua stessa mente, e ha scoperto ciò che di eterno viveva in lui. La domanda del mio libro allora è stata: come è accaduto?
Che cosa rappresenta per te Proust e perché lo ritieni così importante per la letteratura e non solo?
Il mondo di Proust (la borghesia, l’aristocrazia, i salotti dell’alta società ecc.) è lontanissimo dal mio immaginario, lontanissimo dalla mia vita. Il suo, dal mio punto di vista, quello di un ragazzo nato e cresciuto in una borgata romana e che lì, dopo che si è sposato, è rimasto a vivere, è un mondo addirittura detestabile. Eppure, nonostante questo, in Proust, nella sua opera dico, c’è tutta la vita – che è la sola cosa che conta –, affrontata con una profondità che nessuno scrittore aveva mai raggiunto prima. L’idea che la realtà è una stratificazione e che è attraverso lo stile che quei diversi piani possiamo mano a mano raggiungere. La sintassi di Proust, fatta di continue subordinate, come fosse una materia che si estende e si restringe rilanciando continuamente i significati, cerca di occuparli tutti, quei piani. Una proposizione vale un mondo. Per questo ciò che ho appreso da lui è anche un lavoro serratissimo sulla lingua. Ho provato a non lasciare neppure una frase al caso. Ma in questa affermazione c’è già troppa intenzione. La correggo: il mio lavoro sulla frase nasce prima da un abbandono. Senza abbandono non c’è conoscenza. Solo dopo c’è il lavoro di lima. Potrei dire che non riesco proprio ad andare avanti nella scrittura se le frasi che ho scritto non girano. Quando mi sento sicuro di quelle frasi, del modo in cui le ho scritte, posso lasciarmi di nuovo andare e continuare. Il lavoro di Proust sulle frasi, il suo continuo riscriverle (i redattori impazzivano quando gli consegnava le bozze – era capace di riscrivere pagine intere un attimo prima che il libro andasse in stampa) è esattamente cercare nell’abbandono un corrispettivo di verità stilistica.
Identità e memoria sono strettamente legate. Ed entrambe sembrano essere connesse al tempo. Ma cosa sono realmente identità, memoria e tempo? Proust ci insegna qualcosa al riguardo?
Walter Benjamin, a proposito di Proust, si è fatto una domanda fondamentale: «La “memoria involontaria” di Proust non è forse assai più vicina all’oblio che a ciò che si chiama comunemente ricordo?». È l’oblio, più che la memoria, quello che di fondamentale scopre Proust. Perciò, alla tua domanda, rispondo con una frase del libro, e scusami se la cito, ma non ho parole migliori di quelle che ho già usato: «L’oblio conserva invece per noi le colpe, le ferite morali, il male di cui ci siamo macchiati un giorno e che nessuna manovra di pulitura potrà restituirci alla nostra condizione precedente; o meglio: torniamo a vivere con la stessa partecipazione, quasi immutati di fronte al miracolo della realtà, e in qualche modo questo è anche vero, poiché l’oblio è tanto capace a nasconderci la colpa, da farcela per un tempo indefinito dimenticare veramente, finché poi, un giorno, questa torna davanti agli occhi, ma non come un fatto, come l’avvenimento che ce l’aveva fatta compiere, quella colpa, bensì come tremore della carne (ché è la carne il primo grado della percezione – irrigidendosi o raffreddandosi, arrossandosi per un improvviso calore o di colpo inaridendosi); quando la carne, formicolando, ci fa girare e rigirare sotto le coperte senza che si riesca a prendere più sonno, neanche pregando Dio finché la preghiera entri nel ritmo ipnotico della parola (quando la preghiera, pronunciata per abitudine o per esasperazione, diventa uno sterile sillabario che ci pone a una distanza irrecuperabile – una distanza prima di tutto fisica – tra noi e Dio, tanto da farci capire che è proprio in quel pronunciamento che la colpa si reitera), per un improvviso rimorso di coscienza di cui non conosciamo più il nome (cioè la causa) ma che in una misura a noi sconosciuta ci ha modificati».
Così, a bruciapelo, un libro che ha cambiato il nostro linguaggio e la nostra visione del mondo e della letteratura?
Le Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij. Il lavoro che in quel libro Dostoevskij ha compiuto sull’io narrante spezza in due la letteratura.
Quando moriamo non moriamo solo noi ma con noi muore/se ne va un intero mondo, l’unico che percepivamo, l’unico che per noi esisteva, quello che solo noi facevamo esistere, e allora è come se scomparisse un intero sistema solare… Eppure?
Eppure io nel Paradiso non ho mai smesso di credere, quel luogo in cui ci rincontreremo tutti e ci riconosceremo nella misura in cui siamo stati capaci di immaginarci l’un l’altro. Ancora mi domando, del resto, come si possa scrivere senza possedere un briciolo di fede. Come quelli che leggono e scrivono di Dante e non hanno mai fatto un pensiero su Dio, e non capiscono una cosa fondamentale: che quel viaggio, Dante, l’ha fatto veramente.
Spesso i romanzi vengono giudicati ed elogiati per l’impegno civile che profondono, per le battaglie sociali che portano avanti. È un buon modo questo di giudicare un’opera letteraria? Se non sbaglio tu hai bollato questa letteratura come “socialmente utile”…
L’idea di “impegno” di questi romanzieri è involontariamente comica. Sì, li ho chiamati in un saggio e anche in qualche articolo «documentaristi socialmente utili». Ma non sono scrittori, mi pare evidente. Pensano, che so?, alla fame nel mondo, o all’immigrazione, dalla scrivania di una redazione o di casa. Ma, dico io, se ti preme tanto questo tema, perché non fai il missionario, che è un lavoro degno di tutta la mia più profonda stima. La verità è che non sopporto la partecipazione ipocrita, paracula, di questi romanzi. Ci noto sempre un’intenzione, un buonismo che si sa in partenza farà presa sul lettore, appagherà i suoi più semplici sentimenti, quelli che lo consolano e gli fanno credere d’essere buono e giusto.
Dopo la balia di Hitler, la cuoca di Mussolini, l’autista di Churchill, il maggiordomo e il gatto di chi sa chi, che altro aspettarci?… Non ti sembrano mode letterarie ridicole? Eppure gli editori ne vanno ghiotti…
Certo che sono mode ridicole. Però voglio dirti una cosa. Questi libri non resteranno. Almeno lo spero.
Discorso difficile e pieno di buche. Come vedi la situazione letteraria ed editoriale nel nostro paese? Quali autori contemporanei stimi? Hai qualche modello del passato cui in qualche misura ti ispiri?
Il punto è questo: esistono, oggi come ieri, grandi autori. Non esiste più un contesto che permetta alle opere di quegli autori di essere discusse. E pure se le si discute, con troppa facilità vengono dimenticate e sommerse da altre mille novità o pettegolezzi di cui occuparsi. In linea generale, mi sono accorto che la maggior parte degli autori di romanzi, scrive come se il Novecento, anzi la modernità, non fosse mai avvenuta. Come ingenuamente avessero fatto un balzo in avanti senza accorgersi di quello che è successo. E infatti di libri infantili l’editoria prolifera. Gli editori hanno una grande responsabilità a tal proposito. Pensano che questa semplificazione sia adatta al grande pubblico. Cazzate. Non è lo scrittore a doversi abbassare al lettore, ma il lettore desideroso di voler conoscere cose che (anche di se stesso) non sa attraverso quello che legge. Lo si è abituato alla superficialità e ora si ha paura di offrirgli qualcosa di più complesso della media. Ma di autori importanti ce ne sono eccome: Franco Cordelli, Arnaldo Colasanti, Emanuele Trevi, Paolo Del Colle, tu, Fabrizio Coscia, Davide Brullo, Giuseppe Munforte, Sergio Nelli. Mi dirai: ma sono tuoi amici. Certo, ed è una fortuna averli conosciuti. Ma si diventa amici (quando non lo si è dall’infanzia) per un’adesione all’opera. Amici lo sono diventati dopo che li ho letti. E volutamente non ho nominato tutti quegli autori che costituiscono la moda alternativa, cioè quella elitaria, tipo Walter Siti, Michele Mari, Giorgio Falco, che pure hanno scritto ottimi libri. Guai a parlarne male, non si può. Eppure hanno scritto romanzi sbagliati anche loro. Gli ultimi di Mari e Falco, per esempio, a me non hanno convinto per niente. Quello di Falco mi pare un romanzo inerte, mollato dopo 150 pagine – altro che stile rigoroso: in 150 pagine non c’è un pensiero, uno scarto, una visione, un’accelerazione stilistica che riveli una scoperta. Quello di Mari, invece, mi pare forzare in maniera esagerata uno stile manierista, che certo gli appartiene ed è la sua cifra, ma è arrivato a conoscerlo troppo bene. Sui modelli del passato è difficile rispondere. Non so se mi ispiro propriamente a un autore in particolare. So quanto mi hanno influenzato scrittori come Dostoevskij, Proust, Conrad.
Dopo un progetto “alto” come “Vita di un romanzo”, che cosa hai in cantiere?
Sto scrivendo un libro su Giorgio Morandi, un saggio breve, per l’editore Sillabe. Antonio Celano ha messo su una bella collana: scrittori che parlano di artisti contemporanei. Un’idea che ha radici anche nel nostro Novecento, del resto. L’arte, in maniera sempre laterale, nei miei libri è una costante. Ne sono davvero appassionato. Ho lavorato, prima dell’editoria, per cinque anni in una galleria storica di Roma, La Nuova Pesa. Per un anno, e fu per una casualità, diressi anche le pagine sull’arte del mensile «Stilos». Era il 2010, non avevo nessuna esperienza di direzione di pagine culturali di alcun tipo. Quando il direttore, Gianni Bonina, mi ha chiamato dopo che l’amico Andrea Di Consoli ha lasciato quel ruolo che avrei poi ricoperto io (lo stesso Di Consoli che su quelle pagine mi aveva chiesto di collaborare), ho pensato che fosse un po’ pazzo e che il suo era un azzardando. Ma fu una palestra meravigliosa. E credo di aver fatto anche un buon lavoro. Ricordo per esempio un numero bellissimo dedicato a Roberto Longhi – e poi gli articoli di Giuseppe Montesano, alcuni dei quali sono finiti in un suo libro recente, Lettori selvaggi, e poi le interviste a Piero Guccione, a Marilù Eustachio ecc. È stato un bel periodo. Se non avessi fatto il critico letterario, mi sarebbe piaciuto essere un critico d’arte, di questo sono abbastanza sicuro.
Di cosa dovrebbe parlare e con che linguaggio dovrebbe essere scritto un romanzo che aspirasse a cogliere lo spirito del nostro tempo imponendosi come futuro classico (sempre che questo debba essere l’obiettivo)?
Se conoscessimo la formula, tutti l’avrebbero già usata. La sola cosa che si può chiedere è studio, tanto studio, e pazienza e fedeltà a se stessi.
Da critico, come ti accosti alla scrittura altrui? Una volta mi hai confessato di cogliere la struttura di un romanzo in poche mosse, e più volte me ne hai dato prova. Puoi parlarcene?
Collaborando come critico anche alle pagine de «Il Giornale», mi vengono recapitati moltissimi libri contemporanei. Confesso che ne leggo una pagina o due e poi decido se vale la pena andare avanti. Una pagina basta e avanza, checché se ne dica. Ho abbastanza esperienza e consapevolezza da intuire subito se in una frase si nasconde un talento. Più che la struttura, capisco abbastanza intuitivamente, di un libro, la necessità che lo sottende. E questo perché ho allenato molto l’intelligenza su questo aspetto per me fondamentale di ogni opera. Comprendere, voglio dire, per quale ragione è stata scritta.
Concordo. Qual è il tuo libro migliore, il più riuscito? Quale quello che vorresti cancellare dai radar, se ce n’è uno?
Non so se è il più riuscito, ma certo Vita di un romanzo è il libro che sento come il più complesso e articolato – da tutti i punti di vista: stilistico, strutturale, filosofico. Quello che vorrei non aver mai scritto, o forse sarebbe meglio dire pubblicato, è il mio primo romanzo, del 2008, Il nuovo giorno, che mi fa schifo.
Perché credi così tanto nella letteratura? Che cosa è per te la letteratura? Che cosa ha di così importante da farne la tua prima ragione di vita? E non mi dire che non lo è.
La letteratura è l’esperienza assoluta della vita – lì dove la vita si svela, complicandosi. E la vita è complessa, per quanto facciamo di tutto per alleggerirla e non restarne soffocati. Per questo ci esprimiamo. Perché abbiamo bisogno di capire e di conoscere. Questo significa per me la letteratura.
Come hai scoperto la letteratura? Se non ricordo male è stato mentre facevi il militare, è così? Puoi raccontarcelo?
Sì, è così. Fino al servizio di leva non avevo aperto un libro. Sono stato un pessimo studente, ho preso con grande fatica un diploma in un Tecnico Industriale. Il militare è stata la mia tortura e la mia fortuna. L’ho fatto in Marina, ma non imbarcato su una nave, bensì in una caserma di raccomandati a Sabaudia. Tutti i commilitoni come me erano di Sabaudia, il che voleva dire che con la fine dei lavori, alle sei del pomeriggio, avevano il permesso di tornare a casa. Io, che da casa ero lontano e non ci potevo tornare con tanta semplicità, mi ritrovavo completamente solo, dove facevo servizi di guardia notturni a una caserma deserta. Il senso di solitudine è stato profondissimo. Ma è lì che ho imparato davvero a stare da solo. Dovevo trovare una forma di resistenza a quella follia che stavo vivendo. Leggere, a quel punto, è stata una forma prima di tutto di ribellione. Non che se ne accorgesse qualcuno, ma era la guerra con me stesso che stavo finalmente combattendo. Quello fu davvero il «mezzo» della mia vita. Certo non immaginavo neppure che avrei scritto dei libri, che li avrei fatti diventare addirittura un lavoro. Allora non sapevo nulla di letteratura: era un campo aperto, enorme, vastissimo, spaventoso.
Da che mondo e esperienze venivi prima?
Per quattro anni, anche mentre cercavo di prendermi il diploma, ho lavorato come operaio. Ero convinto che avrei lavorato assieme a mio padre, che faceva infissi in alluminio, che fosse quello il mio destino. Era un lavoro che non mi piaceva, mio padre mi ha rivelato anni dopo che lo aveva capito subito, perché apprendevo il mestiere troppo lentamente. Sentivo che dovevo trovare il modo di liberarmene. Così ho anche accelerato le pratiche per partire soldato, come potesse, quell’anno da militare, darmi il tempo di trovare la mia strada. La borgata in cui vivevo era in qualche misura il solo mondo che conoscessi: la comitiva, il sabato sera a ballare, il cazzeggio. Per il ragazzo che ero allora, la vita che faccio adesso sarebbe stata inimmaginabile.
So che tuo padre è una figura importante della tua vita (lo si capisce anche leggendo il tuo romanzo “Giordano”), e forse perfino al centro di alcune tue scelte. Perché è sempre stato così importante per te (per me per esempio non lo è altrettanto: o forse m’illudo che sia così)?
Potrei risponderti dicendoti, per esempio, che per tutta la vita ho cercato padri: nella vita come nella letteratura. Persone che avessero qualcosa da insegnarmi, che fossero migliori di me. Però non risponderei alla domanda specifica che riguarda il mio rapporto con lui. Insieme a mio padre ho lavorato qualche anno. E in quegli anni c’era una grande confidenza tra di noi. L’ho sinceramente ammirato, perché amava il suo lavoro, un lavoro che faceva da quando aveva 14 anni. Quando però ho deciso di lasciare il lavoro, sentivo che dovevo dargli una risposta, che lo avevo lasciato ma che lo onoravo facendo anch’io qualcosa che amavo profondamente. Poi nella vita arriva un momento, ed è un momento drammatico e profondo, in cui ti accorgi di essere diventato padre di tuo padre.
Spesso accade. Hai trentasette anni ma hai già fatto parecchia strada. Un romanzo e un saggio per Fazi, collaborazioni con diversi giornali. Dove intendi arrivare? Come vedi Andrea Caterini a sessanta anni? Che cosa avrà fatto e che cosa no?
È una bella domanda. Ma pubblicare due libri con un editore importante non è che garantisca chissà quale autorevolezza. Mi stanco di quello che ho scritto, la considero una questione chiusa. Ho continuamente bisogno, un bisogno fisico e spirituale, di conoscere cose che non conoscevo prima, di non ripetermi. È una questione di vitalità. Certi giorni in cui sono particolarmente pessimista prego di arrivare alla vecchiaia sufficientemente lucido e in forze per trovare sempre di che vivere. Per il momento, a sessant’anni ti dico che non mi vedo nell’editoria, che mi ha dato molto, mi ha fatto crescere, anche professionalmente, oltre che umanamente, ma che non mi diverte più come un tempo. Ma la vita riserva sempre qualche sorpresa, che pure è necessario fare in modo che accadano. Certi giorni mi sento un isolato, o uno che ha sbagliato tutto. Spero quindi di vivere dignitosamente la mia vita, di rispettare chi mi ama e chi amo. E di non perdere mai il desiderio di capire, di conoscere, di scoprire.
A proposito di padri. Enzo Siciliano è stato molto importante per te. Una figura di riferimento. Come è accaduto e perché?
Dovevo preparare la mia tesi di laurea, ma non sapevo ancora su chi avrei scritto. Colasanti mi ha consigliato di leggere Siciliano. Me ne sono appassionato subito e, sempre attraverso Colasanti, sono entrato con lui in contatto. Siciliano ha rappresentato per me il primo studio profondo. Conosco benissimo la sua opera, e mi rendo conto che mi tornano in mente di continuo frasi, pensieri che ha espresso nei suoi libri. Non posso dire di essergli stato amico, l’ho conosciuto per troppo poco tempo, ma sono felice che abbia letto la tesi che gli ho dedicato. Parlare di quello che avevo scritto con lui su di lui, è stato come discuterla, la tesi. Una discussione che infatti mi è bastata, perché sono stato tanto scemo da mollare l’università a tre esami dalla laurea e con la tesi pronta. Ma del mio rapporto con lui ho parlato in un saggio che costituirà la postfazione a Campo de’ Fiori, uno dei suoi libri più decisivi, che sono riuscito a riportare in libreria per Theoria.
Già: en passant ricordiamo che dirigi una collana di classici per Edizioni Theoria. E Arnaldo Colasanti? Anche lui è stato importante? In che misura?
Arnaldo è stato ed è per me molto più importante di Siciliano. L’ho incontrato all’università, era il mio professore di Poesia italiana contemporanea. I suoi discorsi erano sconvolgenti (per quattro lezioni restammo a discutere dei primi versi del Cimitero marino di Valery – fu un esercizio di intelligenza allucinante). Era un marziano in quell’ambiente funebre che è l’università. Lezioni come le sue mai le avrei incontrate in altri corsi. Fui il primo del gruppo di amici che avevo allora a parteciparvi. Dopo averlo ascoltato la prima volta, convinsi tutti a seguire il corso. Tornavo a casa da quelle lezioni con la sensazione di non sapere nulla, di essere il peggiore degli ignoranti, ma con un desiderio di conoscenza febbrile. Colasanti mi ha insegnato a pensare. Che poi sia diventato uno dei miei migliori amici è per me un motivo di gioia e anche una fortuna immensa. Se ho dei dubbi, anche di carattere concettuale, teorico, è a lui che mi rivolgo. È la persona più intelligente che abbia incontrato. E un uomo generosissimo.
Chi altri è stato importante per te, per quanto riguarda la tua formazione letteraria? Pasolini, se non erro. E poi?
Pasolini è stato il primo scrittore dal quale ho subito un impatto enorme. Non riuscivo a leggere le Ceneri di Gramsci senza piangere. Sentivo che quei versi mi parlavano, trovavano un corrispettivo di verità dentro di me. Ma non li leggevo con la lente dell’ideologia, che non ha mai avuto alcuna presa su di me, ma in una prospettiva tutta soggettiva. Però con gli anni di Pasolini ho sentito il bisogno di liberami. Mi condizionava troppo, mi vampirizzava. E infatti su di lui non sono mai riuscito neppure a scrivere niente di sensatamente critico. Un autore che invece si è davvero sedimentato è Dostoevskij. Le memorie dal sottosuolo le ho lette durante il servizio militare, non capendoci nulla. Poi, all’università, ho scelto la russa come letteratura straniera, perché facevano un corso monografico su Delitto e castigo. Dostoevskij non l’ho solo letto e riletto, ma studiato. Tra i miei libri, quello che preferisco è il commento che ho fatto al suo Sogno di un uomo ridicolo, praticamente uno studio monografico su Dostoevskij. Mi ha aperto un mondo, non solo intellettuale, ma esistenziale.
Posto che anche la critica è letteratura (o dovrebbe esserlo, altrimenti non è quello che dice di essere), oggi i tuoi autori di riferimento come narratore e come critico quali sono, se ne hai? E perché lo sono? Come critico letterario chi metteresti al centro del Novecento e chi della attuale stagione letteraria?
Come narratore contemporaneo sicuramente Franco Cordelli. La sua scrittura è uno stato mentale, ed entrare dentro quella mente è un’esperienza incredibile. Il suo modo di interrogare la realtà, metterla sotto assedio, è un modo per farla a pezzi. Tra i critici, italiani e stranieri, direi Colasanti (e leggete i suoi saggi sulla letteratura francese, o, in uscita ora, il suo commento alle poesie di Claudio Damiani – una profondità d’analisi insuperabile) e George Steiner – amo insomma i critici che sanno mettere in campo conoscenze non solo letterarie, ma anche filosofiche, teologiche ecc. Per questo amo un critico del Novecento come Maurice Blanchot. Uno che ha tradito la tradizione illuministica francese (che oggi è tornata molto di moda – quante stupidaggini sotto l’egida della ragione!), che si è fatto volutamente oscuro, oscenamente lirico, testardamente contraddittorio, o, peggio, ossimorico e concettualmente astratto. Il suo Lo spazio letterario (un’opera del 1955), è un libro che avrei voluto scrivere io. Lì Blanchot ha scritto un’opera d’arte leggendone altre, cosa che a un critico odierno difficilmente riesce, e questo perché ha smesso di credere che un’opera d’arte è un tutto in cui si mette in gioco la vita; che l’arte o la si vive come esperienza assoluta della vita – quindi accogliendone anche le contraddizioni – o è molto meglio, nel senso di più utile e più sensato, occuparsi d’altro.
D’accordo sul fatto che scrittore in senso alto è sia il narratore che il critico letterario, tu personalmente ti senti più narratore o più critico letterario?
Critico letterario. Lo capisco dal modo in cui mi pongo rispetto ai libri che leggo e scrivo; anche mentre racconto analizzo. Ho, per natura, un atteggiamento per così dire critico.
Hai più volte dichiarato che non credi più nelle storie. In te il patto di credulità tra lettore e scrittore si è rotto. Quando è accaduto e perché? Puoi spiegarci meglio questa cosa?
È vero, le storie mi hanno stancato. Ne capisco subito l’intenzione, la costruzione artificiosa. Tutto questo mi annoia. Mi annoiano le storie che non hanno più nulla da esprimere, che non veicolano più un pensiero sul mondo. Ce ne sono a centinaia, e sono tutte uguali, con la stessa lingua finta, che quasi sempre è di derivazione americana. Anzi mi correggo. Questi romanzetti non imitano gli americani, ma una traduzione degli americani. Ha fatto più danni Baricco alla letteratura contemporanea di quanti ne abbia fatti Fabio Volo, è bene dirlo una volta per tutte. La Scuola Holden è il modello del disastro. Pensi che ti prenda in giro, ma i romanzi che escono da quella scuola, da quella lezione, sono in grado di riconoscerli subito. Detto questo, arrivano poi romanzi che ribaltano anche questo senso di asfissia che provo. Per esempio, vai a leggerti Non è mezzanotte chi vuole del portoghese Lobo Antunes. Quattrocento pagine travolgenti, dove la scrittura e il racconto sono perfettamente bilanciati (e dentro ci ho ritrovato la Virginia Woolf delle Onde – la vastità di una mente che segue, nel racconto, la propria visione). Ecco, per me un romanzo è prima di tutto scrittura.
Tu sei un credente. Che peso ha in quello che fai e nella tua scrittura la dimensione religiosa e in particolare la tua fede cristiana?
Non so esattamente quale peso abbia. Intanto: ci si può dire “non cristiani”? Come non venisse, tutto quello che siamo e siamo diventati, da lì. Certo è che i valori cristiani restano i più alti e profondi che un uomo possa seguire.
Cosa o chi è per te Dio? E perché dobbiamo credere in lui? È dio il tema dei temi anche in letteratura e perché?
Dio è ricerca, e quindi conflitto. Non c’è niente di pacifico o risolto nel credere in Dio. Tanto che a messa non ci vado dalla prima comunione (salvo i funerali a cui negli anni, purtroppo, ho partecipato). È l’impossibile possibilità che continuamente cerchiamo. Non è un tema. Qualora lo divenisse, come pure accade, Dio scomparirebbe dalle nostre pagine e dai nostri pensieri. Dio è il nostro abbandono oltre la morale, oltre la coscienza, oltre l’idea di bene e di male.
Mi sono ritrovato a fare questa riflessione, da razionalista quale sono: se per dio si intende qualcosa da cui discenda una morale, su cui si fondi una civiltà, garante di una vita dopo la morte, questo dio non esiste. Se per dio si intende qualcosa da cui abbia avuto origine la materia, la vita, a questo posso credere. Ma so che in questo è come se tu e io guardassimo il mondo da prospettive inconciliabili…
Penso che tu stia cercando di darti una spiegazione logica, ed è la tua natura filosofica a farti parlare così. Perché invece semplicemente non ti domandi: pure se tutto questo fosse falso, c’è qualcosa di più grande, profondo, complesso, vertiginoso che l’uomo abbia immaginato? Non c’è vero intellettuale (filosofo, narratore, poeta, artista ecc.) che non si sia interrogato su Dio. E questo perché nelle Scritture ci sono già tutte le domande che per i secoli successivi la filosofia e la letteratura e le arti in generale (forse pure la fisica!) si sono posti. Pure Nietzsche, quando scrive Zarathustra, si è dovuto inventare un profeta alternativo a Cristo. Ma questo perché da lì, da quella tradizione, non possiamo certo liberarci con una manovra di comodo.
Molte delle domande che ci poniamo in realtà scaturiscono dal pensiero greco (col quale ho più affinità) o da quello orientale, non dalle Scritture. E interrogarsi va bene. Ma se le risposte risultano più nebulose delle domande… Non che io creda che la ragione possa spiegare tutto. Però la scienza si è sostituita gradualmente alla teologia e alla filosofia (così pensano molti; non io). E in effetti molte risposte le ha fornite. Chissà che un domani non sveli anche l’ultimo arcano. Torniamo alla letteratura. Cosa pensi delle giovani generazioni di scrittori? Dalle pagine del “Giornale” qualche tempo fa ti sei scagliato contro di loro. Puoi sintetizzarci i termini della questione?
La mia generazione non esiste. Questo scrivo anche in Vita di un romanzo. Quando è uscito quell’articolo ho assistito alle reazioni più assurde; reazioni che mi hanno dimostrato che non sbagliavo. Reagivano alla cosa meno rilevante: se fosse o meno necessario leggere i classici (e per me, per chi scrive, leggere chi ti ha preceduto non è un’opzione, è un dovere). Li rimproveravo invece su qualcosa di più profondo. Dicevo loro: non siete uomini, siete bambini e lo si capisce dai libri che scrivete. Generalizzavo, ovviamente. Figurati se non ci sono scrittori della mia generazione capaci e intelligenti (Brullo, per fare un nome solo, è un talento vero). Eppure parlavo di un dramma di fondo. Si diventa uomini rispondendo a necessità reali. Dai molti libri che ho letto, quella necessità non si avverte. C’è invece un infantilismo inconsapevole, quasi che, quello che è stato scritto finora, non fosse mai stato. La mia generazione non esiste perché domani non avrà nulla da rimpiangere perché oggi non ha fatto alcuna promessa. Scrivendo questa cosa, ho messo il mio cuore a nudo, solo che non l’hanno capito (quindi qualcosa avrò sbagliato anche io). Ma loro hanno fatto peggio rispondendomi col chiacchiericcio.
Tu hai bollato come “generazione di pongo” l’attuale generazione di giovani scrittori. Puoi dirci perché e spiegarci cosa intendi?
L’«età del pongo» voleva essere un’immagine, una metafora. Nel libro spiego così la questione: «i miei anni li avrei chiamati invece l’età del pongo – dove quello che si modella non è una materia prima, il marmo, il bronzo, il ferro, la lingua, ma qualcosa di derivato, ottenuto in laboratorio; qualcosa che, lavorato con cura, assume l’aspetto di – eppure non è; quello che ci sembra marmo, bronzo, ferro, quella che ci sembra una lingua e anche uno stile, non sono che oggetti plastificati». Questo genere di falsificazione è appunto l’assenza di necessità reali.
Torniamo sul personale. Cosa è per te l’amicizia e quanto vale? Quando ci si può definire veramente amici di qualcuno?
L’amicizia ha un valore importantissimo per me. Ho pochi amici, ma con loro, pur vedendoli poco, mi sento quasi quotidianamente – tu sai di cosa parlo perché uno di quegli amici sei tu. Dagli amici si impara tutto: a pensare, a stare al mondo, a rapportarsi con le altre persone, a modellare il proprio carattere, a scoprire i propri difetti. E si cresce nel confronto, anche duro e onesto. Per questo una cosa che ho sofferto davvero è non avere più amicizie profonde con la mia generazione. I miei migliori amici hanno l’età di mio padre. So che quando morirete, spero il più tardi possibile, resterò solo.
Vedrai di no. Che cosa è per te la libertà e ritieni che consista nel dire apertamente ciò che si pensa? Tu lo fai sempre? Anche quando non conviene?
Libertà non è scaricare la propria bile. Non è libertà dire in ogni occasione quello che si pensa. La sincerità è un falso mito. Quando si ama, si impara anche a tacere. A volte si tace qualcosa per non ferire. Ma questo non significa, se è quello a cui ti riferivi, disonestà intellettuale. Lì sì occorre essere spietati. Non faccio quel tipo di stroncature feroci e piene di insulti, non è nel mio carattere, ma credo che una stroncatura, fatta attraverso l’analisi, sia molto più efficace. È una libertà anche non esprimersi, decidere di tacere. Decisione che ho preso spesso. Una decisione che non fa notizia, ma che fortifica umanamente.
Nei tuoi libri non ho mai rintracciato una battuta, una frase ironica, qualcosa che susciti un sorriso, sbaglio? E perché? Eppure sei una persona scherzosa e conviviale.
È vero, hai ragione. Nella vita, gli amici lo sanno, rido molto. Nei libri semplicemente non mi viene. Sarà il modo stesso in cui vivo la letteratura, così come lo abbiamo raccontato finora. I libri che vogliono far ridere, poi, mi ha sempre messo in imbarazzo. Mi annoiano. E non mi fanno mai ridere.
Guardami negli occhi e dimmi seriamente: non pensi che alla base delle nostre azioni ci sia sempre e comunque l’amor proprio?
Sì.
Etica. Quanto la tua etica coincide con la morale comune? E in cosa differisce?
Da giovani, quando viviamo i nostri primi drammi, ci sentiamo incompresi, come se il mondo non fosse capace di capire il nostro disagio, la nostra sensibilità tanto profonda. Poi ti accorgi che quello era solo un atteggiamento infantile, un modo per farsi voler bene dal mondo, per farsi riconoscere. E noi tutti desideriamo che il mondo ci riconosca, e ci accolga. Detto questo, trovare le differenze tra un’etica soggettiva e una morale comune è un atto di presunzione che preferisco evitare. Poi, se qualcuno trova delle differenze o delle comunanze, lo può fare, sempre se ne ha voglia, leggendo quello che scrivo.
Hai mai violato le leggi sentendoti nel giusto? Quando?
Sì, a parte rubare qualche libro e videocassetta alle feste dell’Unità a vent’anni, libri e videocassette che mi hanno formato, ho fatto anche qualche editing in nero, come si dice. E ho fatto bene, perché i soldi che ne ho ricavato in quel momento mi hanno dato un po’ di respiro senza il pensiero delle tasse da pagare.
La solita ultima domanda che faccio a tutti o quasi. Come vorresti essere ricordato, come uomo e come letterato? Per esempio con quale epitaffio?
Ha fatto quello che desiderava fare. Ha vissuto come desiderava vivere. O quanto meno ce l’ha messa tutta. Ma, me ne rendo conto, tutto questo non dipende dagli altri, ma da me.
Siamo giunti alla fine. Non so voi, ma per me è stato come rifare il viaggio con Dante per i tre mondi. Un’esperienza indelebile. Come lo sarà per tutti quelli che sceglieranno di leggere “Vita di un romanzo”. Buona lettura.
Gianluca Barbera