03 Aprile 2019

Curzio Malaparte è atterrato in Rai, evviva! Ovvero: di quella volta che portai Curzio a Lima e insegnai l’arte di scrivere la guerra nell’Università di Mario Vargas Llosa

Su Rai Storia – evviva! – per la sezione “Italiani” è andato in onda, il 2 aprile, uno speciale su Curzio Malaparte. Tra i colti interventi, quelli di Maurizio Serra (autore, per Marsilio, di una poderosa biografia dedicata a “Malaparte. Vite e leggende”), di Francesco Longo e di Andrea Caterini, bravo nel riconoscere in Malaparte la costante tensione verso i vinti, l’affratellamento – esistenziale, senza retrovie ideologiche – ai perduti. Cinque anni fa fui invitato all’Istituto Italiano di Cultura a Lima a raccontare Malaparte, testimoniato attraverso una mostra, “L’occhio nel taccuino”, che radunava una quarantina di scatti fotografici del divo Curzio. Feci una lezione davanti a una platea di studenti attentissimi nell’università dove, mi dicevano, si laureò Vargas Llosa. Intorno all’evento, tornato in Italia, sconcertato dal classismo imperiale peruviano (ma forse ho nostalgia di quello sgomento), scrissi alcune cose che non piacquero – poco importa, poco valgo – e un servizio su “Libero”, la testata su cui collaboravo. L’incipit di quell’articolo, dal titolo deciso (“Malaparte conquistatore del Sudamerica”), aveva un esordio malapartesco, lo riconosco, questo: “L’ambasciatore italiano a Lima, sulla via lastricata di nostalgia della pensione, disse «meraviglioso», guardando nel vuoto, dove forse si rispecchiavano tutte le sue azioni irrisolte; l’ambasciatore austriaco Andreas Rendl, invece, giovanissimo, in Perù da due mesi, appena approdato da Cuba, mi fissava con occhi allucinati, citando Hermann Broch e Georg Trakl, ripetendo «incantado, incantado»; il direttore della facoltà umanistica dell’Universidad del Pacifico, visibilmente emozionato, ostentò una copia de La piel («La pelle»), affermando che «Curzio Malaparte è il più intenso e importante scrittore italiano del Novecento». Poco dopo, inghiottendo un gamberetto, Enrique Bonilla Di Tolla, che nel 2012 ha curato alla Biennale di Venezia il padiglione peruviano di architettura, appena onorato dalla Repubblica con la griffe di Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia, declamò «la bellezza assoluta e modernissima della casa di Malaparte a Capri». Sembrava di essere dentro Kaputt, in una chiacchierata con il principe Eugenio di Svezia, ascoltando, dal centro di Stoccolma, l’ansia dei piroscafi e il rombo dei sauri; oppure nella lussuosa sauna finlandese dove i kapò marciano nudi dietro a Himmler e Malaparte ne svela l’arcano segreto, cioè che «i tedeschi nudi sono meravigliosamente inermi. Sono senza segreto. Non fanno più paura. Sono talmente nudi, che non si sentono vestiti se non in uniforme». Dall’altra parte del mondo, in una Lima devastata dalla povertà, dalle case protette dai fili elettrici ai cancelli, come a proteggere i grassi pascoli delle vacche grasse, con soldatini privati ovunque, e del lusso smodato, immondo, tra case-museo di agghiacciante bellezza e il tentativo – fallimentare – di trincerare l’orrore dietro i vetri oscurati di mirabolanti automobili, risorge Curzio Malaparte”. Il canovaccio della lezione tenuta all’università oltreoceanica, lo ricalco qui, giusto per tornare a dire di Malaparte, a 70 anni da “La pelle”. (d.b.)

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Lo stato essenziale della letteratura è la guerra – il lettore, in questo caso, ora è un soldato ora è lo storico che redige il conto dei morti dopo il massacro, ricorda le basiliche ridotte a bunker, le vertiginose città falciate come un prato. La Seconda guerra ha costretto gli scrittori italiani a fare i conti con una Patria sgangherata, in cui cambia la ragione sostanziale – la Repubblica invece della monarchia – e quella parlamentare – la caduta del Fascismo per la dinamica democratica – con paesi semidistrutti e una strana fedina “etica” – siamo eroi perché i partigiani hanno aiutato l’azione degli Alleati o traditori perché eterni voltagabbana, incapaci di resistere con gli “alleati” tedeschi? La guerra, legge antica e terribile, procura soltanto vincitori: non eleva eroi ma scopre assassini. In questa guerra, la più devastante mai accaduta, gli scrittori fanno i conti, anche, con una lingua tarlata, crivellata, disfatta. L’Italia, da Dante in poi, si è fatta coagulando il linguaggio: il Fascismo ha esaurito ogni forma retorica, d’altra parte come parlare a un popolo in cui tutti sono un po’ traditori e un po’ colpevoli? Colpevoli, almeno, di essere sopravvissuti.

Tre opere, per la loro eccentricità assoluta, nel proliferare di romanzi “a tema”, allineati all’esaltazione della Resistenza con le armi del “realismo socialista”, spiccano per la forza linguistica estrema, la inaudita violenza verbale. E segnalano tre modi – da tre diverse latitudini cronologiche – di raccontare la guerra. Di questi, Curzio Malaparte è il più avvezzo alla guerra: nato nel 1898, partecipa alla Prima guerra (uscendone decorato), vive la Seconda da inviato del Corriere della Sera. Questa esperienza emerge in Kaputt, romanzo scritto “sul campo” (una prima versione è del 1942, quelle definitive del 1948 e del 1960), che sgretola ogni forma narrativa “orizzontale”, incastrando sezioni sceniche quasi “cinematografiche” una all’altra, incarnate sulla realtà quasi cronachistica di ciò che Malaparte ha visto, toccato, sentito. Sgorga così un romanzo terribile e visionario, che racconta lo sgretolamento dell’Europa, e il cui termine, kaputt, che, ci viene detto nel romanzo, “proviene dall’ebraico kopparoth, che vuol dire vittima” è doppiamente cruento: la parola tedesca deriva da quella ebraica, ma sono i tedeschi, atrocemente, ad aver compiuto sterminio degli ebrei. Eppure, sono i tedeschi – o meglio, la civiltà europea – le vere vittime del conflitto mondiale. Vittime inermi e inutili, non “sacrificali”, perché non c’è più un dio a illuminare l’Europa.

Grosso modo negli stessi anni in cui viene edito Kaputt, nel 1947, lo stesso editore storico di Malaparte, Vallecchi, pubblica un cupo, ardito, aristocratico romanzo di uno scrittore di una generazione successiva a quella di Malaparte, Tommaso Landolfi (classe 1908). Racconto d’autunno è un romanzo plumbeo, gravemente “gotico”, che adotta una tattica narrativa opposta a quella di Malaparte: piuttosto che accumulare fatti, nomi e circostanze storiche con la disperazione del cronachista, assolutizza. La Seconda guerra è descritta semplicemente come “la guerra”, la “campagna cruenta che parve infinita”, i tedeschi indicati come “l’invasore” e il partigiano protagonista del racconto un “brigante, di continuo braccato” che s’inoltra in un bosco e fa esperienza di una casa disastrata, ma piena di memorie, in cui s’intrufola. Lì accade l’esperienza onirica, simbolica, dell’incontro con una donna che è enigma e demone, Patria e fuga, dark lady e luminosa fatalità: un tu-per-tu con il patriottismo, un valzer con l’Italia ammantata di tenebre. Il grottesco adottato da Malaparte non ha quartiere, qui: Landolfi è dominato dall’indole del “manierista”, dell’orafo e del cesellatore. Il romanzo non è una colata lavica, ma un oggetto di superba porcellana.

Due sono le strade per narrare la guerra, allora: dall’interno, alternando cinismo a compassione (Malaparte) o dall’esterno, esagerando nel rigore simbolico. La “terza via”, per così dire, è quella epica. Ma un’epica di verbi a disagio, di aggettivi che rifiutano il “parlar materno”. Sarà uno scrittore di altra generazione ancora, Beppe Fenoglio, nato nel 1922, giovane partigiano e resistente durante la Seconda guerra, a tentare la battaglia di narrare l’indicibile che è la morte – la morte assurda di soldati in espatrio dal proprio cuore, senza più patria. Il partigiano Johnny ha l’andamento narrativo vasto, che è proprio dell’epica – se Kaputt “ha voluto per la letteratura quel che Roma città aperta ha voluto dire per il nostro cinematografo”, come scrisse Bruno Romani, è vero che Il partigiano, secondo l’illustre interpretazione di Dante Isella, “è come il Moby Dick nella letteratura marinara” – un genere mai realizzato in Italia. Ed è per questo, forse, che Fenoglio, gran traduttore degli elisabettiani, soprattutto Christopher Marlow, e dei romantici inglesi (Coleridge, Hopkins, Cime tempestose), impasta gli italiani con anglicismi, comincia la frase nell’idioma di Dante per terminarlo in quella di Shakespeare. Di certo, una scelta di campo etica – l’italiano è lordo di troppo sangue – ma anche la pretesa di far scollinare il romanzo provinciale italiano. Insomma, per narrare la guerra non basta più soltanto un linguaggio, non basta un genere letterario. La guerra moderna – che non è epica, come lo era ai tempi di Omero o di Napoleone, ma odiosa, bastarda, assurda – resta indicibile: Fenoglio muore senza aver terminato la propria opera, pubblicata postuma – ed è questa incompiutezza a renderla leggendaria.

Se Lev Tolstoj in Guerra e pace poteva narrare il conflitto come Omero lo ha cantato nell’Iliade, selezionando i personaggi, tessendo le loro vite come Dio, dall’alto, serenamente, lo scrittore italiano che descrive la Seconda guerra è un dio minore scampato al flagello dei titani. Malaparte, Landolfi e Fenoglio non raccontano la storia di una comunità, ma di un singolo: la guerra non si compie più insieme, ma da soli; non si difende altro che l’integrità del proprio sguardo. Si è in espatrio, in esilio, nessuna patria autenticherà in inno queste narrazioni. Questo è dunque lo scopo della guerra moderna: isolarci. La guerra è sempre dentro di noi.

In un passaggio preveggente, di stordente acutezza, Malaparte dice che “ciò che muove il tedesco alla crudeltà, agli atti più freddamente, più metodicamente, più scientemente crudeli è la paura. La paura degli oppressi, degli inermi, dei deboli, dei malati, la paura dei vecchi, delle donne, dei bambini, la paura degli ebrei”. La guerra, lo sterminio nasce dalla paura dell’inerte. Questa verità è sontuosa: lo scrittore, che si fa più misero tra i miseri per descrivere la miseria – ed è per questo il più nobile degli uomini – ci aiuta a non aver paura. Frequentare la grande letteratura ci salva dalla violenza, non inquina di crudeltà i nostri atti. Chi legge i grandi libri, non fa la guerra, la impedisce.

Davide Brullo

Gruppo MAGOG