1. Il peso e la grazia: Marsiglia, Grecia-Francia-Europa
“Difficile dubitare del peso che eventi tanto drammatici quanto oscuri negli esiti dovettero avere […] nel volgersi a un passato remoto come a volervi ancorare il presente alla deriva”, scrive Giancarlo Gaeta nella postfazione a La rivelazione greca, volume di commenti e traduzioni di Simone Weil edito da Adelphi ed esito del tentativo della pensatrice mistica “di ricomporre in unità lo spirito greco e la fede cristiana, e perciò di eliminare la perniciosa moderna tra filosofia scienza arte e religione”, lei che era da anni dedita alla ricerca di ciò che nella cultura della Grecia antica anticipava allo spirito cristiano, costituendo il vero fondamento spirituale dell’Europa e quindi dell’Occidente.
I tragici eventi erano quelli della Seconda Guerra mondiale, e la Weil era per questo a Marsiglia, antica colonia greca, porto d’incontro tra antichità e Cristianesimo.
Per comprendere il suo punto di vista, da lei sviluppato proprio in quella fase, basta sfogliare la Lettera a un religioso, tenendo a fianco le sue traduzioni di Eraclito.
La Weil muove da questo dato: “La cronologia non può avere un ruolo determinante in un rapporto tra Dio e l’uomo, un rapporto in cui uno dei termini è eterno”. Per questo motivo a suo avviso: “Il Cristo è presente su questa terra ovunque ci sia crimine e sventura, a meno che gli uomini non lo scaccino”. In tutti gli altri casi può esserci. Anche prima di essersi rivelato: “Molti dei nomi di divinità greche sono probabilmente […] nomi diversi che designano una sola Persona divina, cioè il Verbo”. Questa una delle prove addotte: “Peraltro san Giovanni parla dell’‘Agnello sgozzato sin dalla fondazione del mondo [nota: Apocalisse 13,8]’”. Non senza annotare l’affinità tra Dioniso e il Cristo che afferma di esser “la vera vite” e riferendo il ruolo di mediazione di Cristo alla grazia della geometria greca. “Cristo […] si è riconosciuto nel Messia dei Salmi, [..] ugualmente si è riconosciuto nella media proporziona le della geometria greca, che diventa così la più clamorosa delle profezie”.
Si fosse fatta battezzare la Weil sarebbe stata probabilmente beatificata, eppure non si sentì mai pronta, come se Dio non volesse ancora il suo ingresso in quella Chiesa che ammirava ma osava anche interrogare, lei che Cristo e il Cristianesimo li incontrò “senza alcun intervento umano”, e senza mai aver cercato Dio né pensato di far parte della Chiesa – sentendosi a questo scopo fin troppo imperfetta (“porto in me il germe di ogni crimine, o quasi”), triste alla sola idea di separarsi dagli sciagurati (“massa immensa e sventurata dei non credenti”), definendosi con disagio una “cristiana fuori dalla Chiesa”, pur conscia che la religione “si conosce solo dall’interno”, ma torturata da una serie di questioni che mise su carta durante il periodo newyorkese e sottopose padre Couturier, dubbi rispetto ai quali, pur proclamando tutta la sua fede, non vede in gioco soltanto la propria salvezza individuale bensì una questione di vita e di morte per tutti, universale, e dunque davvero cattolica.
La Weil ama Dio, Cristo, la fede, i santi, la liturgia, i canti, l’architettura del Cattolicesimo, i credenti e in particolare quei pochi cattolici che l’hanno toccata sul piano spirituale, ma non la Chiesa propriamente detta se non proprio nel suo rapporto con tutto ciò che ama, eppure è consapevole del ruolo che essa ha nel suo imporre una disciplina dell’attenzione e soprattutto del fatto che come scrive: “La Chiesa oggi difende i diritti imprescrittibili dell’individuo contro l’oppressione collettiva, la libertà di pensiero contro la tirannide”.
La Chiesa coma casa della sapienza non conforme.
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2. Prima e dopo Marsiglia: a Parigi, New York e Londra
Nata in una famiglia ebraica benestante, la Weil a metà anni Trenta aveva deciso di sua spontanea volontà d’immergersi completamente la vita operaia, sperimentandone tutti gli aspetti, la fame, la fatica e l’oppressione del lavoro a catena, l’angoscia della disoccupazione, sottraendo del tempo alle sue letture per giocare a carte con i colleghi, ma soprattutto seguendone e sostenendone le istanze senza mai iscriversi a un partito, occupandosi invece delle persone, tanto che come ha ricordato padre Perrin, destinatario delle sue lettere edite prima da Rusconi e poi da Adelphi nel volume Attesa di Dio, un giovane operaio gli disse che: “Se tutti fossero come lei, non vi sarebbero più sventurati”.
E “sventura” è una parola cui è necessario tornare.
Fuggita da Parigi con i genitori poco prima che la città fosse occupata, giunse a Marsiglia a metà del mese di settembre del 1940 e proprio qui conobbe padre Perrin, il quale gli presentò Gustave Thibon, il filosofo contadino di Saint-Marcel-d’Ardèche, presso la cui fattoria nella valle del Rodano, sempre nel Midi, la Weil lavorò alla vendemmia, sperimentando di persona anche le fatiche della vita agricola e cominciando per la prima volta a recitare il Padre Nostro, di cui in seguito proporrà anche una propria traduzione (“E non gettarci nella prova”), la mattina e nelle vigne. In un modo particolare, l’unico che sentirà come suo, significativamente.
In A proposito del ‘Pater’, testo raccolto in Attesa di Dio, mette in primo piano il suo sì, più di ogni volontà (“[l]a parte efficace della volontà non è lo sforzo, che è teso verso l’avvenire. È il consenso”), e in una lettera a padre Perrin ammette di non aver mai pregato nel corso di tutta la sua evoluzione spirituale (“temevo il potere di suggestione della preghiera, quel potere per cui Pascal la raccomanda”), il che ha piena rispondenza nella sua affermazione per cui: “Non tocca a me pensare a me stessa. A me spetta di pensare a Dio. E a Dio spetta pensare a me”. E il modo per pregare, sarà di farlo soltanto in greco, significativamente.
“Presso i greci la preghiera somigliava molto alla preghiera cristiana”, scrive tra l’altro la Weil in Lettera a un religioso, e solo nella lingua greca antica sentirà di aver trovato le radici di quella comunicazione, il che non era ovviamente un vezzo bensì l’espressione concreta del suo punto di vista sul nucleo fondante del Cristianesimo.
A Marsiglia la filosofa collabora con i Cahiers du Sud, con lo pseudonimo Émile Novis, anagramma del suo nome e cognome, e comincia a scrivere a padre Perrin, trasferito nel marzo del 1942 in quel di Montpellier, traduce e commenta Platone e i Pitagorici senza mai abbandonare la sua lettura prediletta, amore che l’accomuna a Roger Nimier, ossia le Memorie del Cardinale di Retz, e rischia il carcere con l’accusa di gollismo, da cui si salvò dichiarando schiettamente che avrebbe molto apprezzato conoscere l’ambiente delle prostitute grazie a quelle che si sarebbe trovata a fianco in prigione, ragion per cui fu considerata una matta innocua.
A metà mese la Weil partirà per New York, dove esplorerà il mondo dei neri di Harlem, e poi a Londra, città da cui fu immensamente delusa ma in cui aveva riposto le sue speranze di un ritorno in clandestinità in Francia per mobilitarsi nella resistenza, disattese perché in Inghilterra morirà a soli trentaquattro anni di tubercolosi.
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3. Cristo, sventura, Carità: sullo sradicamento d’Europa
Una delle parole-chiave, se non la più importante della filosofia della Weil è “sventura”.
Nel testo L’amore di Dio e la sventura, edito in Attesa di Dio, spiega come essa c’entri sì con la sofferenza ma a essa non la si possa ridurre, trattandosi di qualcosa che tocca l’anima e la marchia, inseparabile dal dolore fisico, quando non prolungato e molto frequente eppure da esso ben distinta precisamente per questo suo lasciare una traccia nel profondo, sradicare dalla vita quasi come la morte, diventando così una presenza irriducibile nello spirito, che ha il potere d’indurire l’anima e indurre alla disperazione, al disgusto, al disprezzo, pure verso se stessi: “Nella sventura Dio è assente, più assente di un morto, più assente della luce in un sotterraneo completamente buio. Una specie di orrore sommerge completamente l’anima. Durante questa assenza non c’è nulla da amare. […] Bisogna che l’anima continui ad amare a vuoto, o almeno a voler amare, sia pure con una parte infinitesimale di se stessa. Allora viene il giorno in cui Dio le si mostra e rivela la bellezza del mondo, come avvenne per Giobbe.”
È infatti la condizione di Gesù, e ancor prima di Giobbe, quando si credono abbandonati.
E Giobbe, secondo la Weil, non è tanto un personaggio storico bensì immagine di Cristo.
“La condizione umana è a tal punto ignorata che Giobbe potrebbe non essere mai stato scritto. […] Per questo la fede cristiana non fa presa, non si propaga di anima in anima come un incendio”. E questo secondo lei perché non essendo, come non lo è il Cantico dei Cantici, un libro di un ebreo, quello di Giobbe è, assieme a Isaia, Daniele, Tobia, parte di Ezechiele e dei libri sapienziali, certi Salmi e l’inizio di Genesi, tra i pochi testi del Vecchio Testamento assimilabili da un cristiano, mentre tutto il resto è indigeribile in quanto ebraico e quindi, almeno nelle fasi che precedono l’esilio e con poche eccezioni, intriso di un determinismo tra peccato e sventura, tra virtù e prosperità, dominato da un dio non celeste e spirituale (il vero Dio che è Padre), ma visibile e terrestre (il falso dio della Razza), sicché vi manca proprio ciò che gli antichi greci come pure il Cristianesimo già conoscevano e senza il quale un atto di pura carità è impossibile: “la possibilità della sventura degli innocenti”.
La Weil scrive che se Israele non avesse conosciuto l’esilio non ci sarebbe stato nulla di più anticristiano di quel popolo così colmo di crudeltà, cupidigia e idolatria, peccati assai peggiori della lussuria, da creare un luogo tanto impuro che vi fu possibile crocifiggere il Cristo, il vero Dio, e imponendo nella Scrittura non solo il suo nazionalismo ma anche il suo progressismo e vale a dire “la superstizione della cronologia” che ha avvelenato il mondo in quanto Roma, il suo Impero, ne ha assorbito l’essenza a tutto vantaggio dello Stato, entità materialistica e totalitaria la quale a suo avviso avrebbe un corrispettivo nella Chiesa, quando vi si afferma un corpo mistico in realtà mai perfetto come quello del Cristo, per cui: “L’Europa è stata sradicata spiritualmente, recisa da quella antichità in cui tutti gli elementi della nostra civiltà hanno la loro origine”.
Questo affermava la filosofa ebrea in fuga dal nazismo tra Marsiglia, New York e Londra.
In una Professione di fede ha indicato la soluzione.
Marco Settimini
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Attesa di Dio. Obbedire al tempo – Esitazioni davanti al battesimo (uno) (Traduzione di Orsola Nemi, a c. di padre Joseph-Marie Perrin, Rusconi, Milano, 1972)
Ho un fondamentale bisogno – credo di poter parlare di “vocazione” – di passare fra gli uomini e i diversi ambienti umani confondendomi con essi, assumendone lo stesso colore, fin là dove, almeno, la mia coscienza non vi si oppone, scomparendo fra loro, per far sì che si mostrino quali sono, senza mutare volto per me. Desidero conoscerli come sono, per amarli così come sono. Diversamente, infatti, non sarà loro che io amerò, e il mio amore non potrà essere vero. Non parlo di aiutarli, poiché disgraziatamente me ne sento ancora del tutto incapace. Penso che in nessun caso entrerei in un ordine religioso, perché non voglio che un abito mi separi dal resto degli uomini. Vi sono esseri per i quali questa separazione non è un inconveniente, poiché la stessa naturale purezza della loro anima li separa dalla maggior parte degli uomini. Io invece, come credo di avervi detto, porto in me il germe di ogni crimine. Me ne sono accorta specialmente durante un viaggio, nelle circostanze che vi ho raccontate. I delitti mi facevano orrore, ma non mi sorprendevano; ne sentivo in me stessa la possibilità; anzi, mi facevano orrore proprio perché ne sentivo in me questa possibilità. È una predisposizione naturale pericolosa e penosissima, la quale però, come ogni disposizione naturale, può servire al bene se con l’aiuto della grazia sappiamo utilizzarla come conviene.
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Dichiarazione degli obblighi verso il genere umano – Professione di fede (Traduzione di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito, Castelvecchi, Roma, 2013)
Vi è una realtà situata fuori del mondo, vale a dire fuori dello spazio e del tempo, fuori dell’universo mentale dell’uomo e di tutto ciò che le facoltà umane possono cogliere.
A questa realtà corrisponde, al centro del cuore umano, l’esigenza di un bene assoluto che sempre vi abita e non trova mai alcun oggetto in questo mondo.
Essa, quaggiù, è resa manifesta dalle assurdità, dalle contraddizioni insanabili, contro le quali urta sempre il pensiero umano quando si muove esclusivamente in questo mondo. […]
Questo consenso può essere formulato. Può anche non esserlo, neppure nell’intimo, e può non apparire in modo chiaro alla coscienza, benché sia realmente presente nell’anima. Spesso non lo è realmente, benché venga espresso a parole. Che sia formulato oppure no, la condizione unica e sufficiente è che esso ci sia davvero.
A chiunque acconsenta effettivamente a orientare la sua attenzione e il suo amore fuori del mondo, verso la realtà situata al di là di tutte le facoltà umane, è consentito di riuscirvi. In tal caso, prima o poi, su di lui discende del bene che, attraverso la sua mediazione, si irradierà attorno a lui.
L’esigenza di bene assoluto che abita al centro del cuore e la possibilità, anche solo virtuale, di orientare l’attenzione e l’amore fuori del mondo e ricevere il bene, costituiscono insieme un legame che vincola all’altra realtà ciascun uomo, senza eccezione.
Chiunque riconosce quest’altra realtà, riconosce anche questo legame. In base ad esso, considera ogni essere umano, senza eccezione, come qualcosa di sacro a cui è tenuto a testimoniare rispetto.
Non vi è altra possibile motivazione al rispetto universale per tutti gli esseri umani. Qualunque sia la forma di credenza o di incredulità che un uomo ha voluto abbracciare, colui il cui cuore è incline a praticare questo rispetto riconosce effettivamente una realtà diversa da quella di questo mondo. Se, di fatto, a qualcuno questo rispetto è estraneo, gli è ugualmente estranea anche quell’altra realtà. […]
Da parte di un uomo che abbia fatto la scelta del rifiuto, l’esercizio di una funzione, grande o piccola, pubblica o privata, dal momento che pone nelle sue mani i destini di altri uomini, rappresenta in sé un’attività criminale. Sono complici tutti coloro che, pur conoscendo il suo pensiero, lo autorizzano a esercitare quella funzione.
Uno Stato la cui dottrina ufficiale costituisce nella sua interezza un’istigazione a questo crimine si è posto esso stesso in una condizione pienamente criminale. Non gli resta neanche una traccia di legittimità.
Uno Stato che non si fonda su una dottrina orientata anzitutto contro ogni manifestazione di questo crimine non ha pienezza di legittimità.
Simone Weil