La domenica parlano – con sperabile ispirazione – i preti. Il lunedì, da incosciente, metto il cranio dentro la liturgia domenicale. Screziando, da dis-graziato, i testi. La liturgia la trovate, per comodità, qui. Io uso il Nuovo Testamento interlineare, bisciando tra italiano, greco e latino. Pigliate questi come appunti sul margine sfinito, come punti d’appoggio – o di rovina – sulla roccia.
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Si parla di separazione, qui. La separazione tra Dio e l’Uomo, l’Adamo, a causa del serpente, che ha forma di coltello e di cerniera; la separazione tra Gesù e “gli scribi scesi da Gerusalemme” (Mc 3, 22) e tra Gesù e “sua madre e i suoi fratelli” (Mc 3, 31), annientati nel sepolcro di quella frase radicale, “Chi è mia madre, chi i fratelli?” (Mc 3, 33). La separazione, poi, tra carne e spirito (“se anche il nostro uomo esteriore si sfascia, il nostro uomo interiore si rinnova”, 2 Cor 4, 16), tra visibile e invisibile (“noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili”, 2 Cor 4, 18). L’uomo vive scisso da quando mangia “dall’albero da cui ti ho comandato di non mangiare” (Gen 3, 11): ha paura della voce di Dio e della sua nudità. La voce di Dio, in effetti, lo rende nudo due volte, un roveto di ossa. L’uomo dà la colpa alla donna e la donna al serpente: ma chi è più serpe dei tre? L’uomo è destinato alla codardia e all’ottusità, la donna all’avventatezza (“serpente mi ha teso l’inganno”, Gen 3, 13), serpente alla condanna di essere “maledetto fra le bestie… sul ventre camminerai” (Gen 3, 14). Leggende ipotizzano che serpente, nell’era dell’Eden, camminasse in stazione eretta, fosse più intelligente dell’uomo, una primizia. Se prima l’uomo era mansueto a Dio, il suo domestico, ora, scoprendosi nudo, lo fugge: ma è la caduta – cioè, la separazione – a permettere la congiunzione più vera, tra pari. Dio non anela a schiavi né ad angeli, vuole gli eguali, vuole essere oggetto di desiderio, non l’efficienza del senso di colpa – vuole la morte per adempiere la resurrezione. Per questo Gesù dice che “ai figli degli uomini saranno rimessi i peccati, anche le bestemmie” (Mc 3, 28): avido di innocenza l’uomo deve entrare nella gola di Dio, fino a modificarne gli intenti e le digestioni. Gesù, come le bestie, che non hanno vergogna della nudità e a cui forse Dio parla continuamente, ha la pietà dei feroci: “sarà nel peccato eterno”, “chi bestemmia lo Spirito il Santo” (Mc 3, 29). Sottile come una farfalla la separazione tra perdono e condanna. Secondo gli scribi, Gesù è Beelzebùl, il Signore delle Mosche, “il principe dei demoni” (Mc 3, 22): perché fa conoscere agli uomini quello che non devono conoscere. Gesù, allora, agisce come il serpente, agli occhi di chi vede solo il visibile. Ma “le cose visibili sono un attimo, le cose invisibili sono eterne” (2 Cor 4, 18). Il veleno del serpente può uccidere, eppure in dosi misurate è l’antidoto a ogni veleno, salva la vita. Ciò che uccide, salva. La fratellanza letale inaugurata da Gesù annulla la genealogia e il veleno di una presunta nobiltà. Secondo Genesi la donna, che conosce l’alfabeto del serpente, lo può ammazzare, “questa ti schiaccerà la testa” (Gen 3, 15): poi ciba i figli con la carne del serpe, perché evolvano in intelligenza. Per vedere l’invisibile e coniugarsi con la Parola di Dio, non diversa dal sibilo delle foglie, bisogna imparare pupille di serpe. (d.b.)