“Gli uomini sono diventati macchine”. Un saggio di Thomas Carlyle
Politica culturale
Sull’importanza delle droghe nelle tradizioni religiose
Cultura generale
Luca Bistolfi
Addio alla ragione. E a Paul Feyerabend
Abbiamo diligentemente aspettato, come si vede, ma tanto il 13 gennaio e l’11 febbraio di questo 2024, in che son caduti rispettivamente centenario della nascita e trentennale della morte di Paul K. Feyerabend, quanto questi primi quattro mesi, sono trascorsi senza che gli innumeri nostrani “addetti alla cultura” degnassero le loro maestà d’un doveroso omaggio a uno dei massimi filosofi del XX secolo. Unica eccezione, un breve e blando articolo di «Doppiozero», anch’essa rivista “in rete”.
Ignoro cosa accada nelle università; e lo ignoro non perché io sia più sprezzante di loro, ma perché se anche abbiano organizzato qualcosa o lo stiamo apparecchiando, di qua di quelle dorate e solide mura non s’ode mezza voce. Perché se quelli se ne stanno rintanati nei loro gusci, dovremmo interessarcene? Stiamo pertanto a cosa accade nel mondo reale, anche se in questo caso accade niente di niente.
Feyerabend fu, ed è, uno dei più fecondi filosofi del Novecento e senza alcun dubbio, insieme a Imre Lakatos e Thomas Kuhn, il massimo filosofo della scienza, e inoltre senza dubbio il più colto, brillante, intelligente, originale e altrettanto il più spietato, se pure sempre con un’allure leggiadra, critico della scienza e degli scienziati: tanto delle loro pretese autoritarie, quanto dei loro metodi, o metodo, di indagine.
Per Feyerabend la parola d’ordine – ma anch’essa, in coerenza col fondo del suo pensiero, non dogmatica o anche solo tassativa – dagli anni Settanta in avanti è sempre stata pluralismo. Non certo, si badi, quel pluralismo oligarchico e oclocratico che ben si conosce in ogni dominio; bensì un pluralismo autentico, schietto, mobile. Essendo la struttura del mondo ricca e complessa, è inaccettabile poiché sciocco e protervo ricorrere a un solo ed unico metodo di indagine, quale ne sia il dominio di applicazione, soprattutto quello scientifico e compreso quello medico. Inoltre per Feyerabend nella scienza, o meglio nelle scienze, apertis verbis, non c’è un metodo, ancorché la comunità scientifica ne vanti presenza, uso e conseguente correttezza e, ça va sans dire, infallibilità.
La posizione di Feyerabend, anche tra i critici delle scienze così dette esatte, così come degli epistemologi suoi colleghi a principiare dal sopravvalutatissimo Karl Popper, è davvero unica, fatta di quell’originalità giammai fine e a sé stessa, quanto più tosto edificata su profonde vaste e meditate letture ed emersa alla fine di un percorso come a dire in crescendo e che a poco a poco si liberava, complici una vita alquanto singolare per un filosofo e anche un milieu culturale, la San Francisco degli anni Sessanta e Settanta, di vecchiumi ermeneutici e scientifici.
Ma già sulla soglia degli anni Cinquanta, ben prima quindi dello svolto verso quell’anarchia e quel dadaismo filosofici così incompresi ovvero rigettati dal pubblico anche colto, Feyerabend mostrò un’inclinazione “eccentrica”: dovendo andare in Gran Bretagna per spendere una borsa di studio, s’era scelto di guida quel “matto” di Ludwig Wittgenstein, che però morì proprio poco prima di poter accogliere Feyerabend, il quale dovette ripiegare su Popper, incrociato già in precedenza. Fu un bene, col senno di poi e sotto certi rispetti, ché così Feyerabend potette osservare da vicino l’autore della Società aperta e i suoi nemici e soprattutto della Logica della scoperta scientifica, il pubblicamente riconosciuto maestro morale e papa laico dell’epistemologia mondiale e apprendere ancor di più ciò in seguito avrebbe demolito.
L’autobiografia di Feyerabend, scritta in inglese, Ammazzando il tempo (ma va tenuto in conto l’originale, Killing Time, ché assume un doppio significato) ci può dire moltissimo sull’uomo e il pensiero e ne è un eccellente primo accesso. Tanto per portare un esempio, sin da giovanissimo l’arte – teatro e musica in ispecie – ebbe per Feyerabend un ruolo fondamentale, che poi egli portò attraverso lezioni conferenze e libri nella riflessione epistemologica e filosofica, con un controllata e rara creatività. Testo cruciale su tale direttrice: Scienza come arte.
A Feyerabend non si perdona d’aver detto Addio alla ragione, come suona il titolo d’un altro suo bel libro, cioè a dire d’aver osato molestare e mettere in ridicolo la dea della nostra èra, che per potenza e schieramento di guitti, sgherri, boia, sacerdoti, corifei, insieme alle monoteistiche, è la divinità più tirannica della storia. Si possono capire da questi brevi cenni i motivi dell’imbarazzato e imbarazzante silenzio di giornalismo cultura, addetti ai lavori filosofici (dalla manovalanza alle così dette maestranze), case editrici etcoetera sul doppio anniversario. Un silenzio che fa il paio con anni e anzi decenni di altrettale oblio, da far passare Paul Feyerabend per una rapidissima cometa di che una volta si è udito parlare, chissà dove, chissà come, chissà quando.
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Metodica omertà contro «Contro il metodo»
A dare un segno di controtendenza è l’uscita della «edizione definitiva» di Contro il metodo (Feltrinelli), il libro canonico col quale di fatto Feyerabend uscì allo scoperto e approdò alla ribalta. Bisogna però riflettere qualche istante su questa iniziativa.
Contro il metodo fu pubblicato per la prima volta, in inglese, nel 1975. Ma già un suo abbozzo egualmente intitolatotrovò accoglienza in Italia nel 1973 presso il piccolo editore milanese Lampugnani e Nigri, senza che tuttavia alcuno se ne accorgesse: ciò sino a quando Feltrinelli, 1979, si impossessò dell’editio magna frattanto uscita, di poi tenendolo bensì costantemente in catalogo sino ad ora, ma disdegnando di seguire le revisioni apportate da Feyerabend: la prima nel 1988, la seconda e ultima nel 1993, ultima che oggi finalmente abbiamo. Sicché si deve concludere, che in questi quasi trent’anni, dal 1979 a oggi, Contro il metodo non è stato quello voluto da Feyerabend.
Faccenda singolarissima anche perché l’opera fu accompagnata, sin dalla prima edizione Feltrinelli, da un saggio, riproposto anche in questa versione definitiva, di Giulio Giorello, che da studioso dedito esclusivamente ai rapporti tra filosofia e scienza pare in quarant’anni non essersi accorto delle revisioni d’autore. Ci chiediamo: se non fosse arrivato il doppio anniversario 2024, quanto ancora avremmo dovuto aspettare per avere l’edizione definitiva di Contro il metodo?
Magagna vera e propria e ulteriore è la traduzione. Nell’edizione 1979 e nelle seguenti ristampe (peraltro invero pochissime) essa portava la firma di Libero Sosio, bensì traduttore di professione e che fece, immagino, del suo meglio; ma gran poco a suo agio con Feyerabend e talora anche con la lingua italiana. Sarebbe quindi stata opportuna e persin obbligatoria una revisione radicale o addirittura una versione ex novo, e invece ci dobbiamo ancora tenere una traduzione vecchia e scombicchierata; e ciò nonostante «aggiornamento e traduzione delle nuove parti di Silvia Tossut», alla quale nessuno ha dato l’incarico di mettere le mani sul lavoro del collega oppure, se il contrario, non ce ne stiamo accorgendo.
Capisco la difficoltà di ripigliar daccapo un testo corposo e a tratti non semplice e di trovare un traduttore più fresco e dotato; ma codesta grave trascuratezza la si può perdonare – forse – a un editore “condominiale”: non alla Feltrinelli, la quale evidentemente – accortasi tardi del doppio anniversario, affezionata all’antico collaboratore o semplicemente menefreghista – ha preferito riciclare la vecchia versione.
Non voglio però che mi si fraintenda e che quindi si puntino troppi sguardi torvi verso l’editore. Visto lo stato pietoso degli studi e della ricezione di Feyerabend in Italia questa «edizione definitiva» è grasso che cola.
Le case editrici, mica innocenti per carità, seguono il mercato e, soventissimamente, le tendenze e le indicazioni dell’università, circa la quale va anche sottolineato il suo ancor fortissimo potere di veto, spinte, controspinte, censura e tutto l’armamentario utile a promuovere insabbiare o distruggere chicchessia. Finché, dico in parentesi, non la smetterete di pendere dalle labbra dei professori universitari come scaldapanche da quelle del parroco, costoro non la smetteranno mai di fare e disfare, cambiare il clima, impartire ordini etcoetera. Ma lasciam correre e gioiamo di questa uscita, nei cui apparati si ritroveranno maggiori dettagli circa la vicenda biografica dell’opera.
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Consigli per gli acquisti…
Chi volesse tuttavia mettersi al corrente del pensiero di Paul Feyerabend prima di Contro il metodo, può rivolgersi ad altri testi, inizialmente più accessibili. A tutta prima infatti Feyerabend appare un filosofo “facile”, ma nasconde diverse insidie e bisogna essere un po’ preparati. L’insidia però delle traduzioni sballate, denunciate dallo stesso Feyerabend, è però inevitabile. Il lettore saprà arrangiarsi e tanti auguri.
Suggerisco di iniziare con L’Oceano della Conoscenza. Il pluralismo libertario di Paul Karl Feyerabend di Luca Tombolo (FrancoAngeli): concentrato “soltanto” sugli aspetti strettamente epistemologico-filosofici, non accede ad altre dimensioni pur rilevantissime del pensiero feyerabendiano, con però una cruciale eccezione, costituita dall’ampio spazio dedicato al saggio Sulla libertà di John Stuart Mill, considerato da Feyerabend il caposaldo della sua visione del mondo: uno dei molti dettagli sul filosofo austriaco che non si sentono dove si dovrebbero sentire.
L’Oceano della Conoscenza è uno studio eccellente, ancorché si debba tener conto che Tombolo ha adoperata la vecchia edizione di Contro il metodo, delle cui citazioni ovviamente il libro trabocca.
Anche La collana di armonia di Simone Zacchini (FrancoAngeli) può essere una lettura utile, ma solo in via integrativa, ché a Feyerabend dedica poche pagine nella più ampia disamina, spiega il sottotitolo, su Kant, Poincaré, Feyerabend e la crisi dell’episteme. A questo punto però è bene afferrare i libri del filosofo. Ad avviso di chi scrive, le opere più immediate ma al contempo dense e, absit iniura verbo, spassose sono il Dialogo sul metodo, i Dialoghi sulla conoscenza e Ambiguità e armonia. Realtà e storia (tutti Laterza). Cercate l’edizione Mondadori del 2009 uscita in edicola, quella verde che imita i Meridiani: li raccoglie tutti e tre.
Dopodiché si potrà passare a Contro l’autonomia. Il cammino comune delle scienze e delle arti (Mimesis), un libretto da un pomeriggio e persin di meno composto per metà da alcune forti osservazioni sulla parcellizzazione del sapere e l’autoisolamento delle scienze e per l’altra metà da un’intervista in cui Feyerabend riassume a grandi ma eloquenti linee alcuni aspetti cruciali del suo pensiero.
Dopodiché si potrà passare alla Conquista dell’abbondanza (Raffaello Cortina), dove si incontrano generose riflessioni sulla scienza e la gnoseologia in generale. Nelle intenzioni dell’autore, l’opera sarebbe dovuta essere l’ultimo gioiello della corona, in cui avrebbe brillato in tutta la sua vastità una delle chiavi di volta delle meditazioni feyerabendiane, cioè a dire la ricchezza di un’esistenza impossibile da cogliere attraverso gli angusti principii delle scienze “dure”, che di duro hanno quasi sempre e solo la zucca. Purtroppo però la morte ebbe il passo più lungo del filosofo, il quale non riuscì a terminare il libro, ma la cui lettura sarà nondimeno fruttifera: è sempre quella volpe di Feyerabend.
Non meno arduo sarà sostare Sull’orlo della scienza (Raffaello Cortina) cioè a dire il carteggio tra Feyerabend e Lakatos. Oltre a essere uno dei più rutilanti carteggi “classici”, esso è un vero e proprio dialogo sulla scienza, e non solo, e una significativa attestazione dell’esistenza un tempo di uomini retti, capaci di dialogare in profondità non per amore del dialogo fine a sé stesso, ma per scavare nella “Cosa”, per imparare e disimparare reciprocamente. Un vero manuale di dialettica filosofica ed epistemologica. Peraltro, come in più luoghi Feyerabend spiega, fu proprio il rapporto con Lakatos a suscitare Contro il metodo.
Ci sarebbe qualcosa da dire su traduzione e curatela di entrambi gli ultimi due titoli, ma soprassediamo, ché è già manna la loro presenza.
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… e un florilegio
Adesso però è giunto il momento di tacere e di ascoltare Feyerabend. Confesso d’esser stato a lungo in imbarazzo avanti di scegliere qualche passo d’aiuto a chi volesse introdursi nello screziato e odoroso universo di Feyerabend, tale e tanta è, ovviamente!, l’abbondanza delle sue pagine. Nel dubbio, dopo questo volantinaggio, leggete tutto Feyerabend!
Dai Dialoghi sulla conoscenza (qui e nel successivo estratto A rappresenta il contraddittore, difensore del metodo scientifico e, diciamolo pure, del pensiero comune; B rappresenta Feyerabend):
A: Ma come spiega il successo delle scienze?
B: Questa è un’ottima domanda, soltanto che crea più guai a Lei che a me. Lei vuol rispondere alla domanda dicendo che c’è una realtà che gradualmente viene scoperta. La mia argomentazione precedente e le difficoltà della teoria quantistica dimostrano che questa risposta non può essere corretta…
A: Un momento – come applica la Sua argomentazione, che riguardava la ragione, alla realtà?
B: La realtà, come la ragione, è un oggetto di ricerca, ma è anche un soggetto agente della ricerca.
A: Come è possibile che la realtà sia un soggetto agente della ricerca?
B: Be’, quali sono gli elementi della ricerca? Le persone, i gruppi di persone, gli strumenti e così via – e tutto ciò è reale, vero? O Lei immagina che le persone con le loro idee si librino, come gli dei, su una realtà cui non prendono parte? […]. Una volta accettata questa premessa, la conclusione è conseguente, come nel caso della ragione. Naturalmente, dobbiamo ancora spiegare il successo delle scienze, ma la spiegazione ora è molto più complessa di quanto non fosse il semplice riferimento ad una realtà stabile. Lo stereotipo “teoria” non ci aiuta più, lo stereotipo “storia” forse sì.
A: E per “storia” Lei intende un resoconto storico?
B: Sì, però non un resoconto come lo intendono quegli storici che vanno alla ricerca di statistiche e di strutture.
A: Lei rifiuta la storia scientifica?
B: Va benissimo come nota a piè di pagina, ma non riesce a trattare gli avvenimenti singoli. Nell’ambito di tali avvenimenti non può esserci nessuna teoria.
A: Non ipostatizza forse i singoli avvenimenti?
B: Certamente no. Io guardo la storia da empirista e trovo che le azioni degli individui empiricamente identificabili forzano sempre persino gli schemi teorici più delicati, a meno che lo schema sia vago e indefinito quanto gli schemi proposti da Prigogine, Varela, Jantsch, Thom e altri.
A: Queste sono teorie altamente sofisticate…
B: Certamente, ma la loro applicazione alla storia si effettua sempre dopo l’evento, il che significa che anche loro raccontano storie, solo che si tratta di storie circondate da un gergo inutile e fuorviante.
A: Sicché Lei usa una teoria, l’empirismo, per batterne un’altra.
B: L’empirismo non è solo una teoria, è anche una pratica e, inoltre, qui sono impegnato in un dibattito, non nella ricerca di fondazioni. Tutto ciò significa, naturalmente, che il relativismo è una chimera proprio come il suo litigioso gemello, l’assolutismo o oggettivismo.
A: L’oggettivismo e il relativismo sono “gemelli litigiosi”?
B: Sì, e Hans Peter Duerr ha già identificato la loro schiatta comune. Entrambi presumono che cose come la scienza o “la visione del mondo dei Dogon” siano ben definite e rimangano all’interno dei confini stabiliti dalla tradizione. Gli oggettivisti universalizzano le leggi vigenti nei confini della loro materia preferita, mentre i relativisti insistono sulla validità ristretta delle leggi, all’interno dei medesimi confini. Ma, come ho cercato di far vedere in Contro il metodo e La scienza in una società libera, non esiste nessuna definizione di scienza che si estenda a tutti gli sviluppi possibili e non c’è alcuna forma di vita che non possa assorbire radicalmente situazione nuove. I concetti, specialmente i concetti “che stanno alla base” della concezione del mondo non sono mai fissati saldamente come se fossero inchiodati; sono mal definiti, ambigui, oscillano fra interpretazioni “incommensurabili” e devono esserlo, se il cambiamento (concettuale) deve essere possibile. Sicché, in un certo senso, sia gli errori del relativismo filosofico, sia quelli dell’oggettivismo risalgono all’idea platonica che i concetti sono stabili e inerentemente chiari e che la conoscenza conduce dall’illusione fino alla penetrazione di questa chiarezza. Comunque, ora sono d’accordo con Munevar che la scienza debba conservare il suo ruolo eccezionale in Occidente, in quanto è la più adatta a questa situazione. L’Occidente è coperto dagli escrementi della scienza, quindi, naturalmente, ha bisogno degli scienziati per ripulirsi, però vorrei aggiungere che ci sono altri modi di vivere in questo mondo. La gente è intervenuta sul mondo in molti modi diversi, in parte fisicamente, interferendo di fatto con esso, in parte concettualmente, inventando i linguaggi e creando al loro interno delle inferenze. Alcune azioni hanno trovato riscontro, altre non sono mai decollate. Secondo me, questo suggerisce che c’è una realtà e che è molto più duttile di quanto non presuma la maggior parte degli oggettivisti. Diverse forme di vita e di conoscenza sono possibili perché la realtà le permette e le incoraggia persino e non perché “verità” e “realtà” siano nozioni relative».
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Dal Dialogo sul metodo:
A: Contesti lo spirito umanitario?
B: Mi oppongo all’iniziativa di rendere le tendenze umanitarie parte integrante dell’ideologia sociale, come negli Stati Uniti, dove convivono persone provenienti da diverse tradizioni. E mi oppongo ancora di più al tentativo di imporle a tribù e nazioni che sembrano condurre una vita completa, pur basandosi su azioni e convinzioni molto diverse […]. Uno spirito umanitario occidentale è subito pronto a maltrattare gli animali, al fine di trovare rimedi terapeutici per se stesso, mentre una persona che rispetti tutto il regno della natura nega che gli esseri umani abbiano il diritto di sottomettere le altre specie ai suoi capricci, anche qualora ci vada a suo detrimento.
Ib., p. 48:
Il vostro intendimento… – e mi riferisco a te e ai tuoi amici intellettuali – è quello di sviluppare teorie, sistemi etici, filosofie umanitarie o quanto altro tenete nel cassetto e di imporli agli altri sotto la maschera dell’educazione. Io voglio che la gente trovi da sola la sua strada; tutto quello che faccio è di rimuovere gli ostacoli che gli intellettuali hanno disseminato sul cammino.
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Dai Dialoghi sulla conoscenza. Fantasie platoniche, Mondadori 2009, p. 196:
Si può scegliere: facendo scienza in modo produttivo si può contare sulla fede o sulla ragione. In quest’ultimo caso bisognerà diventare metafisici, poiché la metafisica è definita come una disciplina che non si basa su osservazioni, ma esamina le cose indipendentemente da quello che l’osservazione sembra dirci. In una parola, la buona scienza ha bisogno di argomenti metafisici per continuare a svilupparsi; oggi non sarebbe quello che è senza questa dimensione filosofica…
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Da Ambiguità e armonia. Realtà e storia:
Lamentarsi di una mancanza di ‘armonia’ significa condannare assetti che si sono formati attraverso millenni e coloro che parlano di armonia suonano pericolosamente come dei tiranni che vogliano assoggettare alla propria regola qualunque varietà sia dato loro scoprire. È vero, in questo mondo ci sono fame e conflitti e ci sono scoperte incredibili. Ma perché mai dovrebbero tutti reagire a questi due tipi di fenomeni nello stesso modo e, ancor più importante, perché dovrebbero entrambi trovar posto in un unico schema coerente? […]. Se vogliamo capire cosa sta accadendo e se vogliamo cambiare ciò che non ci piace, dobbiamo conoscere sia la natura del mondo sia la natura degli esseri umani e dobbiamo anche sapere come si combinano insieme. Solo una teoria onnicomprensiva, solo una concezione del mondo ci può fornire queste informazioni. È così che alcuni scrittori, tra di essi il divino Platone, hanno giustificato il bisogno di una descrizione coerente di tutto ciò che esiste. La maggior parte della gente sarebbe d’accordo, inclusi gli scienziati e i profeti. C’è un solo mondo, noi tutti ci viviamo, perciò sarà meglio imparare come tutto si collega.
Ma con questa assunzione sfortunatamente ci ritroviamo al punto di partenza. Innanzitutto, chi sceglieremo come nostri insegnanti? Molti individui, gruppi e scuole sono in competizione tra loro per diventarlo.
In secondo luogo, chi ha detto che le parti del mondo si combinano in modo armonioso? Che nel mondo non ci sono conflitti? Per gli gnostici, il mondo era diviso in due: c’era il mondo di Dio e il mondo della materia creato da demoni inferiori. Per lo gnostico l’essere umano contiene elementi di entrambi i mondi: ha un’anima immortale e un corpo deperibile; nelle parole di alcuni gnostici, è un granello d’oro racchiuso nel fango. Tradotto in termini più vicini a noi, questo significa che le scienze della materia e le scienze dello spirito non solo sono differenti, ma devono essere tenute separate, altrimenti non rappresentano correttamente la realtà. In senso stretto, non può e non deve esserci alcuna scienza della materia: un oggetto di studio troppo vile e ingannevole per essere anche solo preso in considerazione. Un detto medievale più tardo dà un’idea di ciò che questo implica per quanto concerne il corpo umano: intra faeces et urinam nascimur [in realtà la frase è attribuita ad Agostino, ma c”è qualche dubbio], veniamo generati in mezzo alle feci e all’urina. Incidentalmente, notate che alcuni scienziati, compresi Planck ed Einstien, avevano opinioni simili. Essi sostenevano che c’è una ‘realtà oggettiva’ eterna e stabile, che è interamente materiale (qui gli scienziati di discostano dagli gnostici), mentre dall’altro lato c’è la vita quotidiana degli esseri umani, la loro nascita, crescita e sviluppo, le loro gioie e dolori e infine la loro morte. La vita quotidiana è un’illusione (il termine è di Einstein). Non conta nulla se paragonata alla ‘realtà’. Ma mentre gli gnostici ammettevano che, dato un tale mondo, era necessaria la rivelazione per acquisire la conoscenza, i nostri scienziati ritengono di poter in qualche modo coprire la distanza tra illusione e realtà per mezzo della ragione. Sono gnostici, sì, ma gnostici alquanto confusi. Ad ogni modo, l’idea di un mondo armonioso al quale tutti apparteniamo è solo una tra le tante; non può costituire una misura per le altre.
Ma se anche il mondo fosse unitario, non è affatto certo che una concezione del mondo ne costituirebbe la guida migliore. Le concezioni del mondo non sono soltanto incomplete, ma ingannano la gente e, per usare una frase un po’ altisonante, sminuiscono la nostra umanità […].
So che c’è gente che pensa di poter amare l’umanità e perfino che scrive di questo strano rapporto d’amore. Ma il loro amore evapora velocemente quando sottoponete loro delle facce particolari attaccate a corpi particolari che emanano un odore particolare forse un po’ troppo forte. Inoltre, l’amore per l’umanità non ha mai impedito a nessuno di essere crudele verso quegli individui che paiono insidiarla. Farsi guidare da idee astratte è pericoloso se vengono a mancare strette relazioni personali con gli individui concreti. Non c’è modo di uscirne: reagire al mondo è un fatto personale (di famiglia, di gruppo), e come tale non può essere sostituito neanche dalla più affascinante concezione del mondo.
*Il servizio e la scelta antologica dei testi sono di Luca Bistolfi