Operazione Giacarta, o sulla disinvolta criminalità della “più grande democrazia del mondo”
Cultura generale
Luca Bistolfi
Il televisore era aperto sul solito nulla di tutti i giorni. La conduttrice, una vecchia imbottita di botulino, si interruppe di colpo guardando oltre le telecamere. «Mi fanno segno che il telegiornale ci sta chiedendo urgentemente la linea. Speriamo non sia nulla di grave. Di questi tempi non si sa mai. A più tardi!».
Lo schermo diventò nero, nessun suono. Poi la sigla aggressiva del notiziario e la scritta «Edizione straordinaria».
Al centro del rettangolo comparve il giornalista di turno, in piedi. Aveva l’aria trafelata. Si vedeva che prima di entrare in studio non era passato né in sartoria, né dal truccatore, e forse nemmeno da casa. Era riuscito a malapena a infilarsi la camicia nei calzoni. Alle sue spalle, anziché le solite immagini di guerra, del presidente o di un cantante, c’era quella di un uomo barbuto con una maglietta rossa e un gatto stretto tra le braccia.
Il volto del giornalista era pallido.
«Signore e signori, buonasera», disse con voce tremante. «Penso sia la prima volta nella storia della televisione italiana che un’edizione straordinaria del telegiornale dà al nostro Paese una buona notizia. Una notizia eccellente, direi». Ora gridava quasi.
«Scusate ma l’emozione è travolgente. Pochi istanti fa è giunta in redazione una notizia che tutti aspettavano da anni. La Mondadori ha da poco mandato in libreria le nuove traduzioni di Ubik e delle Tre stimmate di Palmer Eldritch, due dei massimi capolavori dello scrittore americano Philip Kindred Dick, che vedete alle mie spalle». Si schiarì la voce e proseguì.
«Già da tempo girava voce che Fanucci, storico editore di Dick – uno dei massimi scrittori del Novecento e per molti addirittura un profeta – ne avesse perso i diritti».
Si interruppe per qualche istante sbirciando un foglio che stringeva tra le mani.
«La notizia, si capisce, è di enorme portata. E proprio in questi minuti decine di migliaia di ammiratori dello scrittore si stanno riversando per le strade a manifestare la loro gioia per quella che molti di essi, lungo gli anni, hanno ritenuto la cattività di Philip Dick. Ma sentiamo il nostro corrispondente».
Attorno al corrispondente una massa di persone si accalcava festosa. La notizia si era diffusa con estrema rapidità accendendo gli animi.
«Sì», disse il corrispondente divertito ma non meno emozionato del suo collega. «L’entusiasmo delle persone è alle stelle. Come se – chiedo scusa per il paragone – fosse finita una guerra. Ma cerchiamo di capire meglio il motivo del senso di liberazione che, dopo così tanti anni, sta pervadendo i suoi lettori. In mezzo a questa folla incredibile siamo per caso riusciti a intercettare il professor Taurino, uno dei critici letterari e scrittori più amati del nostro Paese, anch’egli qui a manifestare».
Si voltò brandendo il microfono e porgendolo all’uomo.
«Perché tanta gioia? Cosa significa?». Doveva urlare per sovrastare le grida della folla.
«Beh, è la notizia più bella degli ultimi decenni. Finalmente Philip Dick è stato liberato da traduzioni quasi tutte a dir poco approssimative quando non spericolate. Ho potuto già leggere queste nuove traduzioni e vi posso assicurare che rendono giustizia alla prosa e allo spirito di quei grandi romanzi sempre molto sottovalutati dalla critica e maltrattati, come d’altra parte tutta l’opera dello scrittore americano, che da oggi Dick potrà invece esser letto in maniera rigorosa ma al contempo brillante».
Il giornalista si voltò a cercare qualche altro testimone dell’evento. Un gruppo di ragazzi attorno ai vent’anni strepitava alle sue spalle, sventolando le nuove versioni di Ubik e di Palmer Eldritch. La telecamera si spostò e inquadrò un piccolo falò in cui bruciavano le vecchie edizioni. Il giornalista porse il microfono a una ragazza coi capelli rossi e gli occhi verdi. Sulla faccia l’espressione di un’impareggiabile gioia.
«Perché questo gesto? I libri non si bruciano. Non vi pare di esagerare? Ah, di’ come ti chiami», la ammonì non troppo convinto il giornalista.
«Mi chiamo Rebecca. Sì, è vero. Ha ragione. Solo i preti e i fascisti e i maoisti bruciano i libri. Ma è il nostro è solo un gesto simbolico. E poi sono tutte doppie copie». E scoppiò a ridere.
Il giornalista la incalzò: «Ma perché tutto questo? Cosa significa?».
«Esattamente quello che ha detto il professore. Ma c’è anche dell’altro. Le nuove edizioni saranno prive delle introduzioni di Carlo Pagetti. Un esperto di Dick ma insopportabile. Nella furia di voler dimostrare di conoscere il profeta, arrivava sempre, e dico sempre, a rivelare particolari dei romanzi, anche fondamentali, tipo che fine faceva il protagonista, qual era la sua vera identità, roba così. Peggio di Wikipedia».
«Studio, vi restituisco la linea».
Il giornalista in studio, che frattanto si era un po’ ricomposto, prese a riassumere un lancio di agenzia.
«Ecco», sospirò, «Abbiamo notizie più precise sulla vicenda. È confermato che dopo Ubik e Le tre stimmate di Palmer Eldritch, in autunno usciranno L’uomo nell’alto castello (finalmente col titolo corretto, tengo a sottilineare), Gli androidi sognano pecore elettriche? e Scorrete lacrime, disse il poliziotto. Ma non è finita. C’è in vista addirittura un Meridiano – forse due – che, oltre a questi titoli, comprenderà la trilogia di Valis e Occhio nel cielo firmati da Paolo Parisi Presicce, Tempo fuor di sesto in una versione ancora ignota, e Un oscuro scrutare, che però uscirà con la vecchia traduzione».
In quegli stessi istanti anche i quotidiani e le riviste nazionali, sia cartacei sia digitali, dovettero far saltare le manchette. Uno di essi, Pangea, volle raggiungere al telefono Marinella Magrì, la traduttrice della maggior parte del Dick mondadoriano.
La intercettò a casa sua, sulle colline liguri, e ne uscì un articolo che riteniamo valga la pena riportare per intero. Eccolo.
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È un dato piuttosto noto per chi conosca l’ambiente: nonostante certe chiacchiere, i traduttori sono considerati la manovalanza dell’editoria. Ma attraverso di loro è possibile capire molto di uno scrittore e non di rado imparare come dovrebbe funzionare un cervello al servizio di uno scrittore. È quel che ci pare d’aver cavato dalla conversazione con Marinella Magrì, che firma una vasta parte delle nuove versioni di alcuni tra le vette narrative (e filosofiche) di Philip Dick. Ma prima di entrare nel merito, cerchiamo di conoscere meglio costei.
L’eloquio fluviale e appassionato, Magrì si mostra sorpresa per tutto questo interesse. Accetta l’intervista ma tiene a precisare che non solleverà polemiche. Lei è soltanto una traduttrice. Va bene, ci mancherebbe. Le polemiche penseremo noi a farle. Traduttrice dall’inglese e dal francese, inizia l’attività alla fine degli anni Ottanta, dedicandosi sia alla letteratura canonica, sia a quella eccentrica, tra cui spicca Zacharia Sitchin. In precedenza e in contemporanea, lavora per il cinema, la radio e la televisione pubblica e privata, scrivendo tra gli altri i testi per un documentario dedicato a Curzio Malaparte, Un uomo in rivolta, e per Il tesoro di Rennes-le-Chateau.
Oggi è pubblicata da alcune delle maggiori case editrici italiane: Feltrinelli, Fazi, Rizzoli e appunto Mondadori – una medaglia che di per sé potrebbe voler dire poco, o piuttosto nulla: ma nel caso di Magrì vale il contrario – e a questo momento assomma una cinquantina di titoli, tra cui spiccano alcuni titoli di Colum McCann e Madeline Miller e Deep River di Karl Marlantes, «libro magnifico», dice la sua levatrice, «una grande sfida, date le oltre settecento pagine del testo e l’ambientazione: inizi Novecento fra boscaioli dell’Oregon e immigrati finlandesi, dove non si narra solo di tagliaboschi e pesca del salmone reale, ma di uomini e donne costrette a lavorare (e a vivere) in condizioni terribili, ed è proprio in quegli anni che negli Stati Uniti nascono le prime unioni sindacali. Un romanzo-saga davvero strepitoso, che mi ha occupato per oltre sei mesi e da cui ho appreso molte cose».
Oltre a essere prolifica come un lemming, è altresì di maniacale precisione, attitudini difficili da contemperare ma pare che lei ci riesca. Su Deep River dice: «L’ossessione per la corretta terminologia su argomenti per me del tutto estranei accompagnava ogni ora della mia giornata. Ricordo ancora le telefonate a destra e a sinistra, addirittura alla forestale, per capire come avrei potuto tradurre in modo corretto certe tecniche di taglio e lavorazione dei tronchi». Ritroveremo una tale acribia anche con PKD.
Quando Mondadori glielo propose, dapprima traccheggiò: non l’aveva mai accostato. Poi però ma sì, dai, perché no? E non se ne è affatto pentita, anzi Dick «mi ha spalancato la mente, mi ha messa a soqquadro, regalandomi viaggi fantastici (e pure qualche incubo) per circa due anni». (Ovviamente siamo discreti e non indaghiamo di qual genere di viaggi parli. Ma la ragazza pare lucidissima). A suo giudizio Mondadori ha affidato a lei le traduzioni dei maggiori titoli dickiani proprio per «l’esigenza di affrontare Dick non tanto come autore di fantascienza, quanto come scrittore». E in effetti la riuscita è magistrale. Qualche esempio? Ascoltiamo direttamente l’interessata.
«Fra i “tradimenti” rispetto alle precedenti versioni, cito sicuramente la traduzione dei nomi di luoghi inesistenti ad esempio in Palmer Eldritch, perché lasciandoli in inglese se ne sarebbe persa l’ironia. Su un pianeta così inospitale, monocolore, e pieno di avvallamenti e crateri come Marte, dove i coloni si ostinano a coltivare piccoli orti e dove, se mai cresce qualcosa, è destinato a seccare inghiottito da polvere e siccità, dare agli insediamenti umani nomi come (secondo la mia traduzione) “Mezzaluna di Borgobello”, “Prospettiva del Morbillo” e “Promontorio dei Germogli” credo trasmetta in pieno il senso di divertita ironia dell’autore».
Più problematico Ubik: «Come sappiamo, la celebre biografia di Dick scritta da Carrère riporta come titolo una delle frasi che appaiono nel romanzo: Io sono vivo, voi siete morti. Basata sulla versione francese del romanzo, e su una traduzione italiana precedente di Ubik. La mia traduzione di quelle frasi sarebbe stata diversa: avrebbe conservato, o ricostruito, la rima presente nell’originale e poi sparita nelle precedenti versioni italiane».
La biografia del francese, in Italia stampata da Adelphi, si intitola Io sono vivo, voi siete morti, ma non rende l’idea. L’originale suona così: «Jump in the Urinal and Stand on Your Head. I’m the One That’s Alive. You’re All Dead»; e poi: «Lean Over the Bowl And Then Take a Dive. All of You Are Dead. I Am Alive». Magrì restituisce in maniera magnifica e noi riportiamo le frasi al centro e in maiuscoletto così come compaiono nel romanzo:
SALTATE DENTRO IL CESSO A PIEDI CAPOVOLTI
IO SONO QUELLO VIVO, VOI SIETE TUTTI MORTI
SPORGETEVI SUL CESSO
E DITE ADDIO
VOI SIETE TUTTI MORTI,
QUELLO VIVO SONO IO
«Secondo me non era giusto», prosegue la traduttrice, «perché proprio dalla rima, accompagnata alla drammatica assurdità della situazione, traspariva una divertita ironia, quasi beffarda. Il mio dubbio era se fosse “lecito” cambiare un versetto di quelle rime che era ormai diventato famoso per via del titolo del saggio di Carrère».
In parentesi: titolo a parte, la biografia – romanzata – dello scrittore francese è piuttosto inutile, quando non irritante per il tono fintamente ammirativo ma sotto sotto – e neppur troppo – irrispettoso dell’uomo e dello scrittore. Se volete leggere una biografia seria di PKD, affidatevi a Divine invasioni di Lawrence Sutin, anche se a trascurabile giudizio dello scrivente, si potrebbe fare meglio. Ma è già un lusso. Magrì lavora di fino anche per L’uomo nell’alto castello, ancora inedito ma del quale lei ci spiffera qualcosa: «Tagomi più di altri suoi connazionali parla un inglese piuttosto fantasioso, sia nella costruzione della frase sia nella terminologia. Anzi, in più di un’occasione, nei dialoghi, desta nell’interlocutore qualche dubbio su cosa intenda davvero, dando vita a brevi ed eleganti frammenti di comicità. Il suo modo di dire le cose è spesso formale, molto “nipponico”, potremmo dire, come se trasferisse l’uso dell’inchino anche nel modo di parlare. A volte, invece, è fin troppo secco e conciso. Come se avesse imparato a parlare in inglese mantenendo però la struttura del pensiero giapponese. Mi è sembrato importante non tralasciare questo aspetto. Ho cercato di essere delicata, non ho reso le sgrammaticature così come le aveva scritte PKD, per timore di farne una macchietta». (Poi si diverte a soggiungere: «Amo Tagomi. Lo sposerei»).
Tutte cose, queste, che nelle traduzioni Fanucci spariscono all’origine.
Raccontata così sembrerebbe che sia filato tutto liscio. E invece qualche difficoltà Magrì ne ha pur incontrate. «I temi dickiani sono complessi. Ho dovuto leggere o rileggere testi come Il libro tibetano dei morti, passi della Bibbia e dei Vangeli, o l’I Ching, rinfrescare le idee su alcune leggi della termodinamica, su certi aspetti della meccanica quantistica, e informarmi meglio sul processo di criogenesi. Certo, avrei potuto tradurre limitandomi al testo così com’era, ma senza capire bene di che cosa si trattasse non sarei riuscita (sempre che ci sia riuscita) a trovare le definizioni giuste, e magari a sciogliere un po’ meglio certi passaggi oscuri o in precedenza fraintesi».
In taluni casi è ricorsa schietta all’interpretazione, poiché «Dick non ti spiega mai niente e inoltre scriveva molto velocemente, senza troppo badare a eventuali incongruenze nel testo o nello svolgimento delle azioni, ma quando traduci tutti i nodi vengono al pettine e se vuoi fare un buon lavoro ti tocca sbrogliarli. Ho cercato di farlo, ma qualche contraddizione tuttavia sono stata costretta a lasciarla e ciò su imposizione di Emanuele Trevi (curatore della serie mondadoriana di Dick, ndr). Ma capisco e sono persino d’accordo: talune incongruenze raccontano tanto del loro autore, e non è detto che alcune non fossero volute e parte della visione confusa o alterata di un determinato personaggio».
Certo qualche svista qua e là non manca, ma sono lievi e pertanto trascurabili e certo alcune scelte lasciano perplessi. Per il resto su queste nuove edizioni nulla da dire, tranne che sulle prefazioni di Carrère presenti in tutti e cinque i titoli. Una scelta naturalmente non imputabile alla traduttrice, che però, quando va bene, sono inutili; quando va male sono svianti. Dick inoltre non ha bisogno di un volano così alla moda per farsi leggere.
In buona sostanza queste nuove traduzioni restituiscono l’onore di scrittore tout court a Philip K. Dick e tentano di liberarlo dai bassifondi della letteratura ossia là dove la più parte della critica e dei lettori l’hanno relegato.
Tuttavia resta ancora fastidioso vedere Dick – dal quale cui, per inciso, il cinema ha munto e munge senza posa, spessissime volte tacendolo – esser costretto a procurarsi un green pass per potersi muovere e per accedere se non al Parnaso quanto meno alla repubblica delle lettere. E viene alla mente un passaggio proprio di Pecore elettriche, che citiamo dalla traduzione ancora in circolazione, poiché quella di Magrì resta serrata a doppia mandata nel cassetto:
«Si era trattato del massimo incentivo all’emigrazione: il servo androide era la carota, la pioggia radioattiva il bastone. L’Onu aveva incoraggiato l’emigrazione e reso difficile, se non impossibile, restare. Attardarsi sulla Terra significava correre il rischio di trovarsi classificati come biologicamente inaccettabili, una minaccia per la purezza del retaggio genetico della razza. Una volta etichettato come speciale, un cittadino, anche se accettava la sterilizzazione, era espulso dalla storia. Cessava, in effetti, di far parte del genere umano. Eppure c’era ancora chi si rifiutava di emigrare; e questa decisione rappresentava un atto di un’irrazionalità sconcertante perfino agli occhi delle persone coinvolte in prima persona. Da un punto di vista logico, ogni regolare sarebbe già dovuto emigrare […]. Ad ogni modo, migliaia di individui erano rimasti sulla Terra, per lo più disseminati in aree urbane dove erano fisicamente in grado di vedersi, rincuorarsi con la loro reciproca presenza. Queste persone sembravano essere quelle relativamente a posto di cervello».
(Descrizione che peraltro si attaglia perfettamente al nostro presente e, temo, al nostro futuro).
Ma in fondo chissenefrega del Parnaso e della repubblica letteraria. Dal canto nostro combatteremo, potete giurarci, fino alla morte vostra o nostra; perché Dick è Dick, e voi che lo snobbate siete dei cretini. O per meglio dire: lui è vivo e lo resterà, voi invece siete tutti già morti. Dick sapeva anche questo.