“Scrivere… perché è l’ultima possibilità”: Sergio Quinzio, un salutare K.O.
Politica culturale
Di “Paolo Bettiolo” ho iniziato a sentir parlare non appena ho messo piede dentro l’università di Padova, e ho indirizzato i miei studi nell’ambito delle scienze religiose. Coloro che mi hanno parlato di questa persona hanno creato, nel mio immaginario, una figura ammantata di una nobile e fascinosa distanza; e nel segreto ho iniziato a nutrire nei suoi confronti lo stesso rispetto che hanno per lui coloro che me ne hanno parlato. Per queste ragioni sono stata colta da una certa emozione quando mi sono presentata a casa sua, a Venezia, con l’idea di avere un confronto e realizzare un’intervista.
Non appena ho varcato la soglia della porta quel nome in cui più volte mi ero imbattuta durante i miei studi ha assunto un volto e una voce. Seduta sulla poltrona del suo salotto lo osservavo, cercavo di cogliere in lui i tratti di quella gentilezza ed eleganza dell’anima di cui tanto mi avevano parlato. Tratti che sono forse rari a trovarsi in persone di così alto spessore accademico. Per tutto il tempo ho infatti avuto la sensazione di trovarmi di fronte ad un uomo, in tutta la semplicità del suo essere. Sono stata contenta quando, alle mie domande, ha deciso di non rispondere con astratti sistemi teologici, bensì parlandomi della sua vita. Assieme a questo racconto personale però è emersa anche la solida conoscenza che quest’uomo si è formato negli anni, che sembra quasi avergli permesso di dare un nome a sentimenti che lo hanno abitato fin dall’infanzia.
Gli anni di formazione lo hanno portato dal dottorato a Lovanio in Filologia dell’Oriente Cristiano all’Istituto di scienze religiose di Bologna, dove ha studiato a fianco di Giuseppe Dossetti. È diventato poi professore ordinario di Storia del cristianesimo e delle chiese presso l’Ateneo padovano, presso il quale è ora Professore emerito. Durante questi studi ha condotto ricerche sulla chiesa siro-orientale e in particolare sulle sue scuole e il suo monachesimo, studiandone anche le connessioni con alcuni dei maggiori autori del mondo cristiano greco del IV-V secolo. Un’attenzione costante ha dedicato pure ad alcune figure della teologia e spiritualità cristiane tra Ottocento e Novecento (E. Troeltsch, A. von Harnack, H. de Lubac, G. Dossetti, M. de Certeau). (Bianca Cesari)
Come definirebbe la fede?
A dire il vero, non ho mai pensato a una sua definizione. Ne conosco alcune che potrei riproporle, però, forse, più che prendere in prestito parole altrui, potrei dirle che cosa nella mia vita mi è capitato di chiamare istintivamente fede. Sono nato nel ’47, il che significa che da piccolo ho condiviso quei percorsi che al tempo erano più o meno comuni a molti, se non altro in certi ambienti della borghesia cattolica. Sono andato all’asilo presso le suore, a Venezia, in Campo della Guerra; poi, negli anni delle elementari, sono stato a catechismo per prepararmi alla prima comunione nella parrocchia in cui vivevamo e sono poi passato a essere “aspirante”, come si diceva, nell’Azione Cattolica per i più giovani. Sono diventato chierichetto, imparando a rispondere alla messa in latino, come allora ancora si usava, in timore e tremore, perché erano formule apprese a memoria che poco capivo.
Questi sono stati gli anni della mia prima formazione cristiana, a tratti turbati da un temperamento permaloso e ostinato che qualche volta mi indusse a rifiutare l’assoluzione al confessionale pur di non ammettere qualche peccato. La prima salutare crisi è sopraggiunta comunque più tardi, con l’adolescenza. Intorno ai tredici anni infatti ho conosciuto quello spaesamento che, credo, sia comune a molti: una tristezza che pure procurava una strana dolcezza, nella sensazione di non essere compreso e caro ad alcuno, né ai genitori né ad altri. Mentre ero in quarta ginnasio avvenne però un cambiamento. Era il ’61 e per il centenario dell’unità d’Italia era stata organizzata una grande esposizione a Torino. I ragazzi della prima liceo avevano chiesto a quello che nei due anni precedenti era stato il loro professore delle materie umanistiche di accompagnarli in visita alla mostra. Questo professore insegnava allora nella mia classe e ci chiese se qualcuno di noi volesse aggiungersi al gruppo. Io non so per quale motivo chiesi di andare. Fu in quell’occasione che conobbi alcuni ragazzi di quella prima liceo e che, ascoltando le loro vivacissime conversazioni, venni a conoscenza dell’esistenza dei gruppi studenteschi cattolici di cui facevano parte. Erano gruppi di liceali cui avevano dato vita gli assistenti della Federazione universitaria cattolica italiana (F.U.C.I.) veneziana. Si incontravano ogni settimana per discutere quei temi e leggere quei testi che allora circolavano negli ambienti fucini: in quinta ginnasio, ad esempio, il mio gruppo fu impegnato nello studio di alcune opere sul federalismo di un gesuita dell’Ottocento, padre Luigi Tapparelli D’Azeglio. Ma poi vennero Maritain, con Umanesimo interale, Gilson, con La filosofia medievale, e poi ancora i teologi del Concilio, che si tenne negli anni dei miei studi liceali: Congar, Chenu, Schillebeeckx … In quinta ginnasio sentii Karl Rahner tenere al seminario, in una grande sala gremita (era una stagione di effervescenza), una lunga lezione in latino sul concilio.
Ad ogni modo quei ragazzi mi invitarono nei mesi seguenti a far parte dei loro gruppi. Esitavo, ma nel settembre che precedeva l’inizio della quinta ginnasio li seguii per tre giorni di esercizi spirituali a Possagno. Allo studio, infatti, si accompagnavano momenti di preghiera, di ritiro e di “opere di carità” (visite ai malati negli ospedali, ripetizione a studenti in difficoltà …). Per arrivare alla fede, lì accadde quello che a me pare essere stato il primo episodio della mia conversione, sullo sfondo di quella confusione e inquietudine che allora mi caratterizzavano. Una sera, mentre stavo seduto sulla panchina di una terrazza che si affacciava sulla piana sottostante, venne a sedersi accanto a me uno dei padri che ci ospitavano. A un certo punto, rompendo il silenzio, mi chiese quale ritenessi che fosse la frase più importante del “Padre nostro”. Confesso che non seppi rispondere, e allora quel padre mi disse che la frase più importante del “Padre nostro” era “sia fatta la tua volontà”. Fu nell’ascoltare queste parole che ebbi per la prima volta la percezione dell’uscita salutare da un io che mi soffocava. Da lì in poi iniziai ad avere l’esperienza di una libertà che prima non avevo mai provato: una libertà da sé, dalle attese degli altri, da quelle del mondo. Una libertà divina, incomprensibilmente connessa alla croce. Per questo in quegli anni mi appassionai fortissimamente alla vita di quei gruppi, al punto che mia madre era molto scontenta, perché riteneva che trascurassi completamente la scuola – e aveva ragione.
Questo nocciolo di conversione che si schiude quel giorno sul terrazzo la porta quindi a definire la fede come un affidarsi? Ma come un rimettere il proprio bene nelle mani di un altro?
Sì. Ha ragione: è un affidarsi. Se mi permette, per ricordare un versetto che amo, è una synkatabasis, uno scendere nella fossa insieme. In Daniele 3 l’angelo di rugiada scende nella fossa con i tre giovanetti, e loro scendono con lui, in reciproca fiducia. E questo, quando accade, vuol dire spogliazione di tutto e caritas. Tuttavia, non è cosa facile da mantenere, forse impossibile, almeno così è stato per me. Questo primo fervore di fede, infatti, col tempo si è affievolì. Gli anni del dopo concilio sono stati difficili e complicati. Le speranze di riforma della chiesa, la felicità delle nuove letture (l’esegesi storico-critica che conferiva ai testi biblici complessità e vita) sono andate in crisi per molti motivi, e come altri alla fine anch’io non ho retto. Dopo gli anni dell’Università ero entrato a far parte dell’Istituto di Scienze Religiose a Bologna, che mi era sembrato il luogo perfetto per coltivare una vita che combinasse studio e preghiera. Tuttavia, quando fui mandato all’Università Cattolica di Lovanio per perfezionare i miei studi relativi all’oriente cristiano, vi arrivai del tutto disilluso.
Per alcuni anni mi distaccai allora da qualsiasi pratica e pensiero di vita cristiana, tanto che la prima volta che mi sposai, nel ’77, lo feci civilmente. La mia fede a quel punto era nulla ed era prevalsa su di essa un’astratta passione politica, intesa come affermazione della giustizia nei rapporti sociali. Tuttavia, rimanevo nell’ambito degli studi di storia del cristianesimo, perché mi sentivo una persona con ambizioni intellettuali senz’arte né parte e vedevo nella disciplina che mi si chiedeva di acquisire un modo per poter dimostrare a me stesso e agli altri che qualcosa sapevo fare. La dimensione di fede non c’era, c’era solo questo: il bisogno di saper fare qualcosa. La mia rinnovata conversione però avvenne come effetto collaterale degli studi a Lovanio. Il mio professore di armeno, un padre benedettino, stava curando la traduzione latina della collezione armena degli apoftegmi. Gli apoftegmi sono i detti dei padri del deserto, ossia delle raccolte che nella loro prima strutturazione sono state composte nel tardo IV-V secolo e sono passate poi di mano in mano e di lingua in lingua modificandosi e accrescendosi continuamente. Il padre Leloir ci propose a lezione la lettura e traduzione di parti della collezione armena. Fu allora che entrai in contatto con la lettura degli apoftegmi, e questo fu un altro momento di decisivo “ri-orientamento”. In quei libri infatti ho di nuovo respirato quell’aria che avevo dimenticato, “l’aria della libertà”: un’espressione dei padri, e probabilmente anche del Nuovo Testamento, che fa riferimento a una libertà frutto della fede di cui quegli anziani monaci davano sorprendente, folle quanto evidente testimonianza.
È una libertà da sé e dai propri progetti?
È la percezione che vivere in Cristo ti dà una pienezza e una dolcezza che altrimenti non si troverebbe. È la stessa percezione banale che ha Simon Pietro quando dice a Gesù: “Signore dove andremo? Tu solo hai parole di vita eterna” (Gv 6,68). Poi, questa libertà è una dimensione strettamente congiunta alla carità. Una delle cose che mi tribolavano nelle mie prime esperienze di vita di fede era proprio il fatto che, nei gruppi di cui facevo parte, come ricordavo, c’era sempre il momento della “carità”, della cura dell’altro. Anche se sapevo che era un tratto essenziale del vivere cristiano, lo trascuravo, appena potevo, innamorato com’ero degli studi e dell’orazione privata – incantato da un’ebbrezza fallace. Ora invece comprendevo che ci si doveva forzare a esso, anche quando il cuore non vuole (Gesù lo presenta come un comandamento!), anche a costo di rinunciare al resto. Come rispondeva un solitario a chi gli chiedeva perché, mentre Gesù aveva detto che era la carità il sigillo dei suoi discepoli, i monaci privilegiassero la quiete: “Se nella quiete qualcuno ti visita e ne sei seccato, sappi che la tua quiete non è cristiana”. Ciascuno di noi ha una propria chiamata, una propria “professione”, alla quale deve mantenersi fedele, ma nell’ora della prova solo la carità conta – la synkatabasis, dicevo. Dio è sceso con noi nella fossa e solo lì ha compiutamente manifestato sé stesso: in fide, nella fede, ci consegniamo a quel Padre che ci ha preceduto, credendo in noi. Solo in questa rinuncia, che in minimi gesti, in singoli momenti si ripete ogni giorno (ricorda la vecchia pratica dell’esame di coscienza?), si ha un acquisto in ogni umano agire, anche in quello dell’intelligenza.
Che cosa le fa dire che la carità e la libertà sono due dimensioni indissolubili?
Mi attengo alla testimonianza del Cristo: qual è il luogo della massima rivelazione di Dio se non la sua nascita nella carne, nella carne mortale? Non si può prescindere dal rapporto con la carne, ed è questo quello che ho trovato di singolare e prezioso nell’esperienza cristiana. La libertà non è altro che un frutto di questa attenzione alla carne, all’altro nella sua carne. Ognuno la sostiene come può e gli è dato di fare: a parte rari e per lo più fallaci momenti di esultanza e certezza ci sono quasi ininterrotti momenti di silenzio e fatica. Però credo che, per quanto faticoso e fastidioso possa essere, mantenere quest’attenzione all’altro nella sua fragilità (bisogni elementari legati al vedere, udire, odorare, gustare, toccare) rimanga l’unica cosa necessaria, possibile solo grazie alla pratica quotidiana, umile, costante, del silenzio e della preghiera. È evidente che non è facile, e questo ci porta a un altro punto che è per me di estrema importanza. Mi chiedo spesso: qual è il contesto entro il quale un cristiano può maturare oggi? Io sono cresciuto in una famiglia cattolica, nell’ambito di una città altrettanto, almeno apparentemente, cattolica e ho trovato, pur in una chiesa ancora controriformistica e antimodernista, degli ambienti cattolici che mi hanno permesso di incontrare la testimonianza di questa carità, di conoscerla e praticarla a mia volta. Ma adesso cosa rimane di quel mondo? Quali sono i contesti in cui far crescere in ecclesia questa carità, questa fede e l’intelligenza che ne deriva? Che ne è della chiesa oggi, compromessa da scandali, confusa e infragilita in una società secolarizzata? Questo è un problema.
Vedere che questi gruppi scompaiono, e che la chiesa non è in grado di essere essa stessa questo gruppo, non rischia di minare in qualche modo la fede dei pochi rimasti? Penso al discorso che fa Giancarlo Gaeta ne “Il tempo della fine”.
Quel che vedo è che c’è una dimensione sacramentale irrinunciabile, perché è Dio che salva e, se sono cristiano, salva facendosi carne. Il sacramento eucaristico dice solo questo: che non sei tu che salvi, ma Dio. Tuttavia, allargando un pochino lo sguardo, una delle cose che mi procurano disagio, ad esempio in certi canoni della messa, per non dire in tante omelie, è la sensazione di trovarsi all’interno di un piccolo gregge, nel senso meschino dell’espressione: angusto, chiuso in sé stesso. Invece la chiesa è per l’annuncio universale di salvezza e il disegno di Dio va ben oltre la chiesa: che ne è delle stelle? Degli spazi infiniti? Delle pietre ed erbe e animali? Delle generazioni passate e di quelle future, di quanti vivono i nostri stessi giorni, che nulla sanno di questo messaggio? Gabriel Bunge, un eremita, una volta mi confidò che ogni volta che celebrava l’eucarestia gli venivano in mente “tutti i cinesi”. E io penso: sì tutti i cinesi, ma anche tutte le persone che incontro per strada. La maggior parte di loro non ha la minima idea del Vangelo e nemmeno avvertono la curiosità di conoscerlo. Che dire? Che sono vane, revocando la loro creaturalità? Che Dio non ne ha cura? Ma ha cura del giglio del campo, dell’uccello del cielo, di ogni nostro capello … Che fare allora? Almeno custodire nel cuore l’incomprensibile, come Giacobbe fece con le parole di Giuseppe e Maria con quelle di Gesù – e tutto e tutti accogliere, fidenti …
Per il resto, Deus providebit, “il Signore provvederà”. Lo dice Abramo quando, mentre sta salendo sul monte, il figlio Isacco nota che non hanno portato l’agnello da sacrificare. Cerco di avere la stessa fede. Se dovessi pensare che provvedo io, o il papa o la chiesa, non saprei proprio che dire. Penso però a Michel de Certeau e al perché parli di “fabula mistica”: quella favola è un dire, ma è il dire di Dio, non il nostro. Noi non siamo che istanti, come quegli angeli che si accendono, risplendono e subito si consumano – istanti che poi Dio ricomporrà, se gli piace e come gli piace. Devo pensare e dire che l’immaginazione di Dio va oltre alla chiesa, alla comunità monastica o al centro di documentazione con gli studiosi che leggono, si confrontano, si dividono e si riconciliano – ai luoghi della mia vita. Credo ci sia di più, molto di più – da attendere in fide, appunto.
*L’intervista è a cura di Bianca Cesari
*In copertina: un disegno del Guercino