
Lo splendido radicalismo di Simone Weil, “l’unico grande spirito del nostro tempo”
Filosofia
Alessio Magaddino
A un certo punto, fissò verso il vuoto, oltre gli ancoraggi delle nubi balenottere. Sarà stato autunno, garrivano gli alberi. Le foglie, in abbandono, ovunque, come uccelletti. Facciamo un deserto, mi disse. Costruiamo un eremo – sbricioliamoci, insomma. Proprio così. Brina di briciole sulla bocca del Padre. Eravamo al Monte Senario, nel luogo dove nasce la vicenda, straordinaria, dei Servi di Maria, l’ordine a cui apparteneva l’amatissimo padre David Maria Turoldo.
All’epoca – sarà stato il 2011 – padre Antonio Maria Lazzarin – che si faceva chiamare fratel – aveva all’incirca ottant’anni. Non ho mai conosciuto uomo tanto innamorato di Cristo – così spregiudicatamente innamorato. Cristo lo esaltava – non era un esaltato, era un uomo libero.
Era eccitato – letteralmente – dal deperimento – spirituale prima che fisico, fisiologico – del suo ordine; lo galvanizzava la lenta agonia della Chiesa cattolica: si sentiva come i cristiani dei primi tempi, in lotta, in perpetua corsa. Le gambe, gonfie, gli dolevano – aveva la smagliante levità di un passerotto. A guardarlo – basso, tozzo, rude – pareva una specie di Yoda, quello di Star Wars; sapeva essere duro, durissimo. Non sopportava che parlassero di “crisi delle conversioni”, di “Chiese vuote”: e allora?, sfidava gli astanti, è un segno! Ripartiamo da questa miracolosa povertà, da questo provvidenziale niente. Adorava le esistenze minime, che non sono miniate nelle cronache, che non fanno rumore, protese ad annientarsi – dunque: a essere – in Cristo. Mi invitava a “condividere la vita dei senza nome”, così aveva scritto; “il po’ di tempo che ancora mi resta da vivere, vorrei fosse come di uno che posa i suoi passi sulle acque per non lasciare orma”, così aveva scritto.
Padre Antonio non ha pubblicato libri, non veniva invitato ai convegni a spiegare la Bibbia, non aveva esegetico carisma, non era un retore. È stato il più potente maestro spirituale che abbia mai conosciuto. Nato in Veneto, da famiglia numerosa e poverissima, conosceva l’eremitaggio e la vita nei boschi – gli pareva salutare l’insussistenza, l’abbandono nell’orda del Padre. Un giorno, dopo un “capitolo” – una riunione di frati – tenutosi a Pesaro, a cui ero stato invitato a partecipare, in cui mi ero molto arrabbiato, mi disse, sorridendo, sembravi un leone. Lui era per sempre giovane, un bambino.
Non credo sia un caso che il funerale di Padre Antonio – il mio caro Padre Antonio – sia stato celebrato nello stesso giorno in cui è morto mio padre. Non è un caso che il nostro legame si sia saldato attorno alla morte del mio caro, micidiale, indimenticato Simone Cattaneo. Per due anni sono stato preside del Liceo “San Pellegrino”, all’epoca a Misano Adriatico, piccolo borgo marino che fiancheggia Riccione, all’epoca sotto tutela dei Servi di Maria. Il giorno inaugurale dell’anno scolastico, il mio primo giorno da preside, ero a Saronno, presso la tomba di Simone. Padre Antonio, che pregava con la gagliardia dei fringuelli e della tigre, pronunciò un salmo per Simone – mi disse, recisamente, non avessi conosciuto Cristo, mi sarei ucciso pure io.
Mi fece dono di due libri: Detti e fatti dei Padri del deserto nell’edizione Rusconi, introdotta da Cristina Campo, e il tomo che raccoglie le opere di Charles de Foucauld. Nel 2012 gli chiedi di introdurre un mio libro, Escoriazione, stampato a Cesena dalle edizioni de Il Vicolo, ormai irreperibile. “L’amico Davide mi ha tolto il sonno di una intera notte con questa richiesta”. Accettò. Gli piaceva che fossi, come disse, a precipizio, perché il cristianesimo, diceva, è sempre in caduta libera, nasce dalla crisi, nasce quando non c’è più nulla – sradica e abbevera. In quella introduzione, quell’uomo minuto e immedicabile, indocile e mai immalinconito dai mali del mondo, che amava la solitudine e i suoi mostri, il mai mettersi in mostra, le furibonde oscurità, si fa un autoritratto:
“Sono frate Antonio, uomo sgravato da certe preoccupazioni mondane, affezionato a tradizioni perdute, per me ha ancora valore il per sempre.
L’insegnamento raccolto dalla coltivazione di un piccolo orto, delizioso perditempo delle ore di ozio, è questo: farsi servo significa mettersi a disposizione di chi ti vuole mangiare per capire che non v’è migliore amico di colui che ti chiede la vita.
Non sarà grandezza da scoprire, quella di chi, guidato da intenso istinto di vivere e di amare, decide di spogliarsi della vita, per donarla? Non posso giudicare nessuno: è mio dovere rispettare il mistero di ogni fratello e la silenziosa intesa con colui che volere o no è il fine di ogni onesta ricerca. Forse il nostro destino non potrebbe coincidere con la morte nel giorno stesso in cui abbiamo una creatura?”
Negli anni, ho trasfigurato e contorto padre Antonio in alcuni libri – per me è il primate, esatta figura dell’uomo di Dio, dell’uomo integralmente votato a Cristo. Ho avuto il privilegio di essergli amico. “I nemici e i semplici sono i nostri migliori maestri”, scrive, concludendo quella introduzione. Una verità che reca magnifiche fioriture – che è difficilissima.
Per ragioni che è bene tacere, ora, ci separarono. La mia – è certo, come sempre – fu vanità, incostanza, bulimia dell’io, conversione al perverso, perché non ammetterlo. Dopo due anni, mollai il liceo – lui, mio solo sodale, fu invitato (diciamo così) a lasciare la comunità di Misano. Già. Ci separarono. Insieme, abbiamo redatto un ‘progetto educativo’ (chiamiamolo così), Nel nome di Maria: educare è la sfida di una madre bambina che si fondava sulle Costituzioni dei Servi di Maria, su Varlam Šalamov, su Dostoevskij, Rimbaud e Joseph Conrad – ancora oggi, nonostante i suoi esiti (pressoché nulli) ne vado fiero. Ma la mia è la fierezza dei pazzi.
Padre Antonio fu destinato a Budrio. Gli feci visita, qualche volta. Lo sguardo sempre trasognato e sagace. Parlavamo, ormai, al passato – capivo che aveva altri compiti, altri agnellini da accudire. Abbiamo mangiato spesso insieme: il gusto delle cose – un cibo semplice, un volto, un’ombra – lo stupiva. Gli errori lo portavano a errabondi sorrisi – sapeva le mie cadute, mai me ne disse. Eravamo, insieme, un frugale scandalo. Pregava usando il salterio di padre Turoldo; una volta disse messa cantando i miei salmi – mi sentii inerme, rabbrividito, colpevole.
Poi lo spostarono a Reggio Emilia – non ci vedemmo più. Gli chiedevo, ogni tanto, di inviarmi le sue omelie: sono bellissime. Spero che i suoi fratelli le raccolgano perché sono la testimonianza di una spiritualità possente, inaudita. In calce a questo articolo, ne pubblico un paio, rinvenute nelle mail, insieme ad alcuni passi da un’intervista che gli feci, all’epoca, su “La Voce di Romagna”, un quotidiano che non esiste più; ogni settimana, su un foglio, scrivevo a padre Antonio una domanda, che lui trascriveva, soppesava, faceva sua. (Questi documenti desunti dalla sparizione, già oblio, rasentano il segno).
Sapeva che scegliere Dio per la vita è confinarsi in uno sconfinato dolore, nella spudoratezza dei traditori; in una fede che trae nutrimento dalla crisi e dal dubbio. Traboccava di gioia, tuttavia, e le sue mani danzavano come fiori. Non poteva, questo crocefisso dalla verità, celare i suoi turbamenti. Così mi scrive il 12 luglio del 2015: “Una sofferenza accompagna i miei lunghi quotidiani silenzi: non riesco a toccare il cuore e la vita dei miei tre fratelli. Li amo, li rifiuto, li disprezzo, sono la mia esasperazione. Sento infrangersi la superba volontà di dominio. Forse perché sono ad immagine di Dio che proprio nel momento di averli essi sfuggono? Caro Davide è passato molto tempo senza più parlarci, ma io non ti ho dimenticato un giorno”.
Mi conficcavano nella commozione le sue parole – era bello sapere che qualcuno poteva volermi bene. (Il bene, dico, non l’amore, con il suo portato di estasi e di amarezza, non l’amicizia).
Al 12 marzo 2016 risale l’ultima mail che ho ritrovato. “Carissimo Davide, amico mai dimenticato, come mi piacerebbe poter fare una conversazione, di quelle nostre, antiche, libere. Non sono un uomo colto, sono un ignorante come un somaro, ma sono anche assetato, arso di cose sublimi, spirituali, alte. Di esse qui c’è tanta povertà anche di desiderio. Non ti nascondo che sono un po’ triste”.
Non allentai la sua tristezza, il suo ricordo lenì la mia. Al Senario, quando mi chiese di fare un deserto, rifiutai, come ovvio, accampando palafitte di parole, scuse, responsabilità. Non sapevo fare deserto di me stesso, figuriamoci il resto.
Padre Antonio amava le sfide, voleva provare i legami fino all’ultimo nodo, finché non si slegano in fonte – e ne puoi bere, a piene mani, grato che la cosa che ti dà la vita, che brulica sulle tue labbra, infine, sparisce.
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Da una intervista a “La Voce di Romagna”
Che valore ha il dolore?
Non ho la vocazione del maestro, mi sento per natura discepolo e tale desidero rimanere in vita e, se possibile anche dopo. Maestro vero e quasi unico è il dolore, in esso siamo stati generati e salvati; siamo diventati figli dell’uomo e della luce, figli per amore. Il dolore sta alle radici della vita, senza il dolore l’uomo non nasce, non cresce, non può affondare nella conoscenza. Il dolore fisico, sempre simbolo di una ferita spirituale, conseguente a privazione o dono di affetto, è visione deteriorata dell’originale bellezza, perciò motivo di adirata reazione da parte del Creatore, al vedere sciupato il suo capolavoro. Il dolore denuda la naturale povertà umana, ma anche irrompe l’energia che vince ogni timore ed orgoglio per gridare il bisogno di aiuto e reclamare umana solidarietà (se vi è qualcosa di innaturale nell’uomo è l’egoismo, puro prodotto della corruzione). Io credo che il dolore sia la via privilegiata che abbassa chi lo patisce fino a raggiungere la profondità di Dio.
Perché l’uomo non riesce a sottrarsi dalla museruola del male?
Il male che in linguaggio religioso si chiama peccato o ingiustizia, è prova che libertà esiste. L’uomo biblico che porta il nome di Adam (terra rossa) è l’uomo riportato all’inizio del mondo e del tempo, l’uomo di sempre, fotografato come creatura destinata a farsi nella libertà. Consapevole di questa dote, ne avverte il fascino e la enorme potenzialità, ma giovane, inesperto e trasgressivo, travolto dal sogno di onnipotenza, finisce, caricatura del suo vero destino, per diventare prepotente con i deboli, ossequioso con i forti, inventore di morte per i fratelli. Perché sia avvenuto così nessuno potrà mai saperlo con certezza; i cristiani forse direbbero perché ne venisse un bene maggiore e l’uomo fosse sorpreso da quella novità assoluta che si chiama “divina gratuità” o misericordia, figlie dell’amore. La storia, che non è, come si dice, maestra di vita, ci racconta il percorso umano guidato dai cosiddetti “forti” o “potenti della terra”, che hanno fondato la loro gloria sull’inganno, prodotto distruzione (si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, direbbe san Paolo), come percorso invidiabilmente riuscito e appetibile. La esaltazione del vincitore sul vinto ha l’effetto di creare opinione, cultura, si ripete nel tempo e finisce per essere accolta come patrimonio da tramandare. Così il male, venduto per il bene si fa trappola e museruola, dal cui laccio è arduo districarsi.
Disorientato dalle proprie domande, un uomo pur sentendo l’esigenza di un profondo cambiamento nella propria esistenza, raramente decide di affondare nelle grandi questioni spirituali. Dove trovare il coraggio per lanciarsi, quale appiglio utile, frase, verso, incontro?
Quando una domanda importante incalza e inquieta, contemporaneamente occhi e orecchi si aprono alla ricerca della risposta. Occasioni, eventi, parole o incontri ricorrenti forse mai notati, diventano rivelativi, come una improvvisa e inaspettata visione, da cui una energia misteriosa muove a laborioso cambiamento. Credo che una vita possa, senza via di ritorno, essere conquistata e affondare in valori alti e spirituali solo dopo una personale e significativa esperienza conseguente a un incontro, a una parola, a un evento, che diventano un interrogativo sul senso del vivere. La vita facilitata, non addestrata alla fatica può costituire un grave impedimento al cambiamento, operazione che costa, e richiede il coraggio di andare verso l’ignoto e insieme l’umiltà di chiedere e accettare di essere aiutato. Il cambiamento è un avventurarsi nella novità e nell’incerto, ed è accompagnato dalla necessità di dover sacrificare passioni e beni da cui siamo tenuti in schiavitù. Il passato è necessario che muoia; Paolo lo annuncia con queste parole: «non sono arrivato alla perfezione, ma mi sforzo di conquistarla… Io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle, e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta» (Fil 3,12-14).
Spiegaci: perché la povertà è un valore?
L’uomo viene dal nulla, si può essere all’origine più poveri di così? Chiunque lo desideri o lo pensi, non può pensarlo e desiderarlo per averne un vantaggio; anzi non può essere altro che un signore magnanimo che, mosso da amore ha intenzione di renderlo partecipe di quanto di meglio possiede: il Creatore gli ha dato la sua divinità e il dominio del mondo; i genitori la vita, gli amici l’amore. In questa sua verità si nasconde e si rivela anche l’aspetto regale della povertà. Finché di questa sublime gratuità l’uomo fa memoria, egli vive in benedizione. Quando se ne scorda egli è trascinato nel regno della menzogna: scambia l’arroganza con la potenza; il dominio iniquo con l’ascesa a dignità; il possesso di cose misere come ricchezza e ritiene frutto del suo genio ciò di cui con mano ladresca si è appropriato. Tanto è sublime l’uomo umile, quanto ridicolo il superbo! Ezechiele, antico profeta, ci racconta il valore regale della povertà con queste parole: «Alla tua nascita, quando fosti partorita, non ti fu tagliato il cordone ombelicale e non fosti lavata con acqua per purificarti: non ti fecero le frizioni di sale né fosti avvolta in fasce. Occhio pietoso non si volse verso di te per farti una sola di queste cose e non ebbe compassione nei tuoi confronti, ma come oggetto ripugnate, il giorno della tua nascita fosti gettata via in piena campagna. Passai vicino a te e ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue e ti dissi: vivi nel tuo sangue e cresci come l’erba del campo. Crescesti e ti facesti grande e giungesti al fiore della tua giovinezza. Il tuo petto divenne fiorente e giunta ormai alla pubertà, ma eri nuda e scoperta. Passai vicino a te e ti vidi. Ecco: la tua età era l’età dell’amore. Io stesi il lembo del mio mantello su di te, coprii la tua nudità. Ti feci un giuramento e strinsi alleanza con te e divenisti mia» (Ez 16,2-14).
Che volto ha Dio?
Amico mio non lo so! Eppure è una domanda che non si può non porre a se stessi e cercare dagli uomini. Se si potesse in uno sguardo comprendere, inquadrare l’universo vasto e armonioso quanto misterioso e bello, pieno di segreti; l’affascinante orrido, il geniale disordine e la dolcezza dei colori e della luce, si avrebbe, forse qualche suo lineamento. Somigliante deve essere stato il volto di Gesù, dei profeti, dell’uomo vero. Benedizione, misericordia, dono di vita: la sua emanazione. Nei salmi si invoca: «Mostraci il tuo volto e saremo salvi»; oppure: «Distogli il tuo sguardo dai miei peccati». Volto che fa vivere e fa morire, che esalta ed abbassa. Lo penso e sogno come il volto amato del padre che gli uomini vorrebbero avere. Una parola vicina credo sia in grado di dirla chi non avendo conosciuto il padre se lo crea e ricrea in continuità come il più significativo e bello che mai sia stato. Forse uomini come Agostino, Francesco, Charles de Foucauld hanno contemplato e adorato dentro di sé e in quello dei più umili della terra. Per questo è da credere che pochi giungano a vedere il suo volto
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Dom. XV p. a B
Mc. 6,7-13
Riuniti nel nome della santa Trinità: Padre, Figlio e Spirito, divina famiglia, e modello del nostro vivere, celebriamo l’eucaristia, sacramento della comunione fraterna. In essa Gesù ci incontra, si ferma tra noi, e, guardati da occhi pieni di amore, sentiamo dirci la parola che cambia la vita: “Seguimi”. Meraviglioso invito a passare oltre il tempo dominato dagli spiriti immondi, e posare il piede sulla via che porta alla terra della libertà e della grazia. Oggi, coloro che accolgono l’invito, entrano nel nuovo popolo della alleanza, nella famiglia dei figli di Dio, al seguito dell’unico Maestro Gesù, il missionario per natura e per vocazione.
La esistenza di Gesù è stata un venire incontro all’uomo, dargli il suo insegnamento, condividere e trasmettergli la sua passione per il Regno; un mostrare il volto di un Padre misericordioso.
Compì gesti di bontà, di perdono, e di fraternità; reintegrò nella comunità chi era marginalizzato ed escluso. Amò i semplici, gli ultimi, e i malati.”
Gesù, condivide la sua missione con quelli che lo hanno accompagnato da vicino: chiama i dodici e li invia “davanti a sé, per preparargli la strada”. Dunque non per sostituirlo, ma perché testimoniassero la sua presenza nel proprio vissuto. Mistero di un Dio che ha bisogno dell’uomo per parlare agli uomini, necessità che lascia intatto il rischio che qualcuno si impadronisca della immagine, della parola, e del potere di Cristo per affermare se stesso e creare il proprio impero sulle coscienze dei deboli e dei semplici; mentre al discepolo fedele spetta di comprendere e di accettare il proprio annientamento perché si manifesti la forza del Signore.
I discepoli sono mandati “a due a due”, come a dire che la credibilità dell’annuncio si gioca nella sincera tensione a vivere in autentica comunione fraterna.
Gesù ritiene essenziale la convivenza, che, se fatta per amore del vangelo, si pone al di sopra delle simpatie e dei caratteri, in una Chiesa non scelta da noi, dove la testimonianza dell’affetto scambievole può davvero aprire i cuori alla fede.
Ai discepoli è richiesto di “andare senza riserve di alimenti, senza soldi e senza vestiario. È un appello alla semplicità, alla libertà interiore ed esteriore. Non è bene portare con sé umane sicurezze ed economiche: scorte invece raccomandate sono la fede, l’amore, il coraggio, la gioia.
Il missionario vive di Provvidenza; la sua vita di pellegrino, “dipendente dalla ospitalità della gente, è come un seme che ha bisogno per crescere di un terreno che lo accolga”, è, come quella degli uccelli del cielo e dei gigli di campo affidata all’altrui sensibilità, in modo da fare risplendere il vangelo dell’amore semplice e gratuito e non lo splendore dei mezzi.
Gli apostoli vanno con un pugno di parole stretto nel cuore, da far uscire al momento opportuno. La loro identità è di essere messaggeri di Cristo e solo come tali vanno accolti o rifiutati, onorati o odiati, non per la loro vita passata onesta o sbagliata che sia stata.
Se cacciati, derisi ed offesi, la loro risposta la daranno con la predica più bella: il silenzio mite , intelligente, mai arrogante.
Con il vestito del pellegrino, esponendosi all’avventura di liberare il mondo dalla disperazione, il discepolo va , per incontrare, liberare da tutte le forme di schiavitù e convertire persone, dalle quali può ricevere accoglienza o rifiuto; ma il rifiuto non rimarrà incollato ai suoi piedi, né turberà il suo cuore; perché egli vive in pace, offre la pace, e, se qualcuno lo rifiuta, prosegue in pace; consapevole che il successo che lo aspetta viene sempre dopo il fallimento, anzi nello stesso fallimento.
Da parte sua testimonia che la vita è entrata nel mondo per pura grazia, in virtù esclusivamente della morte del Figlio di Dio.
L’inviato del Signore, a cui è consigliata la prudenza del serpente e la semplicità della colomba, è, come agnello tra i lupi, ogni giorno messo a morte perché la vita abiti abbondantemente la terra.
I consigli di Gesù ai missionari riguardano anzitutto la povertà e la rinuncia: privi di ogni umano sostegno i discepoli hanno come appoggio solo la fede in colui che li manda, ad essi è concesso di portare con sé in quanto pellegrini solo bastone e sandali.
Anche la Parola non deve essere la loro. La povertà loro richiesta è come una divina necessità di morire per poter toccare la Vita; la Bibbia più volte ripete che non si può vedere Dio e rimanere in questa vita.
La vita povera dell’apostolo è la via maestra che Dio ci fa percorre per arrivare al cuore dell’uomo.
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Dom. quinta di Quaresima
Gv 8,1-11
Il brano appena letto appartiene al Vangelo di Luca. Inizia così: “durante il giorno Gesù insegnava nel Tempio e poi la notte usciva e pernottava all’aperto sul monte degli Ulivi. Tutto il popolo di buon mattino andava nel Tempio per ascoltarlo”. L’espressione “Di buon mattino” è una indicazione importante di tempo. Mattino, all’alba, al sorgere di un nuovo giorno. Immaginiamo il sole che sorge sul monte degli Ulivi e illumina la spianata del Tempio dove Dio, nella persona di Gesù pronunzia la sua giustizia; non la nostra giustizia, qui rappresentata dal gruppo dei farisei e degli scribi, i giusti che hanno preso la donna e portata davanti a Gesù.
Nella spianata del Tempio, in faccia a un preciso peccato, vengono a confronto le due giustizie: quella dei farisei e quella di Dio. Gli scribi e i farisei, portano a Gesù una donna sorpresa in adulterio: la pongono nel mezzo e dicono: “Maestro questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio.” Non vi è dubbio, questa donna, secondo la legge deve essere uccisa.
Dicono: “La legge di Mosè comanda di lapidare donne come questa”. La lapidazione è una specie di assassinio collettivo, del quale poi nessuno si sente responsabile. È il modo con cui gli uomini praticano la giustizia. Tentano di eliminare il male sopprimendo chi lo commette.
Ma questa non è la soluzione, perché il male è dentro ogni uomo; se volessimo eliminare il male con questo metodo, dovremmo eliminare tutte le persone. Allora come si fa per eliminare il male? E gli chiedono: “tu che ne dici?” Qual è la tua giustizia! Ci domandiamo: “Dio può essere giudice giusto, e insieme misericordioso?”. Non andiamo a cercare risposte con i nostri ragionamenti, Dio è venuto e parla direttamente in Gesù di Nazareth, il quale davanti a un fatto concreto pronunzia una sentenza, da cui traspare in modo nitido quale sia la giustizia di Dio
La nostra giustizia è quella della bilancia: “a ciascuno il suo; se merita un premio, glielo si dà; se merita un castigo glielo si fa. Questa è la giustizia, che gli uomini prospettano per risolvere il problema del male.
E rivolendosi a Gesù gli chiedono: la tua giustizia è quella derivata dalla torah, dalla legge di Dio? Oppure, tu hai un’altra giustizia da proporci?
Il termine giustizia ricorre 276 volte nell’AT. In tutti questi testi per giustizia di Dio, si intende sempre e solo la sua benevolenza. Quando Dio fa giustizia, non condanna né punisce; e quando fa giustizia nel cuore di un uomo, ne elimina il male e lo rende giusto. Questa è l’unica giustizia che fa Dio: far si che chi ha commesso il male ritorni sul cammino della vita.
Il nostro modo di concepire Dio giusto parte sempre dal presupposto errato, ch’egli si arrabbi perché disobbedito; e si vendichi perché offeso.. Ma il peccato dell’uomo non tocca, né offende Dio; il peccato fa del male all’uomo e Dio non può aggiungere altro male a quello che un suo figlio si è fatto da sé.
Domenica scorsa abbiamo incontrato il figlio maggiore il quale non si lasciava convertire a questa giustizia di Dio e continuava testardamente a volere mantenere la convinzione che Dio deve fare giustizia come aveva in mente lui. Ma Dio fa giustizia in un altro modo. E noi dobbiamo verificare bene qual sia la sua giustizia, per non continuare a immaginare Dio come un giudice che pronuncia sentenze di condanna. Da oggi deve essere chiaro che il Dio misericordioso e il Dio giudice non possono coesistere, perché il giudice non può perdonare. “La misericordia di Dio è l’emozione d’amore che lui prova e che lo spinge ad intervenire per fare giustizia in un suo figlio che sta vivendo una condizione non giusta.”
Dicevano questo per tentarlo, per avere di che accusarlo. Gesù risponde con il silenzio e con il gesto, importante, di scrivere, chino, sulla pietra.
Il silenzio fa rientrare in se stessi e aiuta a riflettere; e quelli uomini conoscitori della Bibbia lo devono aver capito: un dito che si muove sulla pietra richiama una scritta, che, nell’AT, è la parola di Dio, scritta sulla pietra, e ricordano anche la promessa dei profeti Geremia ed Ezechiele: un giorno Dio scriverà sui cuori. Voi, dice, con quel gesto nel silenzio, siete ancora fermi sotto la legge scritta sulla pietra, non su quella scritta nel cuore.
Cogliamo la pedagogia di Gesù: egli non vuole svergognare gli accusatori, vuole salvarli, vuole farli passare dalla giustizia degli uomini alla giustizia di Dio. Gesù deve salvare anche gli accusatori della donna. E qui abbiamo il branco, un insieme di persone che per non essere responsabili a livello personale di ciò che fanno si uniscono, si compattano perché così possono incominciare a lapidare senza che nessuno si senta responsabile.
Gesù con quel silenzio vuole fare uscire loro e noi dalla irresponsabilità che è data dalla appartenenza al branco. Questo silenzio, invita a fermarti un attimo per pensare, riflettere per quale ragione hai portato qui questa donna: vuoi farle del bene o farle del male! rimani un momento in silenzio, non nasconderti nel branco, guardati dentro.
Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, Gesù alza il capo e dice loro: “chi di voi è senza peccato per primo getti contro di lei una pietra”. Il gesto di Gesù scioglie il branco, interpella gli accusatori uno ad uno; dice: fai tu la scelta, scaglia tu la pietra; non tutti insieme. Gesù chiama l’individuo a uscire dal nascondiglio comodo della massa; mette ognuno di fronte al proprio cuore, come se dicesse: sei consapevole di ciò che stai facendo. Allora avendo udito questo se ne andavano uno per uno incominciando dai più vecchi, dai presbiteri
Gesù che cosa ha fatto: non ha voluto umiliare questi accusatori, li ha voluto salvare, portare a prendere coscienza che anche loro sono peccatori e che hanno bisogno di essere aiutati a diventare giusti. Il peccato non offende Dio, fa del male a chi lo fa ed essi, aiutati dal gesto di Gesù, dal silenzio e poi dalle parole che invitano a prendere coscienza delle scelte che si fanno, hanno incominciato, ad allontanarsi.
Alla fine, rimangono soltanto in due: Gesù e la donna. Gesù non ha vinto gli accusatori, li ha toccati nel profondo del cuore e ha donato loro un’individualità nuova; ha amato quei cuori rigidi, non meno di quanto abbia amato la donna. E di fatti che cosa fa Gesù quando rimane solo con lei? solleva lo sguardo, non si alza in piedi, Gesù ha solo sollevato lo sguardo, la donna è sempre in alto, Gesù in basso. Il Dio che ama è sempre a servizio dell’uomo, in basso; l’uomo è in alto.
Ha chiesto: Donna dove sono, nessuno ti ha condannato? La donna risponde: Nessuno. Allora se nessuno ti sta condannando, non condannare te stesso, non ti deprimere, non ti abbattere, abbi piena fiducia nell’amore incondizionato di Dio. Gesù dice alla donna: “Neanche io ti condanno, va e d’ora in poi non continuare a peccare”, non continuare a farti del male, e ricordati che qualunque cosa accada nella tua vita io non ti condannerò mai, perché la mia giustizia non è quella della condanna; la mia giustizia quella del ricupero alla vita.
Come il brano della scorsa domenica, anche questo non è concluso. Quella donna cosa avrà fatto in seguito? Ha continuato la sua vita, come continuiamo noi la vita, e anche se avesse commesso altri errori, doveva sempre ricordare la frase che Gesù le ha rivolto: io non ti condanno. Questa è la giustizia di Dio, l’unica giustizia alla quale noi dobbiamo fare riferimento. L’unica giustizia che soprattutto i sacerdoti, ma anche i genitori, devono testimoniare: quella del perdono incondizionato di Dio. E qualunque peccato uno commetta deve sempre trovare in chi deve pronunciare la giustizia di Dio, il cuore grande e l’amore incondizionato del Padre che ci è stato testimoniato da Cristo.