Wagneriano è diventato quasi un dispregiativo, riferendosi a qualcuno che ha idee di grandezza, di solito malriposte, spesso politicamente oblique. Non è questo l’ambito di dimostrare il genio di Richard Wagner – gioco puerile per altro – semmai sottolineare l’esigenza di criticarlo, di avvicinarlo, da quella vertigine e non dal bunker in cui siamo confinati. Ecco: ci manca lo sconfinato. L’era della frammentazione di massa contempla la precisione cioè la preclusione. Conosco precisamente quella singola cosa – per cui ho studiato e mi hanno applicato – ma mi manca tutto il resto, il panorama, l’insieme, la risposta all’imprevisto. Privati dal senso, privi di sensibilità, sappiamo – forse – descrivere con minuzia un virus ma non riusciamo a collocarlo nel nostro destino: è un accidente, come il temporale, il moto lunare, la morte. Al mito – ritenuto anticaglia, o meglio: un pericolo – abbiamo sostituito la fiction. Viviamo soffocati, senza esprimere la necessità al volo – anche una piccolezza appare azzardo. Morto quest’anno, Roger Scruton, filosofo integrale, uso a ‘leggere’ l’arte e la poesia – ricordo un suo corroborante acuto sul poeta Roy Campbell – ha dedicato a Wagner diversi studi. Wagner è l’uomo che, nell’epoca degli dèi assassinati, dell’uomo assatanato di progresso, tenta di ricollocarci nel sacro, attraverso l’arte. Come sempre ha fatto l’arte, prima di diventare gita domenicale, diletto, merce. L’estremo libro di Scruton, Wagner’s Parsifal. The Music of Redemption, è in giro da questo mese; nel 2016 Penguin ha pubblicato The Ring of Truth. The Wisdom of Wagner’s Ring of the Nibelung; nel 2018 è uscito Music as an Art. Eppure, Wagner è ossessione continua di Scruton, come dimostra il saggio che traduciamo, del 2003. L’impoverimento della musica occidentale – non in termini di quantità ma di profondità: oggi esistono esecutori e seguaci, eccellenti interpreti più che immensi creativi – è segno di disarmo dal sublime. La piccolezza ci dilania, non il piccolo – tutti, infatti, siamo piccoli perché adatti a elevarci. (d.b.)
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Le opere mature di Wagner narrano di eroi che si muovono in regni mitici e sono pervasi da emozioni liberate dall’ordinario contingente umano e innalzate a un significato universale e a una forza cosmica. In opere quali L’anello del Nibelungo, Tristano e Isotta e Parsifal, la condizione umana è idealizzata, come nelle liturgie e nei racconti religiosi. Riconoscere l’importanza di tali opere equivale a essere trascinati in un peculiare progetto moderno che trasforma l’umano in divinità. Un progetto che, a mio parere, identifica sia il trionfo artistico di Wagner, sia l’ostilità con cui questo trionfo viene così soventemente accolto.
Wagner tentò di foggiare un nuovo pubblico musicale, in grado di comprendere perché fosse necessario idealizzare la condizione umana. Tuttavia, con la cultura kitsch che già eclissava l’immagine romantica dell’artista come sacerdote, il suo intento ebbe sorte avversa fin dal principio. Da allora, l’idea di Wagner ha acquisito il proprio pathos tragico, i produttori moderni, umiliati dai drammi che deridono il loro stile di vita, a loro volta ridicolizzano il simbolismo. Il sarcasmo e la satira sono irrefrenabili, come nella rappresentazione di The Ring di Richard Jones, messa in scena dal 1994 al ’96 al Royal Opera House di Covent Garden; la reazione a una nobiltà diventata intollerabile.
Come sostiene Michael Tanner nella sua acuta difesa del compositore, le produzioni moderne tentano di “addomesticare” Wagner, di far calare la sua opera dalla magnifica sfera in cui la musica la colloca, nel mondo della banalità umana, annullando così le ricche ambiguità del dramma. I critici di Wagner si accostano alla sua arte con un antagonismo che ha pochi parallelismi al di fuori della cronaca della censura religiosa. Nietzsche aprì la strada a testi penetranti proprio come le inquisizioni religiose. Theodor Adorno cercò, nel suo modo tormentato e tormentoso di scovare la corruzione nella struttura melodica e armonica della musica di Wagner.
Altri critici hanno utilizzato il convulso antisemitismo dell’autore per condannare l’opera, senza disturbarsi di controllare dove e come esso troverebbe sostegno nella sua musica.
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In larga misura, queste ossessive distrazioni dalle vere questioni che circondano l’arte e la filosofia di Wagner sono state messe a tacere da Bryan Magee in Wagner and Philosophy, il suo punto di vista sulla formazione intellettuale di Wagner. Ciononostante, è necessario aggiungere qualcosa all’arringa di Magee per comprendere cosa stia alla radice dell’ostilità per Wagner.
Per quasi tutta la vita, Wagner fu un rivoluzionario, si distinse nella causa liberalsocialista. Ma la filosofia che più superficialmente si coglie nelle sue ultime opere è in aspro conflitto con il progetto egualitario, e la sua esaltazione dell’ideale tedesco ha fatto comodo più ai nazionalisti e ai tradizionalisti che ai socialisti o ai liberali. La storia confermò poi i sospetti dei critici di sinistra e, di conseguenza, i crimini di Hitler furono riletti nelle opere di Wagner, come se proprio da lì avessero avuto origine.
Wagner non pensava che gli esseri umani fossero uguali in nessuno degli aspetti che rendono la vita degna. La sua arte è dedicata alla straordinarietà umana e il suo eroe ideale non poteva essere preso come modello dai socialisti. Il contesto teatrale, allo stesso tempo, rende fin troppo facile supporre che l’antisemitismo del compositore sia un tutt’uno con quello del suo idolo e che entrambi trovino fondo in un’ideologia di supremazia razziale.
Nietzsche era più infastidito dall’idolatria che dall’antiebraismo. A suo giudizio, l’eroico in Wagner è una farsa. Invece di accettare i personaggi di Wagner come suggeritoci dalla tragedia, a cui lo stesso autore, come un discepolo del filosofo materialista Feuerbach, non credeva, dovremmo, suggerisce Nietzsche, tradurli “nella realtà, nel moderno… nel borghese”. E? E ci ritroveremmo immersi nei banali problemi dei “decadenti parigini”.
Nietzsche non condanna l’arte per le colpe che trova nell’uomo. Afferma piuttosto di discernere un profondo fallimento artistico nelle opere. Ci esorta a guardare oltre i personaggi di Wagner, al loro vasto campo di eroica azione, per scovare le emozioni da cui i loro atti derivano. Cosa vi troviamo, a suo avviso, non è eroica forza d’animo, amore caritatevole o rinuncia redentrice del mondo, ma mania di protagonismo e incapacità di accettare il mondo per com’è. Nietzsche ci invita a vederli come figure unidimensionali, liberate da una realtà borghese di costi e benefici per potersi godere una pretestuosa sovranità sul proprio destino in un mondo fiabesco.
Ma le tragedie di Wagner sono tutt’altro che fiabe. Niente in esse è più impressionante del tetro realismo con cui alcuni, del tutto intelligibili, motivi sono condotti al culmine. Motivi ambientati in una scenografia preistorica, mitica o medievale. Il fine di Wagner era di creare quel tipo di distanza tra pubblico e dramma che gli avrebbe conferito un significato universale. Di qui la sua predilezione per miti e leggende, storie che si allontanano dal realismo per trasmettere verità universali sulla condizione umana.
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Quando Wagner decise di dedicarsi allo studio della letteratura delle prime tribù germaniche e della poesia medievale tedesca, fu per entrare in contatto con una cultura in cui l’ideale aveva penetrato il reale. Scoprì nel mito una distinta categoria di pensiero umano. Mito che nella mente di Wagner assunse la forma di una speranza per la società. Un modo di pensare che avrebbe potuto ristabilire nell’uomo moderno il perduto senso dell’ideale.
L’appropriazione del mito da parte di Wagner non è semplicemente una questione morale e un credo artistico di un singolo individuo. È anche uno dei grandi progressi intellettuali dell’epoca moderna: antenato e ispiratore dell’antropologia comparata, della poesia simbolista, della psicanalisi e di diverse dottrine estetiche e teologiche che oggi sono valuta comune. Di ciò gli diede merito Claude Lévi-Strauss (che riconobbe nel compositore la principale fonte di ispirazione per il suo metodo strutturalista), come anche l’antropologa e medievalista Jessie L. Weston e il suo discepolo T.S. Eliot, in The Waste Land. Tale raccolta di analisi e creazione di miti rende opportuno ripercorrere il metodo di Wagner e studiare la vitalità con cui trasformò il mito antico in arte moderna.
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Un mito, per Wagner, non è una fiaba o una dottrina religiosa, ma un veicolo per la conoscenza umana. Il mito è ambientato in un mondo scomparso di forze ctonie e atti magniloquenti, tuttavia tale indispensabile “antichità” è un espediente per elevare la storia dal flusso della vita umana e per dotarla di un significato eterno. L’impulso di Wagner – scoprire nelle antiche leggende del popolo germanico un’impronta viva dell’epoca degli eroi – lo riportò al punto di partenza: il mondo moderno. I miti non narrano di ciò che fu, ma di ciò che perpetuamente è. Sono riepiloghi magico-realisti del mondo, in cui le possibilità morali sono personificate e rese carne. Ecco perché L’anello del Nibelungo, la sintesi dei miti germanici e islandesi, è la più attuale in assoluto tra le opere di Wagner, un commento della vita moderna con le sue speranze e paure. Eppure, incastonato nel dramma amaro e spesso cinico, vi è l’ideale eroico, ideale che Wagner cercava in una realtà passata, ma che scoprì avere la forma del mito.
Wagner riteneva che l’ideale eroico, consacrato nell’amore tra Sigfrido e Brunilde non venisse confutato, bensì rivendicato dall’ambientazione mitica. Naturalmente non aveva la nostra stessa visione delle leggende in cui tesseva i suoi drammi. Ma si rivolse al fondo di sentimento religioso che si cela in esse, elargendo ai suoi drammi musicali il loro caratteristico bagliore spirituale. Le modifiche che apportò furono atte a rivelare la natura sacra delle nostre più profonde emozioni e a isolare i momenti di sacrificio in cui gli ideali diventano reali. Ci viene costantemente ricordato che l’amore, visto come invito al sacrificio, è una forza sacra, redentrice. Tutto il resto è compromesso.
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Solo assimilando la natura spirituale dei drammi di Wagner, possiamo comprendere a pieno il loro richiamo sul pubblico moderno, come pure l’ostilità che ispirano. Per Wagner, come per i greci, un mito non è una fiaba esornativa, ma l’elaborazione di un segreto, un modo per nascondere e anche per rivelare misteri che possono essere espressi solo in termini spirituali, attraverso le concezioni di santità, sacralità e redenzione. Idee di cui abbiamo tutti bisogno, sosteneva Wagner, e nonostante le persone comuni le percepiscano attraverso il velo della dottrina religiosa, è nell’arte che esse trovano la forma più eloquente.
Le opere di Wagner vanno oltre al dramma; sono rivelazioni, l’intento di penetrare l’arcana essenza dell’esistenza umana. Non sono le uniche: anche Eschilo e Shakespeare (ai quali Wagner era debitore) plasmarono alcune delle loro tragedie nella forma di epifanie religiose. Ma il mezzo di Wagner gli consente di esibire le passioni individuali dei suoi personaggi simultaneamente ai loro archetipi universali.
L’orchestra non è solo accompagnamento alla voce dei cantanti, pervade lo spazio al di sotto delle emozioni svelate, con tutte le ancestrali brame della nostra specie, e trasforma le passioni individuali in emblemi di un destino comune che può essere avvertito, ma non espresso.
In Parsifal, il momento del sacrificio assume forma cristiana. Ma il cristianesimo è innestato in una concezione più pagana del martirio, concezione che torna vivida in mente nelle due immolazioni di Brunilde e nella morte di Sigfrido. Mentre Sigfrido è chinato verso il suo carnefice, l’orchestra osserva la scena e segue ogni sua mossa con una sorta di timore reverenziale, incoraggiandolo a dare segno di accettare il colpo sacrificale. Per mezzo delle tecniche musicali con cui portò in superficie tali sottocorrenti di sentimento religioso, Wagner idealizzò le passioni dei personaggi e rese non solo plausibile, ma sacrosanto che essi sacrificassero tutto per ciò che altrimenti sarebbe stata la fugace inconsistenza dell’amore.
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Wagner ci presenta la nostra sorte e permette a un’epoca senza credo spirituale di sperimentare l’essenza dell’esperienza religiosa. Eppure è il sogno incantato del paesaggio infestato dagli dei, un’ambientazione che evoca un timore divino, la prima cosa che i produttori moderni modificano della storia.
Foreste, fiumi, draghi e sirene sono ricreati nel L’anello del Nibelungo con un candore che ricorda la ricca tradizione della letteratura tedesca per bambini. Da questo punto di vista, il ciclo de L’anello del Nibelungo di Wagner è un ponte tra due produzioni di gran lunga più umili; le fiabe dei fratelli Grimm e Il signore degli anelli. I Grimm influenzarono Wagner, che rese possibile l’opera di Tolkien. In realtà le emozioni suscitate dallo sconclusionato adattamento cinematografico della storia di Tolkien sono un debole eco di quelle che desterebbe L’anello del Nibelungo, se rappresentato come inteso da Wagner.
La passione di Tolkien per il mondo medievale ebbe origine, come quella di Wagner, da un’eterna ricerca spirituale. A differenza di Wagner, tuttavia, Tolkien non possedeva l’abilità di far affiorare l’esperienza spirituale dall’arte. Il suo romanzo accenna al grande conflitto tra bene e male e abbonda di mistero. Senza però ricreare l’esperienza del sacro che Wagner aveva sempre in mente nella tetralogia.
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L’anello del Nibelungo è una sequenza di scene di timore reverenziale: l’annuncio di Brunilde a Sigfrido della di lui imminente morte. La benedizione di Sieglinde a Brunilde, il congedo di Wotan, il primo incontro di Sigfrido con Brunilde, e così via. In sostanza tutti i punti di svolta del dramma sono elaborati in termini sacri.
Momenti di timore, devozione e trasformazione, in cui viene offerta una vittima in cambio di una promessa di redenzione. Ma una svolta wagneriana caratterizza tutti questi momenti. Se il sacro è stato sempre interpretato come una via che porta l’uomo a Dio, per Wagner invece è una via che porta Dio all’uomo. Sono gli dei, non gli uomini, ad aver bisogno di redenzione e la redenzione giunge attraverso l’amore. Secondo Wagner però l’amore è prerogativa esclusiva dei mortali – è un legame tra due creature destinate a morire, che cedendo all’amore, accolgono la propria fine. Brunilde ne ha la consapevolezza durante il magnifico dialogo con Siegmund, nella Valchiria, quando, con cuore risoluto, decide di rinunciare alla propria immortalità per amore di un mortale.
Ma chi sono, in questa prospettiva, gli dei? Solo un frutto dell’immaginazione, come affermava Feuerbach? O qualcosa di profondamente impiantato nello schema delle cose, qualcosa che ci prelude e ci sopravvive? La risposta di Wagner non è chiara nelle parole, ma è cristallina nella musica. Ed è una risposta che lo rende estremamente importante per noi. Poiché, malgrado cerchiamo di vivere senza una religione formale, non siamo più liberi di chi fu o sarà vincolato a un credo.
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Wagner accettava la visione di Feuerbach degli dei come creazioni umane. Tuttavia le creazioni umane custodiscono alcuni elementi del tutto reali e persistenti, un esempio è la Saint Paul’s Cathedral. Gli dei vanno e vengono, ma rimangono finché glielo consentiamo, e lo facciamo attraverso il sacrificio. Gli dei nascono perché idealizziamo le nostre passioni, non drammatizzandole, ma sacrificandoci all’idea da cui essi dipendono. È accettando la necessità del sacrificio che cominciamo a vivere sotto divina giurisdizione, circondati da cose sacre, e scoprendone il significato attraverso l’amore. Da questa visuale vediamo che non siamo condannati alla mortalità, ma a essa consacrati.
Se ben rappresentati, i drammi musicali di Wagner ammaliano il pubblico e lo vincolano ad adottare tale prospettiva. È per questo che non vengono più rappresentati bene. Il sacro sollecita il desiderio di dissacrare e, in coloro che hanno voltato le spalle alla fede, tale desiderio è irresistibile.
Roger Scruton
*Il saggio è stato pubblicato sul “Guardian” come “Man ad superman”; la traduzione italiana è di Valentina Gambino