26 Ottobre 2024

“Vagando nei meandri dell’incantesimo”. Ode alla Paura

William Collins fu il pioniere dei ‘segnati’, dei poeti su cui grava lo stigma dell’alienazione. Nacque a Chichester, nel Sussex, il giorno di Natale del 1721: il padre, sindaco della città, era un eccellente fabbricante di cappelli. Crebbe, Collins, credendo di essere vegliato da una luna sinistra. Indolente per la vita militare, da cadetto in armi, si diede alla letteratura. Poco più che ventenne, approdò a Londra, “puro avventuriero letterario, cioè: pochi denari in tasca e troppi progetti in testa”, ricorda Samuel Johnson, tra i suoi rari amici. Scrisse ecloghe e odi che, qualche decennio dopo, sarebbero state elogiate come poesie-pioniere, come l’avanguardia dell’ideologia Romantica. Piacque a Coleridge e a Keats. Ai tempi, tuttavia, la sua poesia arenò nell’incompreso, fu considerata estrosa stramberia, che sfigurava i codici formali imposti da Edmund Spenser e da Alexander Pope.

Per sopravvivere a se stesso, Collins ideò progetti volenterosamente impossibili come una traduzione della Poetica di Aristotele e una biografia di papa Leone X. Lottò con tenacia per restare un incompiuto; secondo un tragico schema – vissuto, dopo di lui, tra i tanti, da Christopher Smart e da John Clare – cadde in disastro mentale. Dichiarato ‘insano’, fu rinchiuso nel McDonald’s Madhouse di Chelsea. Compiva 33 anni, credeva di essere un Cristo capovolto; teneva sempre in tasca un Vangelo, che sfogliava compulsivamente.

William Collins (1721-1759)

Mario Praz scrive che il poeta “visse gli ultimi anni in uno stato di astenia e di marasmo”; fu infine la sorella – che aveva sposato un pastore anglicano – a occuparsi di lui; il poeta morì, sbalordito dal male, nel 1759. Aveva smesso di scrivere da tempo. Due anni prima, un’edizione delle Oriental Eclogues aveva riportato in auge il suo nome; nel 1765 fu pubblicata la prima raccolta dei Poetical works of William Collins e quello strambo poeta fu preso per il Messia del Romanticismo inglese.

Il “dottor Johnson”, il più eminente critico letterario anglofono di sempre, ebbe a cuore quell’anima anodina: installò William Collins nella serie – in quattro volumi – dei Most Eminent English Poets, tra John Milton, Jonathan Swift e Thomas Gray. Alcuni passaggi illuminano sull’indole di Collins:

“Era uomo di vaste letture, di vigoroso talento. Conosceva le lingue antiche, come l’italiano, il francese, lo spagnolo. Era deliziato dai fantomatici voli che oltrepassano i limiti della natura. Amava le fate, i giganti, i mostri, le fiabe popolari; si dilettava vagando nei meandri dell’incantesimo. La potenza della natura selvaggia e la novità della stravaganza erano il suo primo anelito; non sempre le raggiunse nei suoi versi… La sua morale era pura, pie le opinioni; la lunga povertà e l’abitudine alla dissipazione gli avevano forgiato un carattere difforme… L’ultima parte della sua vita va ricordata con pietà e tenera tristezza. Languì per anni sotto la depressione della mente, che incatena le facoltà senza distruggerle. Nubi si addensarono sul suo intelletto: tentò di arginarle viaggiando in Francia; l’infermità lo costrinse al ritorno. Per qualche tempo, fu rinchiuso in una casa per matti; in seguito, fu condotto dalla sorella a Chichester, dove morì. Aveva sempre con sé il Nuovo Testamento, quello che i bimbi usano a scuola: quando un suo amico glielo tolse di mano, per vedere quale lettura giovasse alla sua scienza, ‘Ho un solo libro’, replicò Collins, ‘ma è il migliore’”.

Gran parte dell’opera di Collins – invero scarna – è costituita da odi. Il poeta scrisse odi alla pietà, alla semplicità, alla grazia, alla libertà, alla pace. La più bella, perché ci prende in contropiede, è l’Ode alla Paura (tradotta in calce). Il poeta – con turibolo di immagini eccessive, del tutto preromantiche, a profezia di un Poe – fa della Paura la sua autentica, screziata Musa. La paura, ci dice Collins, ci svela il mondo così com’è, ce ne mostra l’aspetto irreale, orrido, assurdo; la paura è un esercizio di crudele verità a dispetto dei veli della Fancy, la facoltà fantastica – l’illusione, potremmo dire – che ammanta di manna i bruti fatti, trasforma Cerbero in un mansueto prato di margherite. Collins si instaura in un lignaggio di poeti che come lui hanno elogiato la paura: Eschilo, Sofocle – il terrore come motore della tragedia – e Shakespeare.

Allen Tate (1899-1979)

In un antico Elogio della paura (uscito su “Avvenire” il 3 dicembre del 2005) Gianfranco Ravasi scriveva che “Bisogna imparare a convivere con la paura, sapendo che essa è simile a un ospite. Un ospite forse un po’ sgradito ma che è possibile controllare, anzi, finalizzare a un compito. La paura, infatti, ci rende più umani e più umili. Ci fa più attenti al rischio e alla complessità della vita. Ci allena ad essere più coraggiosi e pazienti”. Tutto questo, naturalmente, non si trova in Collins, il poeta che tenta di allentare la parola fino allo sgomento, di allenare il lirismo all’urlo: egli vuole orientarsi alla saggezza degli antichi bardi, che tartagliavano oracoli. Antico sogno del poeta di quei secoli, fuori tempo: connettersi al tempo in cui la parola ‘agiva’ e il verbo elargiva magie.

Un paio di secoli dopo, il magistrale poeta statunitense Allen Tate, scrive una Ode to Fear riferendosi direttamente a Collins (si tratta, infatti, di una Variation on a Theme by Collins). La poesia, raccolta in origine nei Poems 1928-1931 (1932), è stata tradotta da Alfredo Rizzardi nell’unico libro in versi di Tate approdato in Italia, Ode ai caduti confederati e altre poesie (Mondadori, 1970); qui se ne dà altra traduzione. Il testo è mirabile: un autentico classico – si fa riferimento a Edipo, il tono è da tamburo biblico – contemporaneo. Per dare ragione del carisma di Tate, Rizzardi cita Yeats e William Faulkner; si tratta di una poesia che tenta le altezze, che scatena le aquile, poco allettata, allo stesso modo, dagli avanguardismi degli eccentrici e dalla modestia dei burocrati del quotidiano, degli analisti del proprio ombelico. Diversamente da Collins – in questo caso serve la noterella etica di Ravasi – Tate non ha bisogno di mostrificare la paura, né di divinizzarla. Paura, “belva del cuore”, ha a che fare, forse, con il timore di Dio, con quell’ecumene di corde, di preci. Ma ogni spiegazione volgarizza. Soprattutto, la poesia avvince per la forza delle immagini, le frasi al giusto sangue, assertive, assolute. Genio dell’equilibrio, insomma.

Ciò che piace, poi, piuttosto, è che un poeta riconosca un suo pari vissuto decenni prima, secoli prima, se ne incarichi, se lo carichi in spalla. Operosità e amicizia, lealtà e riconoscenza. Non esiste poeta che non si appropri della proprietà lirica di un altro – chiamiamola, transumanza di follie, andare a tentoni con la torcia in bocca, esumare la parola che sconvolge. Liberare dalle gabbie critiche il poeta, che non è un passerotto da passeggio.

***

Ode alla Paura

Tu, a cui l’ignoto mondo
con tutte le sue oscure icone è noto;
che vedi, pallida, la scena irreale, l’assurdo
mentre Fantasia stende il velo:
Ah, Paura!, frenetica Paura!
Ti vedo, mi sei vicina
conosco l’arrembante andare, il tuo malconcio occhio!
Come te, scatto; come te plano nel disordine.
Quali mostri si appellano tuoi complici…
Pericolo, gigante dalle rognose membra:
quale sguardo può sconfiggerlo?
Forme orrende gli vagano attorno
ululano nel vortice della tempesta notturna;
si gettano tra rapaci crinali
sopra tane di pietre smosse;
con lui, dilagano spettri a migliaia
quelli che insieme ai demoni, loro
alleati, procurano ferite e foraggio di naufragi
alla Natura, mentre Vendetta dalla lurida
aura, arma il rosso braccio, nudo
sopra la nidiata del Destino cranio di corvo
che lecca il sangue del soffrire, e attende:

chi, Paura, tale sciame di sciagure può ammirare
senza che scollini nella follia?

Epode

Nella primordiale Grecia, a te la Musa
graveolente di dolori volgeva l’infantile
lingua; da lei fanciulle e matrone, pallide
e silenti, pendevano abbigliate in barbari abbagli.

Eppure, il bardo che per primo invocò il tuo nome
disdegnò i tuoi poteri a Maratona:
nutrendo, così, la fiamma del poeta
e l’acciaio del patriota, concesso da Virtù.

Ma chi è l’uomo che grondò di grazie
e preferì vagare dalle rugiade di Ibla
con occhi pari a solchi, fino ai luoghi
dove tu e le furie spartivate la selva?

Avvolta in nubiformi veli, l’incestuosa
padrona sentì il lamento del figlio
che le fu marito rompere sulla scena –
quel miserabile che a Tebe mai più apparve.

O Paura, il mio cuore tambureggia al tuo
cospetto, il tuo viziato potere ispira questi
lugubri versi: Pietà rivendichi pure il suo ruolo
i tuoni del palco sono comunque tuoi!

*

Antistrofe

Tu, dagli affannosi passi
dove poserai, folle Ninfa, infine?
Vuoi forse installarti nella cella funesta
dove risiedono Razzia e Omicidio?
O in qualche grotta contro
cui sbattono le grandi onde
e ascoltare le grida dei marinai
che annegano sconfitti dalle tempeste?
Oscuro potere, mansueto trepido sottomesso pensare
fatti mio, fammi leggere le antiche visioni
che i tuoi bardi, illuminati, hanno narrato:
per non incontrare il mio balestriere sguardo
mantieni ogni stranezza devotamente vera
non sarò mai trovato né sopraffatto da te
in quella tre volte sacra notte
quando i fantasmi, come dicono le ragazze,
si muovono come un acciottolio sotto i letti
e gli spiriti del fuoco e della palude
delle miniere e delle sorgenti infestano le vie degli uomini!

O tu, spirito impossessato che sedevi
sul sacro petto di Shakespeare!
Nelle tue divine emozioni riveli
ciò che quel profeta ha squadernato:
ancora una volta si riversi la tua furia
insegnami a sentire almeno
una volta come lui – la sua corona
di cipressi sarà il mio premio
e io, Paura, mi offrirò a te!

William Collins

*

Ode alla Paura

Variazione su un tema di Collins

Lascia che sia folgore il giorno: O memoria, il tuo andare
batte al ritmo della soffocante notte – notte
che scruta con il suo oscuro cranio, fiamma in bocciolo
da cui il giorno eredita la luce, serica e segreta.

Ora non osano sgrezzare il tuo sogno selvaggio,
o bestia del cuore, quei santi che bestemmiarono il tuo nome;
tu sei la corrente del glaciale rio
l’invisibile ombra, l’acquattata e vigile fiamma.

Mia vecchia complice di tenaci solitudini,
molosso a guardia di Tebe quando incedeva il cieco eroe:
Tu, onnisciente, l’assisa sul bivio, quando Laio
l’assurdo assassinato, grommava di sangue la selva.

Ora, immune dall’occhio della profezia,
svagando, straziata, c’insegui per i sentieri
dai recessi di un mezzogiorno agostano,
in agguato da altri mondi, accucciata sui piedi dell’aria.

Tu sei certezza di vita immortale,
l’odio di Dio per l’universale macchia –
eredità, O Paura, di antica lotta
registrata nel tessuto della vena.

E io, quando tutto fu detto, vidi la tua forma
la più schietta e la più infida al mondo
nel lungo giorno dell’infante, mentre un’arida
tempesta bruciava i cedri, lucenti di sole, nell’urlo!

1932

Allen Tate

*In copertina: un’opera di Nicola Samorì

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