10 Dicembre 2020

Ho scritto lettere ad Anna Achmatova. Ah, se ti avessi incontrata in quegli anni incredibili, a Parigi!

Di Anna Achmatova conosco l’amore tradito, rubato, ferito. Perché per davvero l’amore tradisce, si ruba e fa male, in quelle che sembrano le infinite stagioni della nostra vita. A lei, che non c’è più (almeno in questo mondo), volevo scrivere delle lettere. E forse l’ho già fatto; lo farò ancora. Porto la sua immagine con me, sul telefono. Quasi fosse lì, ogni giorno, a ricordarmi (insieme a qualcun altro) qual è il punto a cui tendo e dal quale non voglio assolutamente discostarmi. Anna è stata davvero una corsa, una sorpresa scoprirla, una comparsa irreversibile: un’onda: l’onta avversa al destino.

Ah, se ci fossi stato io, in quegl’incredibili anni, a Parigi! Amedeo non me ne voglia. Ah, se ti avessi incontrata per davvero! Cara Anna, poetessa del mio cuore. Inspiegabilmente sei dentro di me più di chiunque altra. Non so appunto spiegarne il motivo. Eppure ti porto sempre con me. Si può amarti, quasi devotamente, signora? Si può essere talmente folli?

Tu, che tutto hai conosciuto, goduto, sofferto. Tu e i tuoi immortali immensi amici. Cosa dev’esser stato vederli cadere uno a uno… Tu e i tuoi amori, i tuoi affetti. Quel figlio per il quale hai dovuto patire. Quelle tue parole che tanto t’avvicinavano al popolo, t’avvinghiavano al cuore, t’irrompevano le lacrime. Tu, che hai scritto:

occorre sino in fondo uccidere la memoria,

occorre che l’anima impietrisca,

occorre di nuovo imparare a vivere.

Perché, come si potrebbe, altrimenti, guardare al nuovo giorno; alzare lo sguardo, inorgoglire al crepuscolo, mendicare parole nuove? Quel che scrivevi, non solo nel Requiem, era preghiera. Ciò che ci hai lasciato lambisce lo sguardo, quasi nuovamente a strappare altro amore.

Anna, tu sei ciò che non ho mai avuto. Forse m’illudo d’esserti accanto. Forse son morto, già prima del disincanto. Eppure io, come tu allora, sono con il mio popolo, “là dove, per sventura, il mio popolo era.”

Noi non scappiamo. Noi affrontiamo. Soffriamo, piuttosto. Ci concediamo rose. Con lacrime ardenti ustioniamo il ghiaccio. Diciassette mesi hai gridato. E io, forse, non grido inascoltato? Ci si prende per pazzi, a volte. Guardali, quei folli!, ci urlano dietro o sussurrano alle spalle. Ma a noi che c’importa; che c’importa degli umani. Noi sfiniti. Noi mai vinti. Attendiamo sempre qualcosa. Ma forse deliro, come te in quei dannatissimi diciassette mesi. Forse assaporo quel canto a noi dovuto per eccellenza di sforzo. Quel tenderci, oltre tutto, uno sguardo ultimo.

Ti chiedo di non amarmi come si può amare un figlio condannato. Tutt’al più amami con la stessa innocenza e irruenza con le quali desiderasti Amedeo. Sebbene il vostro amore sia leggenda, ed io ‒ minuto, che c’entro in fondo. Semmai, condannami. Consigliami. Ispirami. Noi animali, fiere dalle mille vite: angeli irrisolti. Noi che conosciamo il segreto del vento, per quante volte ancora dovremo nascere a nuova vita? E cosa m’attende dietro l’angolo?

Anna carissima, tu che m’hai sedotto, dipinto la strada, offeso con la tua assenza, guarda in me l’ennesimo poeta venuto da altri secoli lontano. Non sarò che l’ultimo, nell’avvenire. In quell’avventato avvento fattosi per noi parola-preghiera. Ti prego, guardami. Porta anche a me le rose. Tu che Amedeo non trovasti. Tu, ora, tendi ti prego lo sguardo a un poeta, come te, tradito – rubato – ferito.

Giorgio Anelli

*In copertina: Olga Della-Vos-Kardovskaya, “Ritratto di Anna Achmatova”, 1914

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