Apple, ovvero: l’arte di creare prodotti destinati a morire in un tempo brevissimo
Leggi la notizia, o l’inchiesta, e muori… Sì, ma dal gran ridere. Quel che la gente si racconta nei bar, in ufficio, facendo la fila dal medico, arriva sui giornali e viene spacciata per novità. Sembra quasi di sentirlo il rullo di tamburi. Poi, alla fine, ci si guarda in faccia l’un l’altro e ci si dice: “Tutto qua?! Ma si sapeva”. Questo è certamente quello che avrete pensato leggendo dell’inchiesta francese contro Apple, sospettata di creare prodotti soggetti a obsolescenza programmata. Premesso che noi consumatori comuni non possiamo dimostrarlo con certezza, è inutile precisare quel che tutti hanno avuto modo di constatare con l’esperienza… e non solo sui prodotti Apple. Sarà pure un caso, ma il ferro da stiro si rompe sempre il giorno in cui scade la garanzia e le stampanti, stranamente, anche se hanno sputato fuori appena tre fogli, dopo un po’ non funzionano più, oppure diventa impossibile procurarsi le cartucce. Coincidenze? Come no! Come la morte di Pasolini e quella di Tenco. Come le stragi…
Qualcuno potrebbe dire “Siamo in Italia”. In verità, qui vale più che mai il principio che tutto il mondo è paese. Niente avviene per caso, oggigiorno, nel globo. Per ogni Lehman Brothers che fallisce, apparentemente per una fatalità simile a quella di un uomo che viene colpito da una tegola mentre passeggia, c’è sempre un gruppo di banchieri che si fa fotografare mentre brinda con lo champagne. In tutto ciò, la gente non riesce comunque a fare una semplice connessione, un sillogismo da prima elementare, a tirare le somme dell’addizione due più due. Come nel famoso 1984, se il Grande Fratello dice che fa cinque, tutti se la bevono. Tutti, o quasi… per loro sfortuna.
E allora diciamocelo chiaro e tondo, che questa reticenza nel palesare l’ovvio rischia di condurci tutti alla pazzia: siamo vittime di una gigantesca messa in scena. Dobbiamo produrre, consumare e crepare. Ma, soprattutto, consumare. Apple è solo il paradigma par excellence di questa filosofia assurda (attenzione: non dell’assurdo). Non arriverete mai al torsolo della mela, perché questa si rigenera per ogni morso che, con golosità da squalo, le sferrerete. Ci sarà sempre un nuovo iPhone, appena un poco “più migliore” (copyright della Ministra Fedeli) da comprare, finché vivrete. Incredibile come quel genio maligno di Steve Jobs sia riuscito a mutare l’angosciante mito di Sisifo nella più grande gioia dell’uomo occidentale. Ripeto: anche questa è la prassi che seguono tutti. Solo che lui l’ha fatto meglio. Come dice Sylvia Plath, per il suicidio: “È un’arte, come ogni altra cosa/, e io lo faccio eccezionalmente bene./ Lo faccio che sembra l’inferno./Lo faccio che sembra vero./Si può dire che ho la vocazione”. E in effetti, è l’inferno, ma reso straordinariamente appetibile dall’affascinante dote da pubblicitario del demonio in persona.
No, non ci sono colossali miglioramenti tra un iPhone e il modello successivo, o comunque niente che possa mutare significativamente la vostra vita. La maggior parte di voi probabilmente non sfrutta a pieno neanche la metà delle potenzialità di quello che già possiede. Così è per i computer e per i loro programmi. Non trovo grosse differenze tra il pc con cui scrivevo dieci anni fa e quello che ho comprato quest’estate. Ho provato l’ultima versione di Word e non mi sembra meno contro intuitiva di quella che uso del 2006.
Ma loro vi faranno credere il contrario, mentre faranno quello che hanno sempre fatto e che tutti i tecnici ti confidano se insisti appena un po’: creare dei prodotti destinati a morire in un arco di tempo brevissimo. Ergo, l’accusa secondo cui la compagnia manderebbe a un certo punto aggiornamenti che in realtà servirebbero solo a rallentare la macchina, non mi stupisce per niente. Su, ragazzi, guardiamoci negli occhi. Parliamoci da uomo a uomo. Ma è chiaro! Lo sanno tutti! Dovremmo organizzare un raduno di massa, per gridarlo all’unisono. La verità suonerebbe catartica e liberatoria. Invece, ho il fosco presentimento che ci troveremo tutti fuori al più vicino Apple Store, magari in piena notte. Saremo in fila, ordinati come neppure durante il periodo scolastico. Ce ne sarà per tutti. Anche i poveri potranno servirsi – ci sarà ovviamente la possibilità di usufruire di comode rate, per chi è un morto di fame. Ci piacerà. Noi continueremo a parlarne male, ma sarà un’inutile ribellione contro un destino oramai ineluttabile.
Matteo Fais
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…il cellulare che muore mi fa fare pensieri antartici, gioiosi…
Ho un pensiero antartico. Ho un pensiero bianco che mi perfora la calotta del cranio, riduce a un prato di margherite il mio cervello e va in fondo, narici, trachea, intestino, sfintere, caviglie. Ho un pensiero australe che mi perfora come uno spillo. Tutto muore. Tutto è morituro. Perché non dovrebbe morire un Apple? C’è qualcosa, piuttosto, di eccezionalmente caritatevole nell’ingegnere che definisce un destino alla macchina, che sancisce il getto della sua esistenza meccanica. C’è qualcosa, ancora, di umano in questo. L’uomo dà vita alla macchina e ne traccia la morte. Sarà un altro uomo – non più uomo-creatore, ma uomo-consumatore, il mangiamerda – che sceglierà se comprare quella macchina soggetta a morte oppure no. Beh, devo dire che mi consola sapere che il mio cellulare morirà prima di me, e che la sua morte è ‘programmata’. Questo pensiero – non certo antartico, ma superficiale – mi rallegra. L’uomo ha ancora dominio sulla macchina. Mi spaventa, piuttosto, il contrario. La macchina – c’è già, ci agita – che vive più a lungo del suo padrone e del suo creatore. La macchina che giudica il suo creatore e ne cronometra la fine. Non voglio che il mio cellulare metri quanto resta tra me e la morte. Voglio avere la libertà di pigliare il cellulare e di scagliarlo in faccia al primo youtuber che passa, o al muro della casa del vicino di fronte, la cui erba è notoriamente sempre più verde e più buona (con innaffiatoio cronologicamente efficiente). Al posto di citare Orwell – buona idea, 1984, pessima scrittura: per questo lo continuano a leggere nelle scuole di ogni ordine e grado, senza capire l’alchimia distopica, altrimenti… mica farebbero quella vita lì da barbosi sbarbatelli – viene meglio l’immenso Dostoevskij.
Brano celeberrimo delle Memorie del sottosuolo. “Due più due quattro: ma secondo me è soltanto impudenza. Due più due quattro ha un’aria strafottente, vi si piazza in mezzo alla strada con le mani sui fianchi e sputa. Sono d’accordo che due più due quattro è una cosa magnifica; ma se si vuol lodare proprio tutto, allora anche due più due cinque è una cosuccia talvolta molto carina”. Cosa dice Dostoevskij? Questo, che “luomo è creatura frivola e disordinata e, forse, come il giocatore di scacchi, ama soltanto il processo del raggiungimento del fine, e non il fine in sé”. Che l’uomo è terrorizzato dalla fine, uniforme, univoca, plumbea. Che l’uomo è fatto, odisseicamente, per fuggire da tutto, soprattutto dalla propria natura. Che la scienza del due più due quattro non riuscirà mai a contenere l’incontenibile furia dell’uomo, che fa sempre cinque, che è sempre alla ricerca del due più due cinque, di qualcosa, cioè, che oltrepassi i limiti angusti della natura, della superficie delle cose, della nullità quotidiana. Il cinque, sia chiaro, non è per forza l’abisso incarnato in Dio – Dostoevskij non è Pascal – può anche essere il nulla, la provvidenziale dissipazione di sé. L’importante è che non venga un Apple a dirmi che il mio destino sta in uno schermo destinato a morte programmata. L’importante è che non sia un cellulare a decretare la lunghezza della mia vita bastarda. Ma visto che vogliono destinarci a questo, a comprare soltanto cose che muoiono, io, che voglio l’immortalità, ho un pensiero antartico che mi trapassa la fronte. Sogno orde di umani davanti all’ultimissimo iPhone. Schiavi. Obnubilati. Con gli occhi scintillanti di nulla. Io me ne vado da un’altra parte. Parlo solo con chi l’iPhone è riuscito a schivarlo. Chiamatelo razzismo. La selezione della specie. Dobbiamo selezionare, gente, sempre, rischiando, totalmente. Preferisco i pleistocenici come me, quelli che non sanno che cazzo farsene di un aggeggio digitale in tasca, a usurare le palle. Vado in Antartide per il gusto di sentire l’odore del ghiaccio, in assenza di umani.
Davide Brullo