12 Febbraio 2019

Matteo Fais e Davide Brullo puntano su due scrittori per salvarci dalle atrocità narrative: Sergio Atzeni e Carlo Sgorlon

Bellas Mariposas di Sergio Atzeni: come usare il ’900, da Joyce alla postmodernità, per raccontare la Sardegna

Inspiegabilmente un testo ambientato nei dintorni del quartiere in cui viviamo può lasciarci più straniti di una storia che si svolge a New York. Certo, non per questo mi butterei mai nella ridicola impresa di scrivere un romanzo, o un racconto, che abbia come sfondo lo scenario della Grande Mela. Sarei un cretino e, almeno a giudicare dai titoli in libreria, di cretini simili ce ne sono a bizzeffe. Una volta, durante una presentazione qui a Cagliari, ho sentito un’autrice dire che il suo romanzo si muoveva tra le due coste degli Stati Uniti d’America, pur senza che lei vi fosse mai stata. “Ma ho studiato per giorni le immagini, su Google Maps”: lo giuro, ha detto proprio così. Io, preso da un riso di indignazione, ho lasciato a metà la birra che stavo bevendo e me ne sono andato. Anche al paranormale, bisogna pur porre un limite!

A ogni modo, quando vedo i miei romanzi, qui nella mia città, inseriti nello scaffale con la dicitura “Letteratura Sarda”, ammetto che mi girano le palle. Già il concetto di Letteratura Sarda è più una diatriba senza soluzione che un’idea chiara e netta. Secondo alcuni, per farvi parte, bisogna scrivere in limba. Per altri basta l’ambientazione in una Sardegna anche immaginaria, quale quella di Niffoi, o la presenza di termini desunti dal nostro idioma. Io, personalmente, ho sempre evitato di caratterizzare in questi modi un mio testo. Direi che l’Italia, come sfondo di massima, mi è molto più congeniale. Mi pare del resto che oramai, data l’uniformità dello scenario globale e di conseguenza umano, tra nonluoghi e gusti imperanti su base pubblicitaria, molte storie – e certamente quelle che racconto io – potrebbero avere corso in una qualunque città situata tra Palermo e Aosta.

Resta il fatto che, ancora oggi – per quanto meno che in passato – certe realtà per essere narrate in modo ultrarealistico necessitino, se non del dialetto, oramai miseramente caduto in disuso, almeno di una forma ibrida. La più alta realizzazione che io abbia mai incontrato di questa formula letteraria mi pare essere rappresentata da quel piccolo gioiellino che è Bellas Mariposas, il racconto lungo con cui si interrompe la storia autoriale e terrena del grande Sergio Atzeni.

“Vivere a Cagliari è un’esperienza esaltante, per chi ama la confusione linguistica, la mescolanza spuria di idiomi, i giochi di parole deliranti: spesso […] si parla di un italiano contraffatto, incomprensibile a chi non sia del luogo, tratto di peso dal sardo”, così commentava a ragione lo scrittore, in uno dei tanti articoli comparsi su “L’Unione Sarda”. Atzeni era ben consapevole, come scriveva nel pezzo In che lingua raccontare?, che “la complessità di radici e tradizioni (sardo, italiano, europeo) rende arduo il compito dello scrittore nazionale, ovvero di chi narra la propria nazione cercando un linguaggio personale ma comunicativo. Arduo ma non impossibile, vale la pena di tentare, è la risposta dei sardi che in questi anni tentano la via della narrazione, della letteratura”.

Bellas Mariposas era la realizzazione pratica di questi principi. Nella storia della dodicenne Caterina, che vive nel quartiere immaginario di Santa Lamenera, presumibilmente identificabile con Is Mirrionis o Sant’Elia, le due zone più disagiate della città di Cagliari, è il Novecento con tutta la sua lezione che entra in gioco per raccontare un mondo marginale e marginalizzato della realtà isolana.

Atzeni va spesso a capo, come se si trattasse di una poesia (Era molto tempo che Tonio lo minacciava ma credevo che scherzava/ che lo odia lo so si vede da come lo guarda quando lo incontra e perché cerca sempre occasione di arropparlo di mala manera*), quasi in una strana forma a metà tra la lirica e, a suo modo, la prosa poetica. Il testo, inoltre, sorvola sulla sintassi come in una sorta di ripresa del modello joyciano del flusso di coscienza, in cui a parlare è la giovane protagonista sospesa tra l’ingenuità infantile e una incredibile consapevolezza da persona ampiamente rotta alla vita (se ti fai toccare l’albicocca da bambina finisci come mia sorella Mandarina pringia a tredici anni adesso ne ha venti e ha tre figli batte in casa privata non è lo schifo della strada ma sempre ti devi ciucciare minca purescia di qualche pezzemmerda*). La crudezza di certi passaggi, come quello appena visto in cui Caterina racconta della sorella prostituta, potrebbero far impallidire un qualunque americano alla Bukowski.

La domanda, comunque, non può essere elusa: era necessario scrivere in quel particolare modo? La risposta è sì, se si desidera traghettare l’esperienza del realismo, di un racconto della realtà che voglia dirsi vero, entro il contesto della postmodernità. La fine delle grandi narrazioni teorizzata da Lyotard, a favore di tante piccole voci che si influenzano tra di loro, lo richiedeva. Il sardo di quelle zone, infatti, pensa in quel modo, quasi seguendo una scansione poetica, secondo una lingua oramai spuria che però continua per tradizione a cercare un ritmo stortamente lirico. E lo fa in spregio a qualsiasi stringente regola grammaticale che ne limiti la forza, anzi la piega a quelle mai studiate ma assimilate per osmosi dal parlato popolare. Atzeni riesce in questa miracolosa operazione: far sbarcare il mondo in Sardegna e costringerlo a raccontarla.

Matteo Fais

* “arropparlo di mala manera” significa “menarlo in malo modo”.

*2 “albicocca” è la traduzione italiana di “piricoccu”, termine popolano usato per indicare la vagina; “pringia” vuol dire “incinta” e “purescia” sta per “marcia”, ma indica qui semplicemente una cosa sporca.

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“Solo la fantasia esiste”: ode a Carlo Sgorlon, lo scrittore-sciamano. Perché gli schizzinosi non gli dedicano un ‘Meridiano’?

Premessa. Non sono veneto, riconosco definitive distanze tra Venezia e Vicenza, amo la levigata purezza del ‘Giambellino’ (autore delle più belle ‘Pietà’ della storia dell’arte) e la lucente cupezza del Tintoretto. Facendo la conta degli scrittori italiani che più abbiamo amato, qualche tempo fa, io e Alessandro Gnocchi – che non è veneto neppure lui, viene da Cremona – ci siamo accorti che erano tutti di lì, venuti dal fatidico ‘Nord-est’. Così, ci siamo messi a strologare un libro. Una antologia militante ed enciclopedica di autori di quel lembo di mondo. Infine – incuria mia – il libro non è uscito. Ma le letture sono bellissime. Da quella massa di medaglioni biografici, estraggo, quello dedicato a Carlo Sgorlon, un grande scrittore, che ci ha lasciato dieci anni fa, nel giorno di Natale del 2009. (d.b.)

Nel 1998 scatta il dibattito filologico: chi ha coniato la formula “Nord-Est” per definire quella fetta d’Italia che tiene insieme, grosso modo, Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino Alto Adige? La necessità filologica nasceva per ragioni – va da sé – politiche ed economiche. Quel pezzo d’Italia, infatti, stava dimostrando, in quegli anni, una vivacità economica senza pari. Sembrava quasi uno Stato a sé, l’Italia non più Italia e meglio dell’Italia. D’altronde, l’anno prima, in Veneto, la Lega Nord aveva ottenuto un successo clamoroso. Sul Messaggero Veneto, nel maggio del 1998, intervenì Carlo Sgorlon, nato a Cassacco, micro Comune in provincia di Udine, nel 1930, a sistemare le cose. Ricordò ai fideisti del Nordest di aver costruito, nel 1976, una “antologia che aveva il titolo Racconti di Nord-Est. Il libro fu pubblicato dall’editore Gremese, friulano che opera a Roma, ed ebbe diffusione nelle scuole nazionali. Dunque, allo stato attuale delle mie conoscenze, la parola Nord-Est fu inventata da me, per indicare, come è detto nell’introduzione, il Friuli, che in effetti è il Nord-Est più Nord-Est che ci sia”. Va sottolineato che Nordest era scritto così: Nord-Est. Il Nord, che appena lo pronunci ha l’odore di una abetaia siberiana, fuso con l’Est, cioè con l’afrore d’Oriente. Come legare in sposalizio il dio Thor e Shiva, la furia vichinga e la quiete buddhista. Già nella nozione di Nordest, in effetti, si percepisce una profonda differenza dall’Italia, dall’‘italianità’ dell’Italietta nostrana, che per il mondo è a Sud (Magna Grecia, pizza e mandolino) e a Ovest (la quintessenza dell’Occidente).

Il Nordest – o Nord-Est, marcando i punti cardinali – è un’isola nella penisola. Di questa isola, Carlo Sgorlon è stato l’assoluto cantore, costruendo, lungo l’arco di una trentina di opere, l’epica del Nordest, e in particolare del Friuli. Nel 1998, l’anno della filologica diatriba, era uno dei narratori più letti e celebrati d’Italia. Lo dimostrano, per chi ama gli albi d’oro, i massimi riconoscimenti letterari del paese. Nel 1973 Sgorlon vince il Campiello con Il trono di legno – battendo fuoriclasse come Carlo Cassola, Raffaele La Capria e Giorgio Saviane – successo bissato (cosa rara al Campiello, accaduta solo a Primo Levi) nel 1983, con La conchiglia di Anataj, libro tra i più grandi dello scrittore, che racconta l’odissea di Valeriano, friulano emigrato in Russia alla fine dell’Ottocento e impegnato a costruire l’oceanica ferrovia transiberiana. Nel 1985, per altro, Sgorlon ottiene pure l’inchino della schizzinosa comunità letteraria del Belpaese, che lo omaggia con un Premio Strega stravinto (176 voti per lui, 71 per il secondo, Nico Naldini), dopo due puntate in cinquina (nel 1977 e nel 1979), per L’armata dei fiumi perduti, altro libro imperdibile e imperdonabile, che racconta la vicenda dell’armata cosacca in Carnia, dopo l’armistizio. Anche qui, come sempre, il dato storicamente certo sfuma in favola, in favola croccante e oscura. Agita quasi sempre in un “Friuli trogloditico”, a dettare “una condizione esistenziale immutabile, misteriosa, ricca di zone buie” (Roberto Damiani).

Insomma: non c’era libreria italiana che, fino a vent’anni fa, non avesse bene in vista uno, due, cinque libri di Sgorlon. Lo denunciano le innumerevoli edizioni dei suoi capolavori: più di venti per Il trono di legno e per L’armata dei fiumi perduti. E fino alla fine – Sgorlon muore il giorno di Natale del 2009 – lo scrittore friulano compie, con diligenza artigiana, libri dai titoli onirici e dalle storie inquiete, Il patriarcato della luna, Il processo di Tolosa, Il filo di Seta (sulla vita del grande viaggiatore Odorico da Pordenone, frate minore che nel 1314 si avventurò in Estremo Oriente fino alla corte del Khan), Le sorelle boreali, La malga di Sir (dove, tra l’altro, si narra del massacro, perpetrato dai partigiani ‘rossi’, a danno della Brigata Osoppo in cui militava il fratello di Pier Paolo Pasolini), L’alchimista degli strati… Merito di una facilità narrativa inesausta, di un genio ‘magico’, per cui “l’opera di Sgorlon è frutto di una forte vocazione narrativa, risposta a un bisogno ritenuto istintivo e primordiale nell’uomo, quello di raccontare e ascoltare storie; per Sgorlon lo scrittore è colui che, a guisa degli sciamani delle civiltà primitive, stabilisce attraverso la magia dell’atto del raccontare un contatto con le forme archetipe della conoscenza, con l’inconscio, con il mistero originario, e in questo modo offre all’uomo moderno, perduto nel caos della realtà quotidiana e privo di modelli e di riferimenti, la possibilità di recuperare orizzonti e mete” (Serena Andreotti Ravaglioli). Narratore sorgivo, dalla ferocia fantastica (parole sue: “La realtà è soltanto un’illusione, una fiaba che raccontiamo a noi stessi. Solo la fantasia esiste”), ora è piuttosto in ombra. Parecchi romanzi sono irreperibili, Sgorlon meriterebbe quel ‘Meridiano’ che non gli dedicheranno mai. Come mai? Forse non siamo più abituati a farci conquistare da una storia? Il problema, semmai, pare altro. Sta nella schifiltosità del sistema letterario italico. Anche un critico intelligente come Geno Pampaloni, in calce a un giudizio notevole (“In ogni suo romanzo noi ritroviamo il respiro di saga nordica, il fascinoso baluginio di paesi remoti, di arcane leggende, e sempre nuove avventure mosse da un’irrequieta e infrenabile voglia di vita, il risuonare di cupi rintocchi del destino che insinuano un allarme di tragedia nel festoso tumulto della felicità”), che ci verrebbe voglia di passare le notti leggendo solo Sgorlon, sente la necessità di avvertirci che quella del friulano è una “non-scrittura”, che, insomma, è uno che ‘butta giù’ i capoversi, più impegnato nell’architettare una trama che a gestire gli ornamenti stilistici. Sgorlon, vien da dire si occupa di edificare il palazzo, mica di coltivare i ciclamini sul terrazzo dell’inquilina del sesto piano. Ma è davvero come la mette Pampaloni? Qualche dubbio c’è.

Sgorlon, cresciuto selvatico nella campagna friulana, ha fatto le scuole a Udine, vincendo il concorso per la Normale di Pisa. Si è perfezionato a Monaco di Baviera, si è laureato con una tesi su Franz Kafka, poi pubblicata per Neri Pozza. Riguardo alla sua opera, intrisa di vitalità e di un cupo senso della Storia, che ha mascelle d’acciaio (“Oggi come mille anni fa gli uomini agiscono per amore, per odio, per potere, denaro, prestigio, invidia, gelosia e via discorrendo. Come allora sono spaventati dalla morte, dalla fuga del tempo, dalla fragilità del loro vivere, dal dissolversi dei sogni e delle illusioni. Inseguono gli stessi miraggi, sono affascinati dalle stesse chimere, anche se esse mutano i loro stracci colorati nel guardaroba degli evi e dei secoli”), si sono fatti i nomi di Jorge Luis Borges, di João Guimarães Rosa, di Juan Rulfo, in una stramba consonanza tra la crudezza friulana e le allucinate desolazioni sudamericane. Sgorlon va riletto e soprattutto ripubblicato come si deve. Sapeva scrivere. Senza finzioni intellettualistiche e sofismi in surf nel mondo delle idee. Questo, oggi, pare un difetto. Ma in verità è un lusso.

Davide Brullo

Gruppo MAGOG