Il privilegio dell’indignazione
L'Editoriale
Parigi è sempre Parigi. Sulla guida anti-turistica di Julien Green
Libri
Alessio Magaddino
A vent’anni dalla scomparsa di Norberto Bobbio, forse il maggiore intellettuale italiano della seconda metà del ’900, la sua memoria è tuttora in parte appiattita tra oleografica canonizzazione postuma (proprio l’opposto del dubbio che egli non si stancò mai di raccomandare) e riduzione della sua opera alla mera sfera politologica.
Si tratta di un riduzionismo ingiusto e superficiale perché, se Bobbio fu eminentemente filosofo del diritto e filosofo della politica, egli non lo fu in forma esclusiva e, verrebbe da dire nuotando controcorrente, il Bobbio più grande è forse il filosofo tout court, quello senza altre determinazioni che ha lasciato tuttavia talvolta intravedere tensioni esistenziali che per ovvia ragione non potevano trovare dimora nella preminente dimensione del pensiero politico.
Spiegheremo meglio più avanti questo nostro timido suggerimento.
Intanto è uscito per i tipi di Biblion, all’interno degli Studi Bobbiani, il Dialogo su una vita di studi, resoconto delle conversazioni che il filosofo, quasi novantenne, ebbe nel 1996 con il suo allievo Pietro Polito, che è stato il segretario di Bobbio negli ultimi dodici anni della sua vita e che ora è il curatore dell’archivio e il direttore del Centro Gobetti di Torino.Il dialogo, apparso nel ’96 sulla “Nuova Antologia” e finora mai uscito in volume, è un preciso specchio dell’itinerario intellettuale del filosofo torinese e della pluralità dei suoi orizzonti culturali e un preciso sguardo retrospettivo condotto nell’ estrema vecchiaia.
Se mi è lecita una parentesi personale, fu proprio quello il periodo in cui chi scrive, allora adolescente, ebbe la fortuna di conoscerlo e di parlargli nella sua abitazione di via Sacchi 66 e poi in seguito in altri contesti. Dietro l’austerità e la severità apparente della persona emergevano, soprattutto nel contesto domestico, l’estrema semplicità dei grandi e una curiosità intellettuale ed umana che gli anni non avevano minimamente appannato. La vigoria del pensiero si abbinava nell’uomo Bobbio a un riserbo tutto piemontese, a una ritrosia schiva di qualunque ostentazione.
Le passioni intellettuali, umane e civili erano ben intravedibili ma sempre smorzate e tenute a freno da una sovrana ritenutezza nelle parole e nei modi, così come Bobbio venne esattissimamente quasi radiografato in una pagina di Franco Fortini relativa a un loro comune viaggio in Cina nel 1955:
“Avrà fra quaranta e cinquant’anni. Da tutta la persona esprime, più ancora che la forza intellettuale, un tipo di educazione ben radicato, una fedeltà ai genitori e ai nonni. L’energia delle convinzioni ha, in lui, la sola debolezza di esprimersi, appunto, come energia; senti che le virtù di ordine, di tenacia, di sobrietà mentale, di onestà intellettuale che gli sono ben coscienti. E sarebbero magari accompagnate da una qualche passione pedagogica, non intervenisse a correggerle di tanto in tanto un sorriso, imbarazzato e ironico. È autoironia, ogni qualvolta il discorso si permetta un aggettivo più del necessario, una cadenza appena più appassionata; è imbarazzo, forse timidezza, tentativo appena abbozzato di mondanità e disinvoltura… Il suo moralismo è continuamente controllato, urbanissimo. Costringe alla ammirazione e al rispetto; ma senti che le sue preferenze e i suoi giudizi sulle cose e sugli uomini nascono da un orrore dell’ambiguità e dell’incertezza”.
Introducendo il suo dialogo con Bobbio anziano, Polito nota che dopo la sua morte si è assistito a una sorta di cerimonializzazione della sua figura e del suo pensiero, dando vita artificiosamente a un Bobbio di tutti, “un intellettuale ecumenico a cui da più parti e con opposti intenti si può attingere”.
Inutile dire che tali cerimonializzazioni equivalgono a opere di tassidermia intellettuale e che nessuna operazione più di queste è altrettanto nemica dell’esercizio del pensiero, tanto più per un intellettuale come Bobbio, istituzionalizzato senza sua colpa quando il nucleo più profondo della sua filosofia come della sua pubblicistica fu sempre scomodo anche nell’apertura al dialogo.
Perfino il suo pacifismo convinto ma non assoluto fu divisivo e polarizzante, come quando, attirandosi invece gli strali di molti, sostenne la legittimità della prima Guerra del Golfo, pubblicando anche un libello, Una guerra giusta?, in cui a tale interrogativo rispondeva affermativamente, non tanto sul piano etico quanto su quello della legittimità giuridica. Facili furono perfino le sciocche ironie su un Bobbio guerrafondaio e sconfessore dei propri ideali, quando sempre il filosofo aveva appoggiato il pacifismo ma non il pacifismo astratto e a ogni condizione.
Scomoda fu anche la posizione propugnata da Bobbio già negli anni ’50, quando un libro memorando come Politica e cultura mise in luce magistralmente la funzione dell’intellettuale, quella che Fichte avrebbe chiamato la “missione del dotto”, mai appiattito sulla cultura politicizzata e semmai proteso nella direzione della politica culturale. Il richiamo al dubbio era fatto apposta per scontentare sia i comunisti (e uno degli “interlocutori” polemici di Politica e cultura è Palmiro Togliatti, citato sempre col suo pseudonimo Roderigo di Castiglia) sia altre controparti in cerca di adamantine certezze e di saldi ancoraggi nella pietra dura del dogma.
La legnosa ortodossia marxista non poteva certo guardare di buon occhio un pensatore liberalsocialista che, pur senza negare l’apporto enorme di Marx alla cultura moderna, non concepiva il marxismo come l’indirizzo culturale né prevalente né unico e faceva piazza pulita di certi concetti e categorie come quello di borghesia (già ribattezzato da Croce come un equivoco concetto storico), giudicata come una rete dalle maglie talmente logore da non potere più pescare niente. La politica culturale di Bobbio era scandita in quegli anni dalla assidua collaborazione alla Società Europea di Cultura di Umberto Campagnolo, tesa a promuovere l’universalità della cultura oltre i confini statuali e oltre la logica divisoria dei blocchi contrapposti della Guerra Fredda, con gli uomini di cultura investiti del compito di promuovere la pace e una sorta di dimensione etica comune.
Uno dei punti più interessanti e nodali cui accenna Polito in questo libretto, cenno che meriterebbe di essere sviluppato e ampliato, è il riannodarsi dell’ultimo Bobbio, quello del De Senectute, alla sua giovanile e pionieristica opera di studioso dell’Esistenzialismo, di cui forse per primo scrisse in Italia, nel 1944, ne La filosofia del Decadentismo.
Quando in piena Seconda guerra Bobbio avvertiva lucidissimamente le ambiguità morali e i pericoli delle ricadute etiche sia di una visione ineludibilmente votata allo “scacco” come quella di Jaspers sia dell’“essere per la morte” heideggeriano egli intravedeva come una filosofia non sia semplicemente un inanellarsi di concetti e definizioni, l’ergersi di una cattedrale logica scevra di implicazioni umane e morali. Anzi, per citare ancora Fichte, “la filosofia che un uomo sceglie dipende da che uomo egli è” e ad avere preminenza, nell’ambito filosofico, è proprio la morale rispetto al mero aspetto gnoseologico, la morale come tensione ascensionale nell’autoperfezionamento e nel perfezionamento del mondo (non il mondo perfetto degli utopisti e dei dogmatici, ma il suo opposto, la perfettibilità). L’attenzione, direbbe Dewey, dovrebbe vertere sui “problems of men” anziché sui meri tecnicismi concettuali e il primo discrimine da tracciare fra i veri filosofi e i semplici mestieranti della filosofia dovrebbe consistere proprio in questo.
Speculativamente eccelsi quanto a sottigliezza, Heidegger e Jaspers contrabbandavano però delle filosofie votate per loro natura alla decadenza dell’uomo, al cedimento all’irrazionalismo; a fare le spese della polemica bobbiana è anche Jean Paul Sartre, visto come perfetta incarnazione dell’intellettuale decadente.
Nell’esistenzialismo ci si allontanava dall’orizzonte della trascendenza e da quello del mondo per riparare invece in quello angusto della propria esistenza, in un ripiegamento in cerca unicamente di se stessi, scissi da qualsiasi forma di vita comunitaria articolata. In quell’autoripiegamento esasperato si smarriva il contatto con l’Universale di cui l’uomo vive per ritrovarsi soli, faccia a faccia con l’angoscia rivelatrice dell’abisso del nulla. La libertà dell’essere umano, in questa prospettiva, diventa solo libertà per la morte.
Le ben precise ricadute etiche della durissima critica di Bobbio non nascondono il fatto che quelle torbide filosofie dell’esistenza dovettero comunque esercitare su di lui una sorta di fascinazione, fascinazione superata nell’appello alla dimensione più lucida e domestica di una ragione neoilluminista, con la ragione vista non come una grande fiaccola rischiaratrice che dischiude le “Verità” ma come un semplice lumicino.
Nel libro di oltre mezzo secolo dopo, De Senectute, anch’esso del 1996, Bobbio scrisse forse le sue pagine filosoficamente più belle ed intense, riaffiorando, nel declinare della vita fisica, alla radice prima dell’interrogazione esistenziale, alla riflessione sulla vecchiaia e sulla finitezza. Scambiato corrivamente da alcuni per l’ennesima riproposizione del filone stucchevole degli elogi della vecchiaia, da Cicerone in poi così inflazionati, il De Senectute spalancava invece abissi di riflessione intensissima sul problema dell’esistenza e della morte, aprendosi anche all’ inedita possibilità di problematizzazioni metafisiche.
A un certo punto Bobbio si chiede se la sua fine sarà dovuta al caso, imponderabile, o a una Volontà presente fin dall’ inizio dei tempi e pone drammaticamente l’aut aut insolubile fra il Caso e la Necessità. Caso o Necessità? Bobbio rispondeva di non sapere e di non volere sapere: il Caso spiega troppo poco, la Necessità spiega troppo. E, chiudendo l’anno seguente la propria Autobiografia, constatava amaramente come la vita umana sia ambigua e non ci sia dato nemmeno di sapere se siamo noi i padroni del nostro destino.
Il non credente Bobbio si rivelava nel suo dubitare e nella sua sospensione di giudizio di fronte alle cose ultime a modo suo molto più laicamente religioso sia dei dogmatici della fede che dei dogmatici dell’ateismo.
Alessio Magaddino