Io faccio la parte dello scemo. Insomma, io balocco con i versi e sogno ancora a un audace governo dei poeti, dove le biblioteche sostituiscono le banche e si commerci in liriche sonanti, sonate. Di economia capisco nulla e il denaro mi serve per comprarmi i libri e far campare i figli. Domenico Cortese è giovane, capace (si è perfezionato all’Università di Dundee), e ha shakerato due cose. L’economia e la filosofia. L’economia, dice lui, “è una branca della filosofia, è filosofia che opera nel dettaglio e nel concreto, in quanto è un tentativo di trovare una razionalità nelle regole che muovono gli incentivi e le aspettative che hanno tutti nel produrre qualcosa di desiderato da scambiare”. Su questi presupposti Cortese ha inventato uno spazio pubblico, Filosofia del Debito, in cui mette un po’ di sapienza nel discettare economico. Il sito, con solide basi accademiche (nella ‘Libreria’ vi si consiglia di leggere Adorno e Bataille, Derrida, Dewey e Foucault, Hegel e Keynes), ha un certo seguito soprattutto perché Cortese, che ha anche il talento del divulgatore, è un sano anticonformista. Toglie le fette di salame dai nostri sguardi confortati dagli sciatti dibattiti tivù. Nella dinamica economica, piuttosto, Cortese legge un paradigma della nostra vita, il rispecchiamento dell’esistenza. Nell’intervista (la prima di una serie) io faccio la parte dell’impavido cretino. Lui, Cortese, cerca di dare risposte plausibili ai nostri interrogativi più inquietanti. L’economia, oggi, sembra essere la scienza prioritaria e il denaro è la ghigliottina che ci tortura ogni giorno.
Intanto, ci spieghi cosa s’intende per ‘filosofia del debito’?
Nel mio blog e nei miei lavori do una definizione di “filosofia” che può sembrare ambiziosa: la filosofia è il tentativo di razionalizzare la realtà allo scopo di renderla adeguata al nostro vissuto. Mi ispiro ad autori come i neo-pragmatisti e Gadamer, per i quali la “razionalità” è saggezza nella prassi e capacità di adeguare sé stessi al proprio contesto e viceversa. Ad un solo fine: la felicità. Condividendo il nostro ambiente con altri soggetti ciò si può fare solo massimizzando scambievolezza, cioè massimizzando il potere di negoziazione reciproco (non solo aumentando il valore dei nostri prodotti commerciali ma anche ciò che offriamo emotivamente). Ed è qua che il concetto di “debito” diviene fondamentale a livello esistenziale, come origine del suo corrispettivo economico. In una realtà asimmetrica e contingente, è costitutivo che ci siano sempre discrepanze temporali di potere di negoziazione, le quali rendono alcuni individui più o meno temporaneamente dipendenti da altri. Come direbbe Heidegger, l’esistenza umana è una mancanza, è qualcosa dovuto sempre a qualcos’altro o a qualcun altro, un debito e una dipendenza che essa si sforza a compensare o ripagare. Ecco spiegata la centralità del “debito” nel mio progetto.
Lei ha una idea piuttosto precisa di cosa sia il ‘credito’. Ci faccia capire, però, con quale sistema, oggi, le banche sono disposte a concedere credito. Che senso intimo ha il credito?
Chi si indebita riceve un’“anticipazione di compenso” da parte dell’intera società (dalla quale consuma o investe grazie al prestito). E, soprattutto, l’intera società riceve i frutti del buon utilizzo del prestito al singolo. Il fatto che i creditori oggi siano in gran parte privati fa dimenticare che il modo più razionale di interpretare un credito sia come un investimento da parte di una società che riconosce le più alte potenzialità produttive di ogni individuo. Perciò, ogni debito dovrebbe essere erogato dopo un calcolo di rischi e benefici a livello collettivo, non individuale. Per le banche private è impossibile fare ciò: per l’imprenditore-creditore individuale può essere dannosa una perdita che a livello aggregato sarebbe irrilevante o controbilanciata da uno stimolo frutto di guadagni ottenuti da altri. Inoltre, mercati secondari delle obbligazioni e cartolarizzazioni estremizzano questa mercificazione del credito, il cui valore diventa in funzione delle aspettative di aspettative di altri, perdendo del tutto contatto con il calcolo contestuale di cui parlavo. Questo sistema in particolare, insieme con gli strumenti derivati – scommesse tra due agenti economici, insensibili alle loro esternalità distributive – sono la morte etica nell’allocazione del denaro.
Il denaro sembra essere la misura della scaltrezza. Insomma, chi è più furbo fa più soldi. Non dovrebbe esistere un rapporto tra giustizia, credito, investimento?
Per la filosofia utilitaristica semplice, che in economia risale a Say, il mercato si giustifica da sé poiché il guadagno di ognuno è frutto del suo sforzo per ottenere potere di negoziazione, e l’elargizione di tale potere è frutto del consenso. Nozick ammette al massimo una redistribuzione una tantum delle necessità di base. Anche ignorando come il concetto di consenso unanime abbia senso solo se ognuno ha il controllo sulla piena realizzazione delle proprie intenzioni (il che non è in un mondo caotico e asimmetrico), questa prospettiva non vede la dimensione intersoggettiva e temporale. Le discrepanze di potere accumulate tra i soggetti possono indebolire il legame esistenziale alla base della massimizzazione della propria “produzione”: le aspettative di una reciprocazione adeguata. Il “contagio” di cattive aspettative è ben descritto, in linguaggio non filosofico, in autori come Keynes, Minsky, Kalecki, Schumpeter, Stiglitz. È evidente che l’uso del denaro solo come merce contrassegno di scambi consensuali e non allo scopo di politiche di redistribuzione di potere allontana dal fine di massimizzare la felicità e legittima eticamente l’individualismo e la furbizia di cui parla.
Tutti parlano di ‘debito pubblico’, sapendo sommariamente cosa sia. Ce lo spiega? Soprattutto, ci spiega come si fa a eroderlo nel nostro Paese?
Premetto subito che il paragone che si fa spesso del debito pubblico con quello di una famiglia è molto fuorviante. Poiché la società intera è formata da innumerevoli soggetti che si alternano nella posizione di creditore e debitore di debito pubblico, è normale o persino raccomandabile che l’“anticipazione di compenso” che ho citato prima sia non estinguibile a livello Statale. Aggiungiamoci che un governo potrebbe finanziare tale debito semplicemente con creazione monetaria tramite la Banca Centrale – come tutti i paesi eccetto quelli dell’Eurozona fanno. Se vogliamo proprio perpetrare il paragone assurdo con la famiglia, si può dire che il debito pubblico è come un marito che presta i suoi risparmi alla moglie (o che le promette di “remunerarla”, dandole dei biglietti da egli stesso creati con cui lei può “acquistare” cibo e strumenti da lui) per farle costruire un ospedale per il figlio di entrambi – e ognuno di questi gesti viene contabilizzato come “debito della famiglia”. È un investimento che, si spera, darà i risultati con la salute e la buona occupazione del figlio, che da grande presterà i suoi risparmi per sostenere la salute del padre o costruire un ospedale per suo figlio, e così via. Che famiglia squallida sarebbe se tentasse di eliminare il ricorso a questo “debito” perenne?
L’economia può essere ‘virtuosa’ o è destinata a essere ‘selvaggia’? Esistono limiti alla libera impresa economica (e all’avidità umana)?
Io credo che l’essere umano sia inscindibilmente composto di competizione e cooperazione. Due anime entrambe proficue ma complementari. Quando io strizzo l’occhio alla banca pubblica, agli investimenti in deficit, alla redistribuzione della ricchezza, alle grandi imprese pubbliche e al ridiscutere la liberalizzazione assoluta dei flussi di merci e capitali (cose ormai considerate populiste oggi) mi auguro che l’animo cooperativo della collettività umana ricominci a bilanciare quello competitivo (spesso, abbiamo visto, un gioco a somma negativa). Animo competitivo emblematizzato da istituzioni ormai prese per sacre così come sono, come il WTO e il Testo Unico sul Funzionamento dell’Unione Europea.
Ci spiega cosa sono i fatidici ‘bitcoin’? Una sola? La moneta del futuro?
Per la parte tecnica mi limiterò a dire che il Bitcoin è un tentativo di democratizzare il sistema di scambi: la criptovaluta circola tramite un database “pubblico” la cui correttezza viene controllata potenzialmente da tutti gli utenti. Viene creata nuova moneta come “premio” conferito ai migliori a svolgere questo compito. Ma il problema reale che consegue dal fatto che oggi la moneta è monopolio di determinati enti non è risolto dal Bitcoin. Il 95% dei Bitcoin viene di fatto transato a fini speculativi, in attesa che il loro valore salga per rivenderli. Siamo all’apice dell’idea della moneta come oggetto commerciale in sé, sulla cui vendita si deve lucrare e che può essere acquistata solo nella misura in cui ce la si può permettere. Tutto questo distorce lo scopo della distribuzione della moneta, che non è più effettuata dalla società al fine di massimizzare i meriti produttivi oppure gli incentivi a produrre (tramite la redistribuzione). Questa oggettivazione è manifesta, ad esempio, quando la banche commerciali pongono alti tassi d’interesse sui prestiti, sfruttando così il loro essere monopoliste ed è palese nel mercato secondario delle obbligazioni. Anche nel caso del Bitcoin occorre dunque una regolamentazione Statale.