26 Gennaio 2020

“Hai vinto la mia vita come fosse un trofeo”. Un racconto di Nicolò Locatelli, “Il cimitero del mio io”

Qualche mese fa ero convinto di trovarmi sotto un discreto spicchio di cielo: le cose si succedevano serene e non avevo alcuna aspettativa. Ho trascorso un’estate in cui le uniche preoccupazioni sono corrisposte al lavoro e all’andare a correre sul lungomare tutte le sere. Niente di che, siamo d’accordo. Solo di questi tempi è successo qualcosa per cui vale la pena mettersi a scrivere. Immaginate il mio io composto da colori liquidi, riposti in bicchieri di vetro. Ognuno ha il suo posto. I bicchieri sono pieni fino all’orlo e si trovano in fila per come li ho sistemati. Se ne stanno lì fermi da anni. Riuscite a vederli? Ve lo sto chiedendo perché si sono rovesciati, e dato ciò che è successo in questa visione si potrebbe pensare ai colori ridotti a macchie sul pavimento, contornate dai vetri rotti. Ma le cose non stanno così. Ho voluto sconvolgerne l’ordine io stesso, versando ciò di cui ero composto in linee liquide e oblique. Adesso sul pavimento si trova il mio nuovo io. E ha la forma del tuo viso. Oppure di un luogo in cui posso amarti oltre ogni limite, morte compresa.

*

Stacco la testa dal finestrino e smetto di pensarci.

Quattro persone dentro una macchina – fuori è Ottobre alle diciotto e trenta.

Io, Beatrice, Giorgio e Francesca.

*

Chiedo  — Quanto manca da uno a dieci?

— Moltissimo — rispondi tu.

Il che è buffo. Ed è così perché sto male, ho una faringite estesa fino alle corde vocali. Il poco di voce che esce ha un altro suono – davvero non sembra mia, eppure sono io. E nemmeno Beatrice sta bene. Deve essersi beccata un’otite, dice di avere le orecchie tappate e sentirci poco. Siamo il muto e la sorda. Cose che sembrano impossibili eppure a volte riescono. Ad esempio comunicare.

*

Giorgio è il conducente, Francesca sta seduta sul sedile del passeggero. Io e te dietro, e nonostante lo scazzo del viaggio non riusciamo a smettere di toccarci. Le braccia con le dita, gli zigomi con le labbra, i denti con la lingua. Cose di questo tipo. Giorgio comunque guida compilando playlist di pessima musica, e non se ne rende conto, ma sembra farlo apposta. Francesca invece parla per entrambi. A un certo punto iniziamo a farlo tutti, lasciamo i minuti passare e la strada scorrere.

*

Le ruote dell’Audi si arrampicano lungo stretti tornanti in salita. Ho un’oncia di voce in meno – forse due. Finalmente una casa.

— Chiedi se è questa — dice Giorgio.

Prima di scendere avvolgo la sciarpa attorno al collo.

— È questa? — chiedo.

Il cane, stupido e intirizzito per il freddo, abbaia.

Rientro in macchina.

— Ha detto di no — dico.

Per un attimo succede il silenzio, rapido come una notte di neve trascorsa nel sonno, poi Francesca ride sguaiata, Giorgio dice — Quanto sei idiota, — Beatrice invece sussurra — Sciocco sei sciocco, — e dopo averlo fatto mi bacia. Di nuovo. Ti bacio anch’io e intanto rido, senza voce, perché sono felice.

*

Procedendo verso l’alto ci ritroviamo in un piazzale in cima al monte. Qui sorge l’agriturismo: capiamo di trovarci nel posto giusto perché ad accoglierci c’è una donna dai capelli grigi e l’aria materna. — Siete voi, — dice, — Dato che siete amici vi ho riservato due camere vicine. Seguitemi.

*

Chiudiamo la porta alle nostre spalle.

— Come faceva a saperlo? — dico.

— Erano le uniche libere, ecco perché ce le ha date vicine — risponde Beatrice.

— Infatti.

— Comunque è inquietante.

Si riferisce ad un quadro.

— Lo stacco io.

Metto le ginocchia sul letto e sollevo la cornice dal puntello. Viene via con difficoltà, come se non volesse. Riesco a chiuderlo nell’armadio. Le palpebre vengono sbattute in media quindici o venti volte al minuto. Senza accorgermene lo faccio tra le quattrocentocinquanta e le seicento. Forse mille.

*

— È ora di andare — si accorge Beatrice.

— Vado a bussare?

— Magari prova a chiamarli.

Il numero di Giorgio lo conosco a memoria da sempre. Non risponde mai, neanche stasera. A stomaco vuoto mi innervosisco facilmente.

— Ci siete? — busso.

Nessuna risposta.

— Puttana di quella troia bastarda.

Mezz’ora di digiuno dopo si fanno vivi loro.

*

— Scusate il ritardo — dice Giorgio.

— Sì, scusate — fa eco Francesca.

E sono così spettinati e felici da non poter dire nulla. Scendiamo in paese passando di nuovo davanti al cane, che non ha ancora smesso di abbaiare. — Ha detto che sei un coglione — dico, ma stavolta non ride nessuno. L’imperativo è cercare un ristorante e cenare in fretta, poi precipitarci alle terme notturne.

— Ho trovato questo, può andare? Poteva, infatti stiamo mangiando bene. E alla fine il conto l’avremmo pagato io e Giorgio senza farci vedere, ma data la fretta siamo stati scoperti. Saldiamo davanti a loro. E non sono mai stato così bene – anche se essere in ritardo mi innervosisce. Ma nemmeno sforzandomi d’immaginare qualcosa di bello sarei riuscito a vedere una situazione piccola, forse comune, eppure unica e speciale come questa. Pensarci mi mette ansia: se lo facessi inizierei a rimuginare su ogni singola cosa che potrebbe rovinare questo equilibrio. Ma qualcosa mi blocca. Un bacio. Il tuo sapore di sogno spalmato su una fetta di pane biondo.

*

Bosco di Rocca, il paese in cui ci troviamo, è arroccato sugli Appennini. I suoi abitanti si conoscono da generazioni: da queste parti temono le incursioni dei lupi e la neve alta, gli abitanti hanno consuetudini diverse dalle nostre – ad esempio i forestieri sono le persone non identificabili come il figlio o la figlia di; ecco perché ci guardano con sospetto. E Giorgio, ubriaco, accelera per le stradine come per correre i cento metri in macchina. Sfreccia davanti ai bar, grida qualcosa dai finestrini abbassati e tutti ci guardano male. È proprio qualcosa da lui. Stare al suo fianco ti mette in situazioni del genere. Ma sebbene non si tratti di umorismo sottile riesce sempre a infilartelo sottopelle. Farti sentire bene, abbattere qualsiasi cosa ti renda triste. Smetto di girarci intorno: il punto è questo, Giorgio è davvero buono e riesce a fartelo capire anche in una situazione come questa, dove l’essere buoni non c’entra nulla.

*

— Sono già stato qui — dice a un certo punto.

— Baby, vivevo da solo prima di conoscerti — lo interrompo.

— Cosa vuol dire? — chiede.

Beatrice e Francesca invece capiscono. Capiscono che siamo abituati a fare così da sempre, e che niente di ciò che viene da uno nasce mai per danneggiare l’altro. Nonostante le titaniche differenze dei nostri io. Sorridono per questo motivo, mica perché ho citato il vecchio Cohen e lui nemmeno sa chi sia. Intanto siamo arrivati. L’hotel delle terme notturne è enorme, puntellato di lampioni che sputano aloni luccicanti nella foschia. Vederlo mi deprime. Quante persone sono già state qui, prima di me? E quante ne verranno dopo che me ne sarò andato? (E tu e lei? Ci siete già state anche voi?) Il tempo scorre ogni giorno, permettendo alle cose di accadere, ed è fuori controllo. Sono fuori controllo anche questi dieci secondi in cui non riesco a smettere di pensare. E anche questo mi deprime. Ed è un bene che mi manchi la voce, se così non fosse avrei infinite probabilità di parlare troppo. Ma tu comprendi anche il mio silenzio. Sfociamo nello stesso mare ancora prima di essere sorgente.

— Se così non fosse, non saresti tu — ecco cosa penso.

*

Per raggiungere le terme notturne dobbiamo attraversare la hall.

L’atmosfera è di quelle calde, per famiglie, fatta di gente che scalpiccia dietro ai bambini oppure si riunisce per parlare al telefono. Una discreta percentuale di anziani siede sui divanetti aspettando il nipote, la nuora, oppure la signorina della reception – che in certi casi è la nipote o la nuora, in altri semplicemente la signorina della reception. — Comunque sono già stata qui anche io — dice Beatrice, e questo mi mette ancora più ansia. Dentro ho uno di quegli incendi di quando si fanno tre piani di scale con addosso cappotto, berretto e sciarpa di lana.

Si succedono in ordine cronologico:

La nostra uscita da una porta scorrevole.

L’apparizione di un partenopeo sessantenne dotato di crocefisso d’oro, camicia e panza in fuori, che sbraita al telefono con l’aria da contaballe del rione.

Giorgio a braccia spalancate in segno di sorpresa e gioia celeste.

Un — Uè fratè! — gridato a pieni polmoni e sentimento.

Tre sguardi interrogativi – quattro, considerato quello dell’uomo.

Poi il più grande scivolone della storia: il noumeno di ogni capitombolo, il Big Bang che ha dato origine all’universo delle cadute in pubblico, generato da un passo falso sui gradini di marmo umido. E lui che nemmeno ci prova, a rialzarsi.

— Addio, — dice Giorgio, — Proseguite senza di me.

Ridiamo come degli ubriachi al freddo.

*

Durante la vostra infanzia tu e i tuoi amici siete usciti a giocare per l’ultima volta, ma nessuno di voi si è reso conto che quel momento è stato un addio. Succederà anche a noi? Custodisco la domanda tra le labbra, in bilico come un figlio tenuto in vita da un macchinario d’ospedale. Poi la soffoco, per risparmiare altra sofferenza. Questo perché non voglio conoscere la risposta. Ma “ignoranza” ora è sinonimo di “eutanasia”. E in questo frangente sono stato io a donarle questo senso. Significa che ciò che dico o taccio può cambiare il mondo, plasmare la realtà, farti sorridere o scuotere la testa. Ed è un bene che mi manchi la voce. Ma adoro che Beatrice capisca, escludendo ogni possibilità di farmi sentire frainteso.

*

— Peccato per le terme — biascico, — Più che altro, io sto male. Mi dispiace per voi.

— Infatti — dice Francesca — Figurati comunque, non preoccuparti.

— Andiamo a bere qualcosa? — chiede Giorgio.

*

Ci ritroviamo tra le mura di un pub che aromatizzate alla vernice. Beatrice gira una sigaretta ed esce: decido di fumare anche io allora la raggiungo e ritrovo, circondata dall’atmosfera ripetuta ed eterna che si respira qui – eppure tutto sembra allo stesso tempo già trascorso e rimpianto. Le vecchie generazioni di Bosco di Rocca guardano al passato, mentre le nuove ripetono — È sempre la stessa storia, — fino al giorno in cui ogni cosa diventa diversa. Allora si accorgono che il vecchio panettiere ha chiuso, che dove c’era il bar con il biliardo adesso vendono sigarette elettroniche. E che i loro genitori hanno troppe stanze vuote, così fanno diventare casa un agriturismo. Poi si accorgono anche che quel sampietrino mancante in piazza è stato sostituito da uno un po’ troppo chiaro, che non si può fare a meno di notare ogni volta.

*

Il giorno dopo mi sveglio solo.

Quando mi sveglio per la seconda volta sento la porta chiudersi.

— Buongiorno — sorride Beatrice, — Ero andata a prendere la colazione.

Il centro del paese dista più di venti minuti a piedi, e la strada di ritorno è solamente salita. Ma sorride. Abbracciati, lasciamo che passi del tempo.

*

Busso alla loro porta.

— Siete svegli? Ho la colazione.

— Sei andato a prenderla tu?

— Ci è andata Beatrice anche per voi — rispondo a fatica, — Io dormivo.

— Sposala — grida Giorgio, — Comunque torna fra un po’. Stiamo dormendo.

Rientro in camera.

— Dormono ancora? — chiede Beatrice da sotto le coperte.

— Figurati… Verrà lui.

Ci guardiamo e ridiamo per il solo fatto di essere insieme. La abbraccio più che posso e se lo prende tutto. Mi abbraccia in risposta, ha questo modo di farlo che genera un incastro perfetto. Poi mi butto in doccia. Sento dei rumori – è Francesca, le nostre camere sono troppo vicine. Torno a letto il più in fretta possibile.

Un quarto d’ora dopo sentiamo bussare.

— Posso entrare? — chiede.

— Certo — dico, aprendo— Io vado di là da quel somaro.

*

Giorgio è nudo sotto un lenzuolo che a stento gli raggiunge l’ombelico.

— Siediti fratello — dice.

— Se mi siedo su quel letto rimango incinta. Ecco la colazione.

Gli lancio un sacchetto da forno e torno sui miei passi.

Rido senza farmi vedere.

— …comunque solo noi possiamo venire fin qui per andare alle terme, poi presentarci davanti all’ingresso mezz’ora prima che chiudano — sta dicendo Francesca, — Ah comunque grazie per la colazione.

— Cosa vuoi che sia. Ne ho approfittato per una passeggiata — risponde Beatrice.

Sto male comunque, sono un concentrato di batteri. Tossisco, scatarro, sputo e spernacchio. Gracido, rimbrotto e bestemmio. Ma al tempo stesso non sono mai stato così bene, e per stare ancora meglio mi avvicino a Beatrice. Francesca se n’è appena andata. Le accarezzo i capelli mentre parla, fino a farle scorrere le dita sulle guance, poi le guance e la bocca. La adoro in silenzio.

*

Scendiamo di sotto – l’impressione è di trovarci soli in una casa di montagna – e poi usciamo fuori, dove non si può fare a meno di notare qualcosa che forse è il più grande monumento di queste parti, un incrocio tra Stonehenge e un castello medievale costruito per qualche strana ragione nell’Ottocento.

Immagino uno scenario secondo cui siamo gli ultimi esseri umani sulla Terra, approdati dopo un lungo e pericoloso viaggio nell’unico luogo in cui è possibile scongiurare l’Apocalisse, il disastro che annienterà l’umanità. Dobbiamo solo raggiungere la collina… Ma qui si interrompe la mia visione, interrotta dalle voci di Giorgio e Francesca, vestiti come se dovessero andare al matrimonio della Regina Elisabetta. È come vederli ridere a una festa – e sono proprio belli, questo va detto.

Carichiamo le valigie nel bagagliaio e una volta seduti in macchina, dopo essere scesi dalla montagna, perdiamo tempo a cercare parcheggio. Siamo arrivati in centro. È sorprendentemente simile a ieri notte, come se oggi non fosse giorno e ieri non fosse stato buio. Seduti ad un bar bevo più di quanto possa permettermi mentre vi ascolto parlare: capisco di amarvi, in questo momento, più di quanto abbia mai amato nient’altro. Ho gli occhiali da sole e gli occhi rossi. Nessuno se ne accorge. Neanche tu. Vuol dire che sono riuscito a tenere qualcosa per me. È la parte più difficile. Perché, se davvero ti dicessi tutto, ogni cosa, lentamente ti allontaneresti.

*

— Facciamo una passeggiata? — chiede Francesca — Devo smaltire.

Inevitabilmente ci ritroviamo davanti al posto notato da me e Beatrice poco prima.

Da vicino scopriamo di cosa si tratta.

*

Il cimitero è immenso, simile al giardino di una villetta inglese di campagna con i fiori regolarmente innaffiati dal giardiniere. Ogni tomba una croce di pietra, nome cognome e fotografia del defunto. Mi sento profondamente connesso a ogni cosa senza che nulla catturi la mia attenzione. Sono profondamente connesso a questo posto. Semplicemente gli appartengo. Gli altri sono tornati all’uscita. Sento che se non li raggiungo ora sotto ad ogni croce spunterà una mano, un braccio e poi il resto del cadavere. Mi prenderanno con loro. E lo so che è una sciocchezza, ma affretto il passo ugualmente. Accelero verso lo stradino, seguendomi la mente: sull’ultima lapide a sinistra trovo incisi il mio nome e cognome. Sotto, una fotografia che mi ritrae. Non ho idea di come possa essere successo ma la cosa non ha alcuna importanza. La morte è parte integrante della vita stessa – soltanto da morti si può capire quanto è bello essere morti. Una frazione di secondo non ha nulla da invidiare all’eternità, quando si è morti. E l’ultimo vicolo cieco della mia strada è stato questo, delle circostanze che ho raggiunto insieme a voi. Era il vostro compito. Tutto qui. Me ne rendo conto solo ora che sono morto: è stato merito vostro, perché in queste ultime ore mi avete fatto sentire talmente bene da non riuscire a dirvi grazie. Sì perché non ci riuscirò mai, questo lo so. È come sono nato e non posso cambiare. Scordatevi dei ringraziamenti da parte mia – specialmente se li meritate –, li spreco solo per cose irrisorie. A chi dovrei essere grato non dico nulla. Ma anche questo modo di fare ormai è passato – defunto alla nascita del mio nuovo io. Lo capisco quando arrivi tu – che sei già arrivata – mi prendi le dita e mi porti fuori. — Andiamo, — dici, e sei talmente dolce, geniale, stupenda oltre ogni impossibilità e parte di me da aver vinto la mia vita come se fosse un trofeo.

Nicolò Locatelli

*In copertina: Richard Avedon, “Charlie Chaplin. His Last Day in America”, 1952

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