Forse agiva così: agitando il fato. Con quella scaltrezza degli istinti che altri chiamano ingenuità. L’innocenza dei corsari onirici, che credono nel mondo e ignorano il mondano. Dal 1956, Boris Pasternak cominciò a sparpagliare manoscritti del Dottor Živago, come fossero primavere manomesse, l’opera della vita, a suo dire, un po’ ovunque. Un po’ per far circolare il testo oltre cortina, in Occidente – dove da anni vivevano i suoi familiari –, un po’ con l’entusiasmo grigio del neoconvertito, di chi fa testamento, certo della fine, prossima, alle calcagna. Inebriato dal disastro.
Si affidava, Pasternak – a volte a sconosciuti, a volti in veglia, che andavano a fargli visita. Confidava nel fato.
Era certo che quel romanzo fosse una pietra miliare, onere e icona. Così ne scrive, nel giugno del 1955, alla cugina, Ol’ga Fréjdenberg:
“Questa è un’opera che scrivo solo per la mia anima, che non vedrà luce mai, oppure soltanto in un lontano futuro, ossia che non è in rapporto con una reale necessità o con delle scadenze di un editore, che non costituisce per me una fonte di guadagno, ma, al contrario, la scrivo a lunghi intervalli, spasmodicamente, con danno dei lavori che faccio su ordinazione e in perdita, così comprenderai che la trasformazione di questo sogno in realtà può avvenire solo a prezzo di forzate misure di temporanea rottura con tutto ciò che mi circonda, misure che non hanno nulla a che fare con la presunzione”.
Solitudine, libertà dal giogo economico, rottura con ciò che ci circonda: i criteri perché l’opera sorga. Pasternak lavorò al Dottor Živago per dieci anni; come si sa, il romanzo esce in prima edizione mondiale per Feltrinelli, nel novembre del 1957, in modi rocamboleschi (ricostruiti da Paolo Mancosu in Živago nella tempesta, Feltrinelli, 2015). Il romanzo superò le attese dell’autore, diventando il caso editoriale del secolo – con l’intervento, un po’ pacchiano, della Cia –, indipendentemente dal suo reale valore letterario. Introducendo la versione del Dottor Živago pubblicata nella Nuova Universale Einaudi (1968), Eugenio Montale, glissando sulla poesia di Pasternak – altissima – scrisse che quello era “il libro di uno spirito illuminato, di un grande russo che guarda all’avvenire senza mai rinnegare la sua terra e il suo popolo, e tuttavia senza lasciarsi invischiare dalle miserie del tempo presente”; che, insomma, “è uno di quei libri che possono dar tempo al tempo”. Tutto – e niente.
Un anno dopo l’edizione italiana, nel giugno del 1958, fu Gallimard a pubblicare la propria versione de Le Docteur Jivago. Il romanzo – che uscì senza il nome del traduttore – era stato tradotto da un club di quattro esperti. Tra questi, ricordiamo Michel Aucouturier, grande traduttore dei russi – di Lev Tolstoj e Nikolaj Gogol’ in particolare – e Jacqueline de Proyart. È proprio lei, Jacqueline, slavista di sicuro lignaggio, viso temprato nel ghiaccio, poco meno che trentenne, a ricevere il manoscritto del Dottor Živago, rivisto, nel gennaio del ’57. A lei, tra l’altro, Pasternak affiderà i diritti delle sue opere e la loro gestione, sottraendole a Feltrinelli. “Ella mi è spiritualmente vicina, io le ho potuto affidare il compito di sovrintendere all’aspetto letterario e filosofico di molte faccende e questioni”, scrive il poeta a Sergio d’Angelo, nell’aprile del 1959. Ne seguirà un lungo contenzioso tra la de Proyart e Feltrinelli: la donna, nel ’58, traduce per Gallimard l’Essai d’autobiographie di Pasternak, uno straordinario saggio autobiografico, in prima edizione mondiale e in versione più aggiornata, corretta, rispetto a quella edita poco dopo in Italia.
Il lettore italiano dell’epoca avverte l’eco della diatriba editorial-diplomatica tra Italia e Francia e delle sue dubbie nebbie: nel segnalibro inserito nell’edizione dell’Autobiografia di Pasternak (di pregio, in cofanetto), uscita nel dicembre del 1958, Feltrinelli si prende una rapinosa vendetta su Gallimard e la signora de Proyart. In Francia, scrive l’editore, è uscito soltanto un “abbozzo d’autobiografia, con una diversa e succinta conclusione”. Al contrario, “l’editore italiano pubblica l’intero libro, come fu originariamente pensato da Pasternak e dalla Casa editrice sovietica di Stato”. Al colpo di fioretto segue la coltellata: “Varrà la pena notare che la presente traduzione italiana, più fedele e puntuale, ha in molti punti emendato la traduzione francese…”. In appendice, è antologizzata una selezione di “nuovi versi” di Pasternak, tratti da Quando rasserena, nella versione di Bruno Carnevali, Mario Socrate e Juri Kraiski. Feltrinelli si riappropria così di Pasternak, il cui fantoccio viene letterariamente sbranato dagli editori europei. Che una figura tanto fantomatica, a tratti anodina, disinteressata, presa in un suo silvano sonnambulismo, tra corriere stellari e funamboliche nevicate, sia diventata l’emblema della dissidenza al sistema sovietico è un paradosso – anzi, un sortilegio biblico.
Da tempo, Pasternak aveva confidato a Brice Parain, consigliere editoriale di Gallimard, il sogno di vedere il suo romanzo in lingua francese. D’altronde, il francese era la seconda lingua di Pasternak – quella in cui scrive, ad esempio, a Feltrinelli – e Parigi il luogo in cui, più di vent’anni prima, aveva incontrato, pur travolti dall’epoca, sonnambuli, Marina Cvetaeva.
Sempre grato a Feltrinelli per avergli pubblicato il romanzo, Pasternak non lesina critiche all’edizione russa del 1959, approntata in fretta e furia dall’editore italiano: “brulica di spiacevoli errori di stampa, non riconosco quasi il testo che ho scritto”, scrive alla de Proyart. È invece entusiasta delle edizioni francesi dei suoi libri: così il 18 agosto del ’58, sempre a Jacqueline de Proyart: “Mio buon genio, mio angelo guardiano, se stata tu a occupartene! Che gioia! Ti sono obbligato per il resto della vita! Chi ha tradotto? Ho iniziato a piangere per il trasporto che impregna ogni definizione, ogni formula. Tutto è reso in modo semplice, pago, naturale! Che effetto sbalorditivo, addirittura superiore alla lingua del mio romanzo!… Tutto è stato fatto esattamente come desideravo e come mai avrei potuto attendermi. Come ho detto a Hélène [Peltier-Zamoyska, amica, accademica, il tramite tra Pasternak e la de Proyart, ndr]: semplificare, mantenere le sfumature, le originali intonazioni. E non aggiungere bellezza esornativa. Meglio, piuttosto, tagliare, omettere, lasciare le difficoltà… La traduzione, insomma, è sublime”.
Il dottor Živago, così, diventa un affaire francese: Albert Camus ne è entusiasta – “Questo è un libro che resuscita il cuore russo, schiacciato da quarant’anni di slogan e di crudeltà. Živago è un libro d’amore. E questo amore si diffonde su tutti gli esseri… Il coraggio di Pasternak è aver riscoperta che questa è la vera fonte di ogni opera, e di averla fatto sorgere in mezzo a quel deserto, laggiù…”, scrive nei taccuini, nell’estate del 1958.
Negli anni, Gallimard pubblica le lettere di Pasternak à mes amies françaises (1994; a cura della de Proyart) e Le dossier de l’affaire Pasternak (1994), la storia, da romanzo, della pubblicazione del romanzo, facendo, in qualche modo, del poeta russo uno dei propri autori fondamentali. Va da sé, dunque, che la nouvelle traduction dello Živago, uscita pochi giorni fa da Gallimard, a cura di Hélène Henry, “sessantacinque anni dopo”, abbia le stimmate del caso editoriale. Ne dicono di una traduzione riuscita, bella: qui diamo conto delle pagine della traduttrice e del primo capitolo dello Živago. Già nel 2007, per il cinquantenario dalla prima edizione, Feltrinelli aveva pubblicato Il dottor Živago nella versione della bravissima Serena Prina, che avrebbe sostituito quella antica di Pietro Zveteremich. Eppure, io resto ancorato alle poesie di Živago tradotte da Mario Socrate – le cui opere sono scompare da anni –, a quella ispirata levità:
“Ma l’ordine degli atti è già fissato,
e ineluttabile è il viaggio, sino in fondo.
Sono solo, tutto affonda nel fariseismo.
Vivere una vita non è attraversare un campo”.
Diceva di una vita “semplice, laboriosa, senza nome e ignorata da tutti”, Pasternak, alla cugina Ol’ga. Che tutto sia un’attesa, una tensione senza attestati, e mai la verità – che è, sempre, un’ipotesi cucitaci addosso dai detrattori –, è ovvio. Conforta questo slancio, il bianco barlume – vivere, poi, è ovvio, è questo compromesso tra la falce e la fiducia.
**
Nota sulla traduzione
Scritto tra il 1946 e l’agosto del 1955, Il dottor Živago fu rifiutato dalle riviste sovietiche nel 1956 e pubblicato per la prima volta in traduzione italiana da Feltrinelli, a Milano, nel 1957. Nella primavera del 1958 apparve per Gallimard, nella collezione ‘Du monde entier’, una traduzione in francese, non firmata[1]. Seguiranno traduzioni in molte altre lingue.
Nell’agosto del 1958 apparve nei Paesi Bassi una edizione pirata del testo russo. Feltrinelli stamperà dunque un’edizione russa del romanzo, nel gennaio del 1959, a Milano. Esistevano un vasto numero di dattiloscritti in russo, corretti da Pasternak. Dopo la sua morte, se ne trovarono diversi, sparsi tra i membri della famiglia, i tanti amici a cui ne aveva inviato una copia, l’Archivio letterario di Mosca. Alcuni di questi erano stati sequestrati e poi restituiti. Il figlio di Pasternak, Evgenij, la moglie Elena e il giovane storico Vadim Borissov, hanno lavorato alla redazione del testo russo definitivo. Questo testo fu pubblicato nel 1988, con la prefazione di Dmitri Likatcev, grande storico dell’antica Russia, nei primi quattro numeri della rivista “Novy Mir”. Due edizioni in volume sono apparse nel 1989 per le due principali case editrici di Mosca.
Questa nuova traduzione segue il testo e la versione del volume terzo delle opere di Pasternak, edite in cinque volumi (Moscou, 1990), secondo il testo stabilito da E. Pasternak e V. Borissov.
Il compito del traduttore non è stato facile: la storica traduzione in francese era stata lodata da Pasternak. In una lettera a Brice Parain dell’8 agosto 1958, il poeta è estasiato per “la nobile semplicità, accresciuta nella forma francese, resa definitiva”. “La traduzione esprime l’impresa di un gusto dall’ingegno ardente, è inimitabile, celestiale”.
In Pasternak, sincerità fa rima con semplicità. La “semplice cronaca” della vita del dottor Živago si inscrive in questo sforzo teso verso l’evidenza. Una nuova traduzione dovrà, soprattutto, suonare chiara, rendendo la linea sintattica della narrazione più fluida possibile. Ma chiarezza non vuol dire rapidità: Živago è un libro lento, che ha dimenticato i torrenziali slanci giovanili di Mia sorella la vita e quella struttura esclamativa. Bisogna far fluire la sintassi senza affrettarne il ritmo.
Fare i conti con la complessità intrinseca della percezione di Pasternak. Pasternak vede tutto e, come Lara, ama nominare le cose: gli oggetti della casa, quelli in strada; le cose della guerra e quelle della natura. Gesti, movimenti, sequenze, spazi sono dettagliati con precisione. Pasternak percepisce le sfumature dei colori, il modo in cui si modificano, si sovrappongono, si mescolano. La medesima esigenza riguarda la resa dei suoni: scosse, squittii, sciami di topi, cinguettii di uccelli nella foresta. Spesso manca la parola esatta, allora è necessario ricorrere (come per altro faceva Pasternak, in russo) al ceppo dei regionalismi, al termine specifico.
Questo mondo, descritto nel dettaglio, si trasforma ulteriormente quando viene integrato nel sistema metaforico della poesia di Pasternak: la sintassi si dirama, si ingarbuglia; il lessico si eleva, si accende; il verso della frase crolla o rallenta. La natura prende l’iniziativa e la traduzione non deve cancellare le tracce della sua attività: sono l’acqua, l’albero e l’uccello che operano, sperimentano, decidono e parlano, governano il verbo e subordinano i fatti dell’uomo alle loro leggi. Anche i luoghi parlano, hanno una loro grammatica.
L’enumerazione del mondo, laddove si sparpaglia, incontra uno dei temi centrali del romanzo, quello della distruzione, da parte dell’epoca, dei legami istituzionali e personali. Per questo, bisogna evitare di sintetizzare le differenze ma enfatizzare, al contrario, la diversità, l’esplosione, la lotta tra gli opposti, la varietà, senza paura di confondere i registri, senza confinarli in un verbo unico.
Ciò è particolarmente vero per i linguaggi dei protagonisti. Le loro lingue. In questo, Il dottor Živago è un autentico rompicapo verbale, dove gli idiomi più improbabili convivono accanto alla lingua convenzionale. Pasternak inventa ovunque, trae dal nulla un linguaggio che attribuisce a mille parlanti diversi, a cui è difficile attribuire un’origine locale, sociale, etnica, e che designa l’inventiva dei semplici (deformazioni, inversioni, neologismi) e allo stesso tempo la distanza che li separa dai cittadini istruiti. Il traduttore è libero di imitare, legato com’è – qui sta il suo arduo ruolo – a quella fantasia linguistica.
Ogni nuova traduzione deve dunque preservare la leggibilità, penetrando negli intarsi e negli interstizi della lingua di Pasternak, frutto di una creatività inesauribile che ha la sua fonte nell’immaginazione lirica.
Hélène Henry
*
Il dottor Zivago. Capitolo uno
L’espresso delle cinque
Andavano, andavano cantando Eterna memoria, e quando si fermavano sembravano cantare ancora, trascinati dall’ispirazione, dai cavalli, dalle gambe e dai soffi del vento.
I passanti si scostavano al cospetto del corteo, contavano le corone, si segnavano. I curiosi, mescolati alla processione, domandavano: Chi seppelliscono? E gli veniva risposto: Živago. Ah, è così, ora è tutto chiaro. Ma non lui. Lei. È lo stesso. Che Dio abbia cura della sua anima. Un sontuoso funerale.
I minuti passavano, sgranati, uno ad uno, senza ritorno. “Del Signore è la terra e ciò che contiene, il mondo e i suoi abitanti”.
Il prete armò un segno della croce, gettando un pugno di terra su Marija Nikolaevna. Cantavano: Con gli spiriti dei giusti. Poi tutto accadde terribilmente in fretta. La bara fu chiusa, inchiodata, calata. Una pioggia di zolle tamburellò sulla tomba, riempita con rapidità da quattro vanghe. Si formò un tumulo. Vi si arrampicò sopra un ragazzino di dieci anni.
Soltanto l’ebbrezza e il torpore che marcano la fine dei grandi funerali potevano far supporre che il piccolo volesse dire qualcosa, lì, assiso sulla tomba della madre.
Alzò la testa, vide le distese autunnali e le cupole del monastero – era distratto. Il volto, con quel naso camuso, si scompose, si deformò. Tese il collo. Il lupo, quando muove la testa a quel modo, è pronto a ululare. Ma il bambino si nascose il viso tra le mani, scoppiò in lacrime. Una nuvola improvvisa gli sfregò le mani e il viso con il suo scroscio gelido. Un uomo, indossava un cappotto nero dalle maniche strette e arrotolate, avanzò verso la tomba. Era Nikolaij Nikolaevič Vedenjapin, il fratello della defunta, lo zio del ragazzino in lacrime, un prete sconsacrato. Si avvicinò al ragazzino, lo trascinò via, lontano dal cimitero.
Boris Pasternak
[1] La brevità dei tempi editoriali ha imposto un intenso lavoro a quattro traduttori (Jacqueline de Proyart, Hélène Zamoyska, Louis Martinez e Michel Aucouturier). Questa traduzione è stata ripubblicata da Gallimard in diverse collane (Folio, 1972; Bibliothèque de la Pléiade, 1990; Quarto, 2005). Le ultime edizioni sono apparse nella revisione complessiva di Michel Aucouturier.