14 Luglio 2023

“Come un senzatempo”. Discorso sulla poesia di Nicola Bultrini

In origine era protezione e armonia, il ventre materno ad avvolgere nel suo vibrante paradiso ogni abbozzo di esistenza. Poi è stato l’esserci, come singoli scagliati nella moltitudine, chiamati a esistere tentando identità, dicendosi “uguali eppure differenti”. È così, nell’approdo al corpo, che prende partenza il più recente lavoro in versi di Nicola Bultrini (Vetro, Interno Poesia Editore 2022).

Il poeta rievoca la giovinezza accogliendone i ritmi e le fluide geometrie, il vissuto che si distende in una fotografia, in una ricorrenza; e gli sperperi incantevoli di urbani, interminabili pomeriggi d’estate. Inventari di rimpianti e, al contrario, d’inattese gioie: quanto sorprende la vita nel ripercorrere la bellezza delle stagioni: opera sconfinata e lieve del ricordo, che rende dolci persino le rese, tenero il bersaglio mancato.

E questa felicità inscritta nelle ore, che prende forma solo a ritroso, “riflesso eterno” di istanti abbozzati e ridenti: aerea gioia che si cela al presente, ma è spillata al petto dall’intensità dei sensi.

Attraversare la vita con un poco di garbo, e questo è tutto: ascoltare quieti, esauditi, trovare bellezza nell’altro; e attorno, nelle cose. “Tenere il giardino almeno/ decente” con cortesia del cuore: semplice attitudine che ogni cosa volge al suo centro, e permette alla realtà e ai destini, pur mai compresi, di disporsi nel proprio ordine naturale, dolcemente. Al passato “di fiati dolci e struggenti/ come un senzatempo” il poeta tenta l’attuale controcanto del possibile: di nuovo guardarsi e riconoscersi tra esseri umani, nell’alleanza di restare con grazia. Qualcosa che sia ancora ideogramma d’amore: che pratichi il fare, l’aprire, il condurre.

Una misurata speranza pervade l’opera di Nicola Bultrini, facendola risonante di miti persuasioni che acconsentono alla verità con riguardo:

“Lo vedi dal porto il temporale
un’alchimia sul mare all’orizzonte
l’attesa di tornare in questa forma.
La vita si rinnova a fine estate
un calendario l’onda senza misura.
Che Dio sia essenzialmente
tempo mi chiedo, che
è l’ultima cosa che rimane”.

Come se, superata la vanità e la durezza che sempre ci addolora, la bellezza trovasse varchi ad altre stanze, e possibilità più alte, nell’armonia che tutto aduna e ricrea.

È saldo il bene, sembra dire il poeta, è fermo. Attende immobile il frangersi delle avversioni, delle recriminazioni, di cui reprime l’onda con volto ampio e frontale, tenace nella pazienza. Ed è antica, infantile la scelta originaria: “per esempio un bambino sulle scale / sorride incerto se abbracciare”; quella via così intrapresa coltiva il gesto primo di “fare prospettiva in uno slancio” e diviene attitudine peculiare, nitidezza di creatura precisa, nel serio ufficio del bene.

L’impatto quotidiano è quello con la drasticità di un mancato sguardo, di un negato saluto: l’indifferenza cova inimicizia, ciò che nei cuori non vibra e non traspare fa opacità, opposizione allo Spirito:

“Poi la gente smette di salutare
all’improvviso. Persone che incontravi
volentieri le guardi e pensi sarebbe
bello, prima di rincasare.
A volte si dimentica senza motivo
si perdono pezzi, in distrazione.
Ma tu per non tradire, fai silenzio
è un mondo cavo, lascia stare”.

Laddove si arresta il flusso della fratellanza il male germina silenzioso: è l’apatia di chi rimane nel reticolo dell’immaginazione – il proprio ego che flette e deforma ogni cosa – senza sapersi posare in attenzione: senza saper tentare il gesto alato del dono.

Gli altri esistono davvero, secondo Simone Weil è questo il punto su cui soffermarsi in silenzio, a cercare percezione leale e purissima. Concorre ogni essere umano – ogni vivente, con la sua presenza – alla nostra rappresentazione del reale e di noi stessi: delinea e conforma, nel limitarci. Chiara e conscia dev’essere la percezione dell’altrui esistenza, anche quando sovverte o disturba la prospettiva primaria, innata o desiderata, della nostra preminente oggettività:

“Stavano gli immortali sdraiati
sotto al muro del Verano, solo conforto
il tepore dei morti. Incorruttibili
miserandi stavano ed erano non visti
non considerati […] Queste cose le sapete tutti, gli altri
sono l’esempio, di come siamo
non siamo, vorremmo, scongiuriamo”.

Nondimeno c’è una grazia distratta nello scivolare delle cose, che si orientano piano al crocevia, al possibile mutamento: spesso è impercettibile la direzione, ma intrinseca, risoluta: sia crescita o attenuazione, negazione o conferma: che si dispiega obliqua, inattesa. Non è assolutezza o permanenza il portato della vita umana, ma è forse questo stupirsi ancora, questo acconsentire alla perizia indecifrata che ci conduce:

“La grazia è di cose che non hanno
attenzione. Le cose appoggiate
animali in attesa che guardano.
La storia è l’ombra di un vetro
ma noi possiamo ancora imparare
quando ogni incanto sembra perso
si può tornare, fare apprendistato.
Una certa luce, come di pomeriggio
le domeniche di polvere, poi
l’aria di terra e finalmente nevica”.

Già in La forma di tutti (Capire Edizioni 2019) l’antidoto all’indifferenza era invertire la prospettiva, facendo evangelico scandalo (Mt 5: 38-48): nel moralismo dilagante, volto a celare il gelo che ottenebra molti cuori, lo sguardo di Bultrini sull’altro è silenzioso e commosso, sincero: “Erano tutti in fila / scatole, buste e bottiglie / nei carrelli, le braccia conserte / qualcuno lungo i fianchi, gli occhi / alla cassiera che taceva. […] Non riesco a raccontarti / la pazienza che commuove // sfumano i bordi / quanto più ti avvicini”.

Siamo un flusso di respiri in un contesto di rimandi e segnali che accennano senza dire, sul margine costante di un epilogo. L’assenza di pratiche certe, di sicure protezioni impone un ritorno all’essenza di essere vivi, di reinventarsi vicini; consapevoli che imperfezione e caducità sono la quota angelica che ci spetta, innocenza in bilico che pervade la materia: nel suo educarci alla morte lentamente, con ritmo quotidiano: “Questi corpi invecchiati / trascinati d’agosto lungo la battigia / carni stanche / appese a ossa curve / ondeggiano seguendo la marea […] Governare lo spazio / è un’illusione // ma lasciarsi lavorare / dal tempo, madre mia, / semplicemente esistere / è un evento sublime”.

In questo scenario l’operosità ha valore in sé stessa, non è finalizzata al suo prodotto: l’opera è nel gesto, l’amore è nel muoversi dei corpi, delle mani che plasmano senza nulla possedere. L’intelletto non dà diritti né preminenze: ogni fiato umano è particella adesa al suolo, scandita dai giorni, incurvata da fatiche e distanze. Tuttavia non siamo soli, se facciamo quiete della nostra esiguità, lasciandoci guidare: “È vero, puoi ripetere a mente / ogni pista, recitare a memoria / l’altezza delle cime // però la quota perfetta è in basso dove / uno spirito ti guida in terra piana”.

Carpire qualche bagliore tra le ombre, guardare l’altro, decifrare il proprio compito: silenziosa laboriosità di chi ancora crede che il mondo si fa radicandosi nella fatica e nel silenzio, tenendo ferma la rotta e franco il cuore:

“Hanno ginocchi di pietra
polmoni impetuosi
braccia lunghissime e mani profonde.

Sono gli uomini del mondo dei sogni”.

Scrivere di guerra e reclusione per mostrarne il rovescio: Bultrini ha fatto anche questo, nel suo toccante lavoro: Con Dante in esilio. La poesia e l’arte nei luoghi di prigionia (Edizioni Ares 2020). Le grandi figure di cui il poeta, qui saggista, ci racconta sono anime piene di dignità, che si schiudono sovrane, sopra i fili spinati e i liquami del campo di prigionia: larve inscheletrite, poderose di coraggio che si fa inventiva, ingegno di sopravvivenza; fede che si àncora alla cura dell’altro più fragile: con caparbia, ardita tenerezza.

Anime libere, che declamano il “giornale parlato” la sera nelle baracche, per tenere accesi e vivi i compagni, stornarne i pensieri dall’orrore; che celano rudimentali macchine fotografiche per fare documento e testimonianza; che scrivono poesie nel rischio, nello spavento – ricordare qui l’Ungaretti di Porto sepolto è cosa affine e doverosa –, sino a un istante prima della fucilazione; che suonano musica classica scalzi nel gelo, con strumenti di fortuna; che leggono Dante come anche Osip Mandel’štam faceva, e persino lo rielaborano e riscrivono in forma satirica: la Commedia è il canto di esilio e ritorno, salmo teso alla salvezza, amata preghiera. Così il proverbiale cinese antico, in fila per la ghigliottina, leggeva assorto, e in ogni rigo trovava profitto: il volo dell’anima solleva dagli inferni del corpo, leva dai ceppi, dilata in spirito.

Per ogni piccolo uomo ancorato alle sue cieche efferatezze o degradato da vili intenti, che vanamente morde o attacca, c’è un guerriero di pace, che fa pietra d’angolo: “a noi giganti non va di partire. / La terra che abbiamo è una misericordia / colma di frutti e soli del mattino. / Abbiamo figli e una ricchezza / di doveri che è tutta la nostra libertà” (La specie dominante, Aragno 2014); e anche: “perché la vita non è soltanto andare, / ma pure fare prova della fede, // che non è poi solo speranza. / Da quando sono nato voglio fare / come colui che vede, ascolta e crede” (64 sonetti, fuorilinea 2021).

La storia umana è piena di titani silenziosi, che lavorano il mondo a mani nude, avendo per arma solo la speranza; sono stati trattenuti, serrati, ingiuriati; mortificati, appesi a una croce. Che vi sia computo esattissimo di tutto questo (Mt 10: 26-33) nelle interminate valli dello Spirito è fatale, ineludibile: “da quando sono nato tutto ha un senso / per quanto sia difficile imitarlo. // Da quest’architettura nulla è evaso / per come io la vedo, io la penso, / idea che scava nella mente come un tarlo” (ibidem); e ancor prima, Nicola scriveva: “Vuoi che non sapesse di me, di te, / di questi drappi bianchi al sole. / Credo nulla governi il caso. / Guarda i bambini sulla spiaggia, / come somigliano alle nuvole da qui” (La coda dell’occhio, Marietti 2011).

Bultrini ha scritto la guerra definendone le ottuse atrocità, le alienate disforie e, sul versante opposto, i commossi spazi umani, l’indomita fede che accende e dilata. Ciò che viene inflitto evoca nuove speculari germinazioni: infonde, consente, avvera. Il poeta ha avuto il nonno paterno a lungo segregato in un campo per internati militari italiani; chi scrive ha avuto, ugualmente deportato e recluso, suo padre. E questo ora è prossimità e alveo di pace: ritrovarsi vicini, tra vivi, nella luminosa penombra dei morti.

Isabella Bignozzi

*

Testi di Nicola Bultrini qui citati:

Vetro, Interno Poesia Editore 2022

La forma di tutti, Capire Edizioni 2019, collana CartaCanta a cura di Davide Rondoni

Con Dante in esilio. La poesia e l’arte nei luoghi di prigionia, Edizioni Ares 2020, prefazione di Andrea Monda

La specie dominante, Aragno 2014

64 sonetti, fuorilinea 2021, prefazione di David Riondino

La coda dell’occhio, Marietti 2011

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