25 Novembre 2024

Nessuno tocchi Baudelaire, il poeta infinito

Incontrare Baudelaire rende ambiziosi di essergli fratelli, per non vivere consumati nella dannazione di non assomigliargli (tentativo naturalmente sacrilego, per cui infine ci onorerà della sua Maledizione, onorevole consolazione). Sapeva, come Stendhal, di scrivere To the happy few. Sapeva anche, conoscendo l’ipocrisia del lecteur, che tanti si sarebbero certificati abusivamente fra quelli. Ma come non volere essere fra i pochissimi eletti, felici perché maledetti e viceversa? «Regale»: questo è l’aggettivo forse più giusto per lui, «pezzenti» invece quello per tutti i suoi lettori. Perciò, nel dubbio tra falsa e autentica modestia, con Baudelaire è meglio osare al massimo degli appunti molto incerti, collage di domande, costruire album di «foto», asserzioni abbastanza tremanti, e comunque nulla più che intuizioni facoltative e smarrite. Ogni tanto magari pure qualche assioma, espresso con fervore intellettuale e senza alcun furore pedagogico. Deve poi essere leggibile la fatica che si è fatta nel cercare di essere dentro la sua opera, il dolore che si è provato, prima di poter appena toccare i bagliori della sua fantasia critica, poetica ed estetica, la forza della sua etica intellettuale.

Leggendolo, e leggendo i saggi a lui dedicati, si capisce che per addentrarsi veramente in Baudelaire occorre essere tattili e guidati come segugi da un ossimoro marziale ed essenziale, l’istinto della ragione: se così ha lavorato, nell’arte della poesia e in quella della Vita, chi lo studia è convocato a ripetere la stessa strada. Levità seppure piena di passione, ma di levità si tratta, perché accanirsi è sempre volgare, indice di rozzezza offrire con l’evidenziatore il gusto esatto delle proprie insofferenze. Essere troppo specifici in questioni di odio, nel mondo baudelairiano è indice di quello zelo da contabile che un artista considera il punto più basso dell’osceno e del plebeo. Niente ghigni da mediocri, né sarcasmi compiaciuti, ma «infilzare seriamente», con stiletto sanguinario e a scena aperta. Baudelaire sapeva odiare con arte e prudenza, con stile impareggiabile, grazie a un controllo nel sentire che gli derivava da una leggerezza del tratto sofisticata e sostanziata nella verità, dalla più aristocratica sincerità del pensiero appresa nello studio della Classicità. Abilmente variava, e non faceva notare in modo burocratico la provenienza del suo disgusto. Era ed è difficile inquadrare per via del solo intuito i bersagli che lo ossessionavano: è la beata «sprezzatura», quell’agire in levare (in lotta contro «il troppo visto, il troppo da vedere») che si può imparare rinunciando alla forma logora dell’io, quella più gregaria, che abita convintamente la materia e l’attuale, declassata da Baudelaire.

C’è una bella descrizione di Carmelo Bene, in cui dice che nessuna azione artistica può realizzare il suo scopo se non si smarrisce nell’atto. L’atto, a sua volta, per compiersi in quanto evento immediato, deve dimenticare la finalità dell’azione. Nell’oblio del gesto (e della sua tirannia), «l’atto sgambetta l’azione, restando orfano del proprio artefice», guadagnando un’esistenza libera, nella grazia del superamento di sé. Nasce in questo modo la Sensibilità nella versione più alta, «farfalla» inizialmente prigioniera nel baco della sensiblerie. Talvolta si può affogare nel mare affollatissimo di “baudelairerie”, fra chiacchiere, giornali e web, oppure si diventa gelosi di indebiti cascamorti che insistono a spupazzarselo. In questi casi uno tende a recuperare le migliori annotazioni critiche e da lì ricomincia, per tentare di pensare a Baudelaire senza il rumore di queste distrazioni, e indovinare gli errori, anche immaginandolo accanito a rettificare ciò che a suo proposito viene detto troppo liricamente (sappiamo quanto odiasse gli elegiaci, considerandoli «canaglie») o bruscamente, o facilmente. Ci si stanca non soltanto dei suoi lettori onniscienti che «chiudono il caso», o di quelli banali e incapaci, ma anche dei suoi adulatori, dei suoi persecutori, degli esagitati, degli spioni. Per questa necessità di redimersi dalla pornografia del superfluo c’è lo studio brillante di Marcel Raymond, Da Baudelaire al Surrealismo. Rileggendo, affiorano le basi interpretative meno accessibili, più stabili e rocciose, ricchissime di intuizioni, fra le poche nella storia della critica letteraria che resistono alla prova del brusio.

Come avvicinarsi a Baudelaire senza cadere nella tentazione di farne il passepartout di se stesso? E senza innamorarsene? Ricostruendo i dati estetici e critici eversivi della sua opera con la fatica con cui l’ha composta, con lo stesso tormento analitico, e sono tanti. Il primo da mettere in bella vista è l’aver restituito al linguaggio alcune delle sue più antiche prerogative: avverare il sogno di un universo dove l’uomo non è mai distinto dalle ‘cose’ e dalla Natura, dove «lo spirito indisturbato regna», senza intermediari, sui fenomeni, oltre l’ingenua via intenzionale.  Esorcizzando il sentimento della natura da tutto quel pittoresco di cui lo ricopre l’uomo comune e che tipicamente minaccia di occultarne l’essenza, e così vedere come l’io entri in possesso delle sue forze inconsce per divenire «autosufficiente come Dio». Assistere al modo in cui ciascuna immagine si organizza segretamente in simbolo e la parola dismette il segno che la costringe, partecipando alle cose stesse, alle realtà psichiche che evoca: intollerabile, per Baudelaire, la naturale discordanza fra le esigenze totali dello spirito e l’esistenza limitata che l’uomo può sperimentare.

Da questa insofferenza assoluta è nato non soltanto tutto il pensiero che egli ha poi incarnato nell’Opera, ma la sua capacità di trionfare come un fulmine su quella discordanza. Mago, metafisico conquistatore, esteta disperato e reazionario, ha infranto i vincoli dello spirito e del mondo sensibile facendo della Poesia un’azione vitale che li mescola insieme. Fleurs du Mal è il ritratto espressionista di un’intenzione iper cosciente «che chiama a raccolta le potenze oscure» e distrugge il dualismo fra l’io e l’universo. Ma l’ardimento quasi disperato delle ambizioni estetiche di Charles Baudelaire, il modo in cui le ha elevate a sortilegio, è solamente una parte di ciò che lo ha reso «veggente». Il resto è venuto dal prisma personologico che lui era, specie la complessità di una poesia costruita come un’etica e strumento irregolare di conoscenza metafisica, mutata in «bisogno di cambiare la vita» (come voleva Rimbaud), presentandola «come una via aperta sull’Essere». Stati d’animo eccezionali quelli di Baudelaire, tragicamente armonici, fra «orrore della vita ed estasi della vita», intrecciati magicamente per un risultato ineffabile: stati dell’anima che in lui hanno carattere di rivelazione e così vanno trattati e descritti.

Vocato a odiare «il corpo e il cuore» con la stessa feroce intensità e come nessun altro ha mai fatto, appassionato a disprezzare ogni esistenza che fosse anche solo poco al di sotto di questa enormità percettiva, che in lui si fa condanna, Baudelaire è, come vorrebbe Whitman, quasi un militare nello «sbaragliare tutto ciò che non è vita». Tutta la sua storia e il suo desiderio costante suonano come un epitaffio nei primi versi del Voyage: «in fondo all’ignoto, per trovare il nuovo!». Capace di sviluppare fino all’ultimo grado del tragico il tema romantico della rivolta e dell’evasione, così come di portare a compimento tutti gli elementi focosi delle correnti abortite del romanticismo (il sogno esotico solo abbozzato da Parny e Bertin, lo spleen presentito da Gautier e Saint- Beuve). Realizzando sarcasmi ribelli in cui vengono freddati e induriti i dati di una rivolta semplicistica e bozzettistica, portando a sviluppo maestoso le malinconie à la Chateaubriand/Lamartine. I Fleurs sono eccome una raccolta poetica, ma anche un trattato morale e filosofico, un manuale esoterico per iniziati, manifesto estetico di chi è «appassionatamente amante della passione e freddamente deciso a cercare i mezzi di esprimerla» (sua definizione di Delacroix, in cui in verità spiega se stesso?).

Mercoledì, febbraio 1866. Baudelaire scrive all’amico Ancelle:

«In questo libro atroce ho messo tutto il mio cuore, tutta la mia tenerezza, tutta la mia religione (travestita), tutto il mio odio. Vero è che io scriverò il contrario e giurerò sugli dei che si tratta d’un libro d’arte pura…».

Ancora sprezzature, velature, clandestinità, depistaggi «per non essere trovato» e riuscire a esistere pienamente. Quale miglior modo, se non calcare le riverite ombre e orme di Poe, che distingue Poesia e passione: passione è solo ebbrezza del cuore e della verità, che è nutrimento della ragione, del didascalismo, che vincola alla terra, «alla malaugurata prosa». Solo la Poesia ha diritto all’aspirazione verso una bellezza superiore. Pensiero e sentimento non possono essere buoni conduttori di ciò che la Poesia trova, senza aver prima attraversato «un influsso psichico che li snaturi», elevandoli. Il Baudelaire estetico qui è pienamente discepolo del platonico Poe e di Coleridge, e dei primi romantici inglesi, ma meno sentimentale e divinatorio di loro, più potentemente psichico di tutti i romantici, forse quindi il solo, vero, Romantico (ma Proust scriverà che Baudelaire non fu né decadente né romantico, anzi, «scriveva come Racine», la sua opera incarna «il più perfetto classicismo»)?

Baudelaire «non si rivolge al cuore» ma all’anima, all’io profondo, mira alle voci più oscure dello spirito, a comunicare con l’occulto e con ciò che agli occhi è interdetto. In lui il presentimento confuso della partecipazione reciproca di tutte le cose, della loro corrispondenza e del loro fondamentale accordo, si chiarifica completamente e muta quasi in mathesis universalis, verso un la prova di questa unità originaria. Trionfo dell’ordine e dell’unità spirituale sulla natura incoerente: impossibile che «il gabbiano» Baudelaire non istighi all’immagine di un’anima santa o di un perfetto alchimista. «Principe dei nembi», abitatore della tempesta, Baudelaire irride l’arciere, «esule sulla terra, in mezzo a ostili grida, con l’ali da gigante s’impiglia nel cammino». Sarà questo suo autoritratto a dire che sono vani, e tali rimarranno, i tentativi di andare stupidamente a caccia della sua «ricetta segreta», o di arginarlo presso un’«ultima parola» che lo condanni al rogo della trasmissibilità, confezionandolo in un terribile «messaggio» qualsiasi. Sarebbe un regalo per lettori sciocchi e cannibali, che lui disprezzava.

Il miglior lettore (a patto che poverino superi la prova e non si senta disprezzato, se insomma riesce a meritarsi di non essere il bersaglio delle sue condanne) deve limitarsi semplicemente a rompersi la testa su una dottrina per iniziati, osservando e ruminando, tentando di riscrivere le sue stesse parole catturandole per sé, come filtro per lo sguardo e il vissuto. Decifrando come ogni poesia si connetta misteriosamente a un’altra: ed eccoci davanti a una strana ragnatela magica (accorgersi che Mœsta et errabunda conversa con Il Balcone e con l’Invito al viaggio, e Lo Spettro con Il Vampiro). E quante dicotomie, per cui ogni poesia e ogni frase fanno un solo regno in cui vige l’ossimoro permanente (la contraddizione in Baudelaire ha il volto della coincidentia oppositorum di Cusano o alla guerra perpetua dei contrari di Eraclito?).  Unità mistica di tutte le cose dispersa nella molteplicità, ricavata da Swedenborg come da Fourier, dagli Illuminati e da Constant, dal plotinismo volgarizzato come da Balzac, e certamente un poco da Proudhon (vivissimo nel tardo Baudelaire sotto il segno della «rottura inesplicabile). Come trovare il segreto di quell’opus magnum, che si riversa in maniacale tendenza a una regolarità compositiva, ma che viene puntualmente disattesa (si vedano gli spunti sulla «disciplina» in Razzi e Il mio cuore messo a nudo laddove la figura del poeta è equiparata a quella di uno stilita o un prete)?  Sappiamo come tutto ebbe inizio: «De Maistre e Poe mi hanno insegnato a pensare», è una rivelazione di Baudelaire che tuttavia la sua opera invita a rimeditare continuamente, a non far marcire nel diarismo ingenuo, gettandola nel mare delle infinite possibilità baudelairiane.

Altra preziosa foto di Baudelaire: studioso perfetto di ciò che amava, ma odiando la scuola, ribelle all’istruzione sin dagli anni della sua formazione scolastica, a Lione è continuamente protagonista di intemperanze nei confronti di studenti e insegnanti. Quando poi va Parigi nel 1839 viene espulso dal collegio, si rifiuta di consegnare un biglietto ricevuto da un compagno. Per immaginare una sua possibile condizione politica, si pensi come in lui coesistano atteggiamenti doppi: da un lato freddo spirito aristocratico, antiborghese e antidemocratico, dall’altro inattesi slanci rivoluzionari per combattere sulle barricate nel 1848 in favore della repubblica. Per quanto riguarda la sua concezione dell’amore, essa è fatale, misterica, carnale e mentale, tutta dipinta nella poesia L’Idèal: qui c’è una donna di rara personalità e femminilità, il suo passo è diverso da quello «da stivaletto» di tutte le altre, comuni, seriali, «pallide rose» in cui nessun rouge è possibile. L’amante ideale di Baudelaire legittima e vivifica Eros e Intellectus, rendendoli miracolosamente un ipnotico intero. Ha «il cuore profondo come un abisso», è forte come lui («regina nel delitto»), oggetto devozionale da adorare, è angelo e sorella, familiare e demonicamente inafferrabile estranea, confidente e sicura seduttrice dei suoi sensi come dei suoi pensieri, vampiro che prende tutto il sangue possibile, ma che lo restituisce sotto forma di grazia, di elevazione a un Bello ineffabile e squisito, effimero ed eterno. Forse è troppo, ma per lui la via del Tutto è l’unica percorribile e degna di attenzione, perché, proprio come dio, è uno e trino (flâneur, bohême e folla).

Baudelaire è custode, a volte amabile, a volte sadico, di un esoterismo che fa smarrire e impazzire prima di trovare «soluzioni» comunque provvisorie e intraducibili, stentate, «lente», al cospetto della sua velocità d’occhio ed esecuzione, risultati aerei che hanno il volto «santo» di una sfumatura celeste, un minuscolo tratto guadagnato in lotta con la grossolanità dell’esistenza. Il flâneur, funambolo, comodo e scomodo fra la bohême e la folla, ha «lo sguardo dell’estraniato», scrive Benjamin, in cerca di asilo nella folla e desideroso di tutto l’amore assoluto in un’amante sola. Baudelaire, ancora, critico della cultura, dell’uomo, della vita, per cui la migliore critica «è quella che riesce dilettosa e poetica. Non una fredda e algebrica, che col pretesto di tutto spiegare non sente né odio né amore, e si spoglia deliberatamente di ogni traccia di temperamento», è la buona critica ciò che distingue un autore supremo da uno soltanto grande, perché sente col cuore «quasi senza che lo sappia» (ancora sprezzature!). Eccoci alla celebre professione di fede del vero critico: 

«perché sia giusta, perché abbia la sua ragion d’essere, la critica dev’essere parziale, appassionata, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più ampio degli orizzonti».

Scrive Asselineau, il suo migliore amico, nel più bel tributo che potesse fargli:

«non appena sentiva che quello che stava facendo non era alla Baudelaire, si fermava; e nessuna considerazione, vantaggio, denaro, favore o pubblicità gli avrebbe fatto fare un passo in più. È rimasto integro ed intatto. Mai scrittore è stato più interamente assorbito dalla propria opera, né opera è stata il più esatto riflesso del suo autore».

Integrità di Baudelaire, nuda verità di Baudelaire, solitaria, essenziale e ricca come la cesta più lussuriosa di un pittore simbolista. Integrità baudelairiana infrangibile, anche e soprattutto davanti alla piccolezza della borghesia e dei suoi ricattatori salotti domestici; è Luca Gritti a sottolineare come l’odio baudelairiano per la borghesia non abbia origine politica, o derivazione pauperista o socialisteggiante. Fiorisce quale odio morale, etico ed estetico, perché in Baudelaire la vita è vissuta secondo l’opera, i precetti morali, politici ed esistenziali non vengono da norme astratte, ma da un’esigenza artistica, l’etica non è sconfessata in nome dell’estetica – come in Oscar Wilde – l’estetica fonda e precede l’etica.

Wordsworth, nella prefazione alle Lyrical Ballads, scriverà che il poeta è un uomo che parla ad un altro uomo, un uomo indubbiamente dotato di una sensibilità più viva, di maggiore entusiasmo e tenerezza, che ha una grande conoscenza della natura umana, e un’anima più grande di quella che si suppone appartenere di solito al genere umano; che gioisce più degli altri uomini nello spirito della vita che è in lui; che si diletta nel contemplare volontà e passioni come si manifestano nel divenire dell’universo, e che è solitamente spinto a crearle laddove egli non li trovi. Che lo volesse o no, stava parlando certamente del Baudelaire «intimo e immediato», di Calasso, che ha avuto

«come rari altri il dono dell’immediatezza, la capacità di lasciar filtrare parole che subito scorrono nella circolazione mentale di chi le incontra e vi rimangono, talvolta allo stato latente, finché un giorno tornano a risuonare intatte, dolorose e incantate […] C’è qualcosa in Baudelaire (come poi in Nietzsche) di così intimo da annidarsi in quella foresta che è la psiche di chiunque, senza più uscirne».

Calasso lo dipinge come l’ultimo discendente della aurea catena dei fedeli della visione misterica:

«la dottrina delle correspondances in Baudelaire, che tanto ha fatto penare gli esegeti, è l’evidenza stessa, il presupposto universale per chiunque accetti la visione misterica – quindi esoterica, ermetica, analogica – dell’esistenza».

Impossibile, quasi illegale, finire il non-finito di Baudelaire.

Rubina Mendola

Gruppo MAGOG