Nella vasta, convulsa strategia per giungere al premierato elettivo, il Senato, è notizia recente, ha votato l’abolizione della carica di “senatore a vita”. Secondo l’articolo 59 della Costituzione, s’intendono senatori a vita quei “cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. Sono senatori di nomina presidenziale; il Presidente della Repubblica non può sceglierne più di cinque. Tutti i Presidenti della Repubblica sono senatori “di diritto e a vita”.
Di solito, l’incarico di senatore a vita è un invito alla morte, una specie di cenotafio. Il primo “poeta” eletto senatore a vita della Repubblica italiana – il che la dice lunga sul gusto estetico dei Presidenti – è stato Trilussa, un genio negli stornelli. Luigi Einaudi lo nominò il primo dicembre del 1950; il poeta morì pochi giorni dopo, il 21 dello stesso mese. Non fece mai ingresso in Palazzo Madama; era stato assegnato alla IV Commissione permanente, che si occupa di Difesa.
Il più scaltro di tutti i senatori a vita, secondo tempra, fu Arturo Toscanini. Nominato – anche lui – da Luigi Einaudi, il 5 dicembre del ’49, rifiutò l’invito, considerandolo un’offesa o quasi. “Schivo da ogni accaparramento di onorificenze, titoli accademici e decorazioni, desidererei finire la mia esistenza nella stessa semplicità in cui l’ho sempre percorsa”, scrisse al Presidente. Abitava a New York.
Mi ha sempre affascinato il rapporto tra i poeti e la politica, per l’implicita incongruenza. Il poeta abita ai margini, come è possibile confinarlo nella stalla parlamentare? Il poeta è unico, è uno: perché minarne l’individualità, sbriciolare il suo estro nella calca dei Senatori? Un poeta non può amministrare il mondo, non può governare il proprio tempo: eventualmente, deve sgominarlo, deve voltargli le spalle. Al poeta si addice l’estremo e l’estraneo, piuttosto, l’infamia, non la burocrazia politica, le combine tra i partiti, le partiture a soggetto. È più facile immaginare un poeta-tiranno, che deliberi secondo capriccio, alternando l’ira sanguinaria alla plateale pietà, più che un poeta comodamente assiso in Senato. È più facile immaginare – secondo cliché – un poeta povero in canna, tarlato dal tormento – o dalla placida accettazione del proprio crudo destino –, reso alla patria indifferenza. Un poeta-profeta, insomma: né megafono né grillo parlante.
Ad ogni modo, i poeti, come è canone, sono sempre rimasti fuori dagli uffici di Governo. Le eccezioni, nella nostra storia recente (repubblicana), sono due. La prima è quella di Eugenio Montale. Eletto senatore da Giuseppe Saragat il 13 giugno del 1967, restò in carica per cinque legislature, dalla IV alla VIII; cominciò nel gruppo Misto, tra Carlo Levi, Emilio Lussu e Ferruccio Parri; terminò tra le fila repubblicane, al fianco di Giovanni Spadolini. La sua attività fu cauta, sorniona, nelle retrovie. Aveva già pubblicato i grandi libri (La bufera e altro era uscito nel 1956), scriveva con vigorosa foia sul “Corriere della sera”; la breve esperienza nel Partito d’Azione lo aveva convinto a stare lontano dalla bagarre politica. Nel 1961 l’Università di Milano gli aveva conferito la laurea in Lettere per onori nel campo, diciamo così; compiva 71 anni e anelava il Nobel.
Benché sia transitato un po’ in tutte le commissioni – da quella destinata a “Istruzione pubblica e belle arti” alla Commissione “Giustizia”, dagli “Affari esteri” all’“Agricoltura” –, il poeta si premurò di non intervenire quasi mai in Senato: non presenta disegni di legge, ne firma pochissimi. Il primo aprile del 1971, insieme a Giovanni Leone, formula la Nuova disciplina delle associazioni e delle fondazioni culturali e di ricerca scientifica, interessante negli assunti (“La tradizione giuridica italiana, per tanti aspetti e settori ispirata a visioni moderne e tecnicamente aggiornate, denuncia invece, per quanto concerne le fondazioni e le associazioni culturali, l’immagine, oramai superata, dello Stato monopolizzatore di una serie di funzioni sociali”), arenatasi nel niente.
Da segnalare, la firma nel progetto di legge per la “soppressione dell’ente autonomo territoriale provincia” (in quanto, “struttura rigida e burocratica”) e quella “per l’incentivazione dell’uso dell’energia solare nel settore dell’edilizia privata e pubblica e dell’agricoltura”. Entrambi i progetti di legge sono presentati nel 1979 da Giovanni Spadolini. Il 10 ottobre 1979 il poeta chiede, insieme ad altri senatori, di ragionare “sui problemi posti dalla diffusione della droga in Italia”. Il 4 agosto del 1980 controfirma un’interrogazione per reclamare “tutte le informazioni in possesso del governo in merito alla dinamica dell’eccidio avvenuto nella stazione di Bologna, la cui gravità è senza precedenti nella storia non solo d’Italia, ma anche dei maggiori Paesi evoluti in tempo di pace”.
In una lettera a Mariano Rumor, all’epoca Ministro degli affari esteri, Montale confessa – con languida malizia – di soffrire di attacchi depressivi, di gouffre, la malattia dell’abisso, “una malattia che già afflisse il Manzoni… Il Manzoni ne fu colpito a 30 anni, io dopo i 70. È la mia unica superiorità su di lui”. Era il 1975, poco dopo il poeta sarebbe stato insignito del Nobel. Il Senato, naturalmente, scoccò applausi, scattò in allori. Giovedì 23 ottobre 1975, durante la seduta numero 504, il presidente Giovanni Spagnolli (DC) si felicitò con Montale, “una personalità di eccezionale rilievo della cultura italiana del Novecento e un uomo di forte e serena coerenza morale e civile”. Un poeta, per altro, dalla “salda coscienza patriottica”. Fu Giovanni Spadolini, all’epoca Ministro per i beni culturali e ambientali, a completare l’orazione:
“Si potrebbe dire che mai come in Montale lo spirito del premio Nobel abbia trovato degna e fedele espressione, nel senso che, se l’intento del premio è sempre stato quello di saldare valori artistici e radici morali nella letteratura, l’opera compressa di Montale è sotto questo profilo uno degli esempi più alti”.
Montale gongolava. Tuttavia, è difficile riconoscere qui, leggendo in filigrana queste strategiche felicitazioni, il poeta che in Piccolo testamento (del 12 maggio 1953) prende le distanze da “lume di chiesa o d’officina/ che alimenti/ chierico rosso, o nero”, sosta al di là dalle maschere politiche di comunisti, neofascisti o democristiani, consapevole che “persistenza è solo l’estinzione”. Non a caso, forse, la lunga ‘carriera’ politica di Montale in Senato ha coinciso con la fase ironica, stanca, in minore, della sua creatività poetica.
Tra l’altro, l’azione politica di Montale è sconfitta quasi cronicamente da quella poetica. Nel Quaderno di quattro anni, pubblicato nel pieno dell’attività senatoria, è il 1977, il poeta, con lucido cinismo, recensisce “la vita” che “oscilla/ tra il sublime e l’immondo”, consapevole che “ne sapremo di più/ dopo le ultime elezioni/ che si terranno lassù/ o laggiù o in nessun luogo”. Quanto a lui, “l’immane farsa umana/ non è affar mio”, scrive.
“Mi sono rifugiato in una zona intermedia
che può chiamarsi inedia accidia o altro”.
Le poesie di quel tempo hanno titolo intimidatori, non casuali: Nel disumano; L’obbrobrio; Quel che resta (se resta); Un errore; I miraggi…
Il poeta muore, a Milano, il 12 settembre del 1981. Sandro Pertini era Presidente della Repubblica, governava Spadolini, che onorò il senatore con parole appropriate, dunque inutili al poeta:
“Per oltre mezzo secolo Montale ha concorso con i suoi versi e con le sue prose a rivendicare i valori profondi della coscienza individuale e della stessa identità esistenziale contro i miti superomisti, statolatri e dissacratori del nostro tempo. Credente nella religione del dubbio, nella laica religione dell’uomo attraverso la fedeltà profonda e sofferta verso i vivi e verso i morti; avversario del superficiale avanguardismo ed attivismo, non meno che, molti anni più tardi, della facile e sommaria contestazione; fedele ad un certo passato civile, ad un certo paesaggio umano; mai conservatore nel senso accigliato e neghittoso del termine”.
Il poeta, figura astrale ed estraniata, eroe, semmai, nella contraddizione, eletto a juke-box dei “valori”. Il Presidente del Consiglio, in concordia con quello del Tesoro, varò un disegno di legge (il numero 1579) per l’“Assunzione a carico dello Stato delle spese per i funerali del senatore Eugenio Montale”. Il Parlamento approvò pochi giorni prima di Natale, la legge fu varata con l’anno nuovo. Era il gennaio del 1982 – chissà, forse al poeta è più consona la fossa comune – o l’ascensione al cielo.
Mario Luzi fu eletto senatore a vita da Carlo Azeglio Ciampi, era il 14 ottobre del 2004. Il poeta compiva novant’anni, aveva pubblicato libri diversamente mirabili – Nel magma, Su fondamenti invisibili, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini –, si insediò nel gruppo Misto, tra Sergio Zavoli e Rita Levi-Montalcini; lo presiedeva Cesare Marini, oplita di un partito che non c’è più, i Socialisti Democratici Italiani, vanità delle vanità.
Il poeta riuscì ad entrare fisicamente in Senato tre volte, il 9 novembre e il 15 dicembre del 2004, il 10 febbraio 2005. In aula non espresse parola. Parlò, invece, ai giornali. Riguardo all’aggressione subita da Silvio Berlusconi, allora capo del governo, in piazza Navona, il poeta disse che il Cavaliere se l’era cercata, che era “un propagandista, proprio come Mussolini”. Fu torturato dalle bordate – fuori via, da frontalieri dell’ovvio – del centrodestra: Maurizio Gasparri, all’epoca Ministro delle comunicazioni – militava con la giacca di Alleanza Nazionale – dichiarò che, in qualità di senatore, al poeta avrebbe preferito Mike Bongiorno. Come a dire, “La ruota della fortuna” in vece del Parlamento.
Nel discorso preparato per l’aula, mai pronunciato, Luzi virava in retorica:
“No, non è un abbaglio, devo convincermi, e dunque io siedo veramente dove hanno seduto Manzoni, Carducci, Croce, Montale, ma anche Garibaldi, Verdi e Verga.
Sono qui, suppongo, al di là dei miei meriti, non dico a rappresentare, ma almeno a significare un lato della nostra realtà troppo spesso trascurato e maltrattato, quando dovrebbe essere privilegiato e sostenuto in tutte le sue manifestazioni di splendore e di bisogno. È il settore, ma dispiace chiamarlo così, della cultura e dell’arte, della loro storia, dei loro documenti e monumenti, della loro attualità”.
Scrisse, tra l’altro, “Non sono un uomo di parte, né di partito e spero neppure di partito preso”. Ma non c’è spazio, in Parlamento, per i partigiani dell’io, per chi lascia selvaggio il verbo, ne contempla la figura di belva. In Italia, ai poeti non si pone l’alloro sul capo ma il giogo al collo: che stiano nella gabbia dorata del Senato, a fare i pappagalli, o aureolati dal velo dell’indifferenza civica, in fondo, è lo stesso.