Quel giorno accadde così. Milano. Lavoro. 2003. Esco dal lavoro. Nebbia. Buio. Umidità che fa delle ossa una iscrizione assira. Tram. Cingoli. Ricordo ancora. Ero all’altezza della Stazione Centrale. In sacca ho un libro. Lo tiro fuori. Quattro poeti. Graziosa antologia edita da Ares. Piccolo tenace editore italico con al vertice il lettore più feroce che esista nel Belpaese dei cattivi lettori, Cesare Cavalleri. Un maestro. D’istinto, mi fido. Come sempre, poiché la poesia è una appendice dell’atletica, assegno i voti. Paolo Donadoni, no. Matteo Veronesi, nì. Riccardo Ielmini, yes. Il soprassalto, però, quella sera umida, a Milano, all’altezza della Stazione Centrale, me lo danno le poesie di Alessandro Rivali. Consapevole che sui cento metri della poesia non ho rivali, cominciano a prudermi i talloni. Questo ci sa fare. Con naturalezza sontuosa mescola i colpi di lama di Ungaretti alle vertigini dell’Apocalisse, il clangore poundiano alla fermezza dantesca. Soprattutto, è un poeta lirico ed epico al contempo. Non ci racconta i fatti suoi. Sfonda la Storia. La tartassa di versi epigrafici, memorabili, come sbalzati sulla fronte dei millenni. 14 anni fa. Quest’anno Alessandro è quarantenne. Abbiamo attraversato Milano a piedi, assieme. Assieme, abbiamo attraversato geografie liriche. Abbiamo parlato di Isaia e di Tacito, del mare insonne di Ungà e delle perversioni di Ammiano Marcellino, di Seneca e dei Vangeli, di Robinson Jeffers e dell’Edda. Poesia di oggi poco o nulla. Trascendiamo il verbo banale intraprendendo le scalate per l’assoluto. Da allora Rivali, stigmatizzato da un talento dolce, è diventato uno dei più importanti poeti italiani di oggi. La riviera del sangue (2005; 2007) è un libro di dissanguante potenza; La caduta di Bisanzio (2010) è un capolavoro netto. Da anni va cesellando, con l’ansia veneziana di un Marco Polo della lirica, un libro. Di cui ci offre un estratto, “un tassello del libro a cui sto lavorando da troppi anni. La terra di Caino: libro a tema, poema per sezioni e frammenti, come piace a me. Unico protagonista Caino, ma diverso dalla vulgata. È tutto avvinto dalla nostalgia e sbanda per le strade del mondo, molti deserti e molti desideri. Ricorda le narrazioni intorno al fuoco del padre che gli raccontava dell’Eden, di molti alberi e di cascate e dello splendore della loro madre. Caino ama sostare tra le necropoli, lì incrocia molte storie, ogni lastra lo riporta a quella di Abele e suo padre disteso sopra a piangere. Nel viaggio ci sono molti ustionati (Hiroshima) e molti sognanti (i protagonisti della Tomba degli amanti, lacerati come un abbraccio di Rodin) e molti silenzi (gli spalti delle città dell’Ombra, in primis, la mia Staglieno)”. Il frammento, di nuda potenza, si chiama Otzi. Eccolo. Pare di stare, sempre, sull’orlo di un oracolo. (d.b.)
I
Dal ghiacciaio del Similaum
le dorsali diventano generazioni.
L’essiccato vede l’origine.
Metamorfosi della materia.
Pianure. Pitture. Selci.
Il tempo chiamato indietro.
Si riavvolge il nastro:
la via dall’Eurasia all’Africa.
Il popolamento a clessidra.
La terra ritorna roveto,
lo sterminio delle antilopi,
il cavallo entra nell’ippario.
Ora vede il parto degli astri,
lo squarcio e le porte del male,
la fiammata del mamba
che s’inarca sul fogliame.
II
Viaggia nel pendolo della storia.
Cerca i ritorni della luce.
I capitoli da mettere in musica.
L’acqua increspata dal vento.
Selinunte che cade in mare.
C’è un uomo che semina ulivi
prima di entrare nel regno.
III
La mummia dall’osso slogato
nella millenaria vasca di vetro.
In quota. Senza tempo.
Riunisce il primo e l’ultimo giorno,
antenna meridiana nel ghiaccio,
nell’azzurro sempre presente.
A sud alzano padiglioni,
formiche e scorpioni vedono
uomini lottare con il fiume.
Legano cavalli ai carri della storia.
IV
Il tronco è nero, senza braccia,
lingue di catrame sulle orecchie.
Un dannato chiuso nel ghiaccio,
un monaco che espia sulla roccia.
La selce perfora i polmoni
e il cardio si esilia dal corpo.
Forse lo chiamarono le stelle
per vedere gli uomini nel fiume,
vortici di cadute e ascesi,
conchiglie lasciate dal sangue.
V
Le sue orbite diventano vetro
e il ghiacciaio risale le vene.
Il freddo bruca gli uomini.
La sella di pietra è un veliero
che contempla la rosa dei mari.
Nelle terre alte dei sette laghi
l’acqua ristora la sete di Dio.
VI
Nuvole.
Arcipelaghi sul cotone:
l’anima un airone nel vento.
Il cadavere danza in quota:
ha una selce nella scapola.
Una lenta emorragia,
l’arto destro si fa pietra,
una scucitura nella mano.
La morte per svuotamento.
Vede cerchi rossi sulla neve
cani sulla testa dei corvi.
VII
Dispone il corredo per morire,
faretra e arco alla sorgente,
secondo la voce dei padri.
Ordina solitario la liturgia
sperando nella stessa misericordia
che lui aveva donato ai morti,
alle membra divise dalla spada,
agli occhi del cervo trafitto.
VIII
Il teatro è essenziale:
fusioni di ghiacciai.
Riverberi mordono la retina.
All’incrocio delle sorgenti
l’uomo si prosciuga nella sete.
Il corpo è disseccato,
si leggono lotte e fatiche,
usura nelle articolazioni,
fratture arginate.
Una cisti sul mignolo sinistro,
violenza sul setto nasale,
ridotta la corona degli incisivi.
Il ritrovamento che disorienta
è l’interezza del bulbo oculare:
quell’iride che intravide l’Eden
oltre la mandibola delle Alpi.
IX
I grandi graffiti delle caverne:
sembrano muoversi al fuoco:
antilopi in fuga dai predatori,
pigmei in lotta contro centauri.
Ma più vivo il disegno interiore,
il primo cervo colpito dal figlio,
soprattutto la mano di lei
che risale le ferite sulla schiena.
XI
Paradiso.
Il nome di una donna.
inseguito, appena intravisto.
I nomi smarriti dentro l’Eden.
La cometa ritorna nei sogni.
La solitaria fuga,
per dimenticare la terra di ieri,
dove il verme non muore
e non si estingue il fuoco.