12 Dicembre 2020

La lingua è una pantera. E la letteratura italiana non esiste. Dialogo con Mirko Volpi

La lingua italiana va braccata. Bisogna battere i boschi, per stanarla; bisogna muoversi con l’ingegno dei lacci, porre trappole e avere l’ostinata astronomia della tenacia, perché “questa fiera fa sentire il suo profumo ovunque, ma in nessun luogo si mostra”. Secondo Dante, il volgare “illustre, regale”, la lingua utopica degli “Italiani”, “appartiene a tutte le città senza apparire proprio di alcuna di esse”. È un tentativo. Una tentazione. Così, nel De Vulgari Eloquentia il poeta elabora la metafora della pantera: nei bestiari medioevali l’animale, sfuggente, implacabile, è associato a Cristo (accoglie tutte le bestie del creato tranne il drago, emblema del demonio). La lingua è un agguato, una fede, qualcosa a cui attendere; ha lo stigma del pericolo. Per cacciare la lingua – dacché una lingua non si parla, si conquista, è una belva – ho contattato Mirko Volpi, che insegna Linguistica italiana all’Università di Pavia (per Salerno, tra l’altro, ha curato il Commento alla “Commedia” di Jacopo della Lana). Dietro una lingua, ne proliferano mille, originarie: un branco.

Mi dica, che cos’è la lingua italiana? Nel De Vulgari, Dante, con quella immagine superba, ci dice che il volgare è una specie di pantera di cui dobbiamo andare a caccia, di fatto inafferrabile. Forse dovremmo parlare di ‘lingue’?

La lingua italiana, a definirla in sincronia, cioè in relazione all’oggi, è – semplicemente – la lingua impiegata in Italia dalla stragrande maggioranza delle persone per tutti gli usi scritti e parlati. In diacronia, cioè analizzandone la storia e le evoluzioni, la lingua italiana è, per ragioni storico-culturali e letterarie, confortate da elementi fonormofologici, il volgare fiorentino del Trecento, il fiorentino cosiddetto aureo, quello delle Tre Corone, Dante, Petrarca e Boccaccio. La citazione del De Vulgari Eloquentia è quantomai pertinente. Ma il volgare che Dante ricerca è il volgare illustre, quello degno di essere utilizzato per la grande poesia, libero dalle incrostazioni municipali, dalle brutture locali, dunque appunto sovramunicipale. Nessun volgare italiano, cioè nessuna varietà linguistica parlata allora in Italia nelle diverse aree e città (e Dante ne passa in rassegna 14), può essere però definito illustre: non è, cioè, sulla bocca di nessun “italiano”, ma lo si trova, scritto, solo nei grandi poeti (i Siciliani, Dante stesso, Guinizelli, e pochi altri). Alla fine del primo libro, Dante identifica il vulgare illustre con il vulgare latium, cioè, nientemeno, con il ‘volgare italiano’: con intuizione a dir poco profetica, Dante vede la possibilità di una lingua italiana unica, con almeno 5 secoli di anticipo rispetto alle discussioni ottocentesche, e ben prima che fosse all’ordine del giorno il problema dell’unità politica italiana. Al di là di questa sorta di preveggenza intellettuale straordinaria, Dante – primo linguista, primo dialettologo, primo storico della letteratura italiana – mostra di essere ben conscio della situazione linguistica allora (e per molto ancora) vigente sul suolo italiano: un’estrema, inestirpabile frammentazione, figlia della frammentazione politica (il De Vulgari è anche un trattato politico, ovviamente filoimperiale), dell’assenza di un centro di potere, di una monarchia nazionale capace di imporre, anche per ciò che concerne la lingua, un modello centralizzatore. Quindi sì, si può parlare di lingue, o, fino al Cinquecento, di volgari che convivevano direi pacificamente in Italia, anche se per come studiamo la letteratura al liceo non ne abbiamo un’idea precisa, pensiamo che sia tutto schiacciato sulla linea Siciliani-Stilnovisti-Petrarca-Ariosto-ecc. Ma ai tempi di Dante, in Italia, c’era una grandissima varietà di idiomi, le cosiddette varietà italoromanze, una per città, più o meno. E questo si vede benissimo, più che in poesia dove la tendenza a elevare il linguaggio e a “depurarlo” è precoce, nella prosa, in specie in quella di tipo pratico, come libri di conti, statuti, lettere private e commerciali, documenti notarili, eccetera. Linguisticamente (e politicamente), l’Italia è sempre stata centrifuga. Oggi però non parlerei di lingue, ma, meglio, di varietà linguistiche.

Lui è Mirko Volpi

Specifico. Il friulano, il furlan, è una lingua, il veneto un’altra; il piemontese ha specificità diverse dal sardo, che fa storia a parte. Il toscano non è il siciliano. E via scorrendo. Che autonomia e forza hanno, ancora, queste differenze, sistematiche?

Questo dipende proprio da quanto le ho appena detto. Quelle che lei ha citato (lingue o dialetti che siano, il dibattito è lungo e aspro) sono le dirette continuatrici di quei volgari, a loro volta continuatori del latino volgare, sorti in Italia in epoca altomedievale. A fronte dell’italiano – cioè del volgare fiorentino – che andava via via imponendosi a tutti i livelli, permanevano, e permangono, le “altre lingue”, con la loro storia, la loro tradizione, la loro specificità. Oggi li chiamiamo perlopiù dialetti. Ma la differenza tra lingua e dialetto, nella sostanza biologica degli idiomi, non esiste; si tratta semplicemente di un rapporto di forza. La lingua è tale perché in un determinato territorio è maggioritaria e si usa a scuola, nella burocrazia, nei giornali, eccetera, o addirittura è lingua ufficiale dello Stato e riconosciuta come tale nella Costituzione. Per citare una vecchia battuta che non si sa nemmeno a quale linguista attribuire, la lingua è un dialetto con un esercito e una marina. La diffusione dell’italiano quale lingua di comunicazione effettivamente comune, unica, unitaria, ha negli ultimi decenni compresso le altre lingue, le altre varietà, che in maniera affatto diversa tuttavia persistono nell’uso domestico, colloquiale, ora più ora meno intensamente (la Campania, per es., o il Veneto, sono molto più dialettofoni della Lombardia). Ad ogni modo, secoli di uso, spesso anche scritto, di storia, di identità linguistica, di scambi quotidiani, voglio dire, secoli di lingue vive e vigoreggianti non svaniscono senza lasciare tracce o residui; anzi proprio non svaniscono, ma continuano nei parlanti ad agire, a lambire le soglie mentali della lingua “ufficiale”, a scalfirne qualche lembo. E le differenze, che ci sono, non sono solo tra i vari dialetti, ma anche tra i vari italiani regionali, cioè varietà dell’italiano influenzate dalle diverse regioni linguistiche.

Tali specificità precipitano, poi, nelle diverse letterature in ‘italiano’… non sarebbe dunque più corretto parlare di letterature italiane più che di letteratura?

Mi sembra un’ottima proposta, storicamente sensatissima. A patto di operare alcuni distinguo. Nel corso dei secoli, in particolare dal 500 in poi, accanto alla letteratura diciamo “ufficiale”, in lingua italiana, quella che studiamo e conosciamo e che costituisce il canone, anzitutto scolastico, fiorisce una produzione riduttivamente definibile come locale, o dialettale, che a quella si oppone o semplicemente si affianca. Pensiamo ad esempio a città dalle grandi tradizioni letterarie e culturali come Venezia, Genova, Napoli, dove spesso nei secoli moderni addirittura gli atti ufficiali potevano essere stesi nella lingua patria, non nel fiorentino di Dante. Quindi sì, l’etichetta “storia della letteratura italiana” potrebbe essere meglio intesa come “storia delle letterature italiane”; allo stesso modo in cui la storia della lingua italiana – che alla lettera è la storia del fiorentino che è divenuto lingua nazionale – è meglio definibile come storia linguistica italiana, cioè come storia delle varietà linguistiche presenti in Italia. Si pensi del resto al capolavoro di un grande storico della letteratura quale fu Carlo Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana (1967), dove ci ha insegnato a considerare, sotto la spessa coltre della storia letteraria ufficiale, la realtà spiccatamente policentrica del nostro Paese (anche se lui ha indagato in particolare i secoli XV e XVI). Quanto all’oggi non saprei, non è il mio campo. Ma credo che anche nella letteratura italiana, non dialettale intendo, e nemmeno dialettalmente connotata (diciamo un Camilleri, per capirci), i segni delle varietà dialettali, o delle lingue locali, agiscano, anche a livello non strettamente linguistico, ma antropologico e culturale, di visione del mondo. Si pensi alla cosiddetta linea lombarda, studiata da Dante Isella, che da Manzoni arriva a un poeta in milanese come Franco Loi, passando per Dossi, Tessa (altro grande dialettale), Gadda e Sereni.

La lingua rispecchia una identità. L’italiano ha una tradizione aurea, aerea, colta, letteraria, ma forse non ha autentiche radici, oppure le ha recise… è così?

Dobbiamo considerare un fatto fondamentale, che ci fa capire molto della storia della nostra lingua, delle nostre lingue, e della nostra storia, senza altre specificazioni. La lingua in Italia ha viaggiato per secoli, praticamente fino alla metà del Novecento, su due livelli. Sopra, nell’empireo dei grandi scrittori cui di volta in volta si sono accodate anche scritture non letterarie, e insomma nella varietà scritta (fatte salve le tradizioni locali di cui parlavo prima), la lingua italiana è stata effettivamente una e unica, la lingua appunto dei grandi trecentisti toscani, ovunque imitata e ripresa, sancita dalla teorizzazione cinquecentesca di Pietro Bembo e di qui passata vittoriosa attraverso altri tre secoli buoni, fino al tardo Ottocento: ma una lingua, sostanzialmente, “morta”. Sotto, al livello della lingua d’uso, parlata, usata tutti i giorni per i normali bisogni comunicativi, la frammentazione è restata fortissima: ogni città un volgare, una lingua, un dialetto. Una lingua viva, certo, o meglio mille lingue vive e in ottima salute, ma inservibili per il nuovo Stato sorto nel 1861. Va detto che importanti studiosi mettono in dubbio la radicalità di questa dicotomia, ritenendo plausibile una qualche forma di italiano parlato comune anche ai non colti, che vi ricorrevano in alcune circostanze più formali (cioè quando dovevano parlare con una qualche autorità come il prete o il medico).  C’è un emblematico brano di Luigi Meneghello che racconta di quando, scolaro in un Veneto integralmente dialettofono, si trovò a riflettere sulla frattura tra il vernacolare oseleto, uno scalzacane ignorante che non sa le poesie a memoria, ma è vivo, e l’italiano uccellino, che cinguetta e annuncia la primavera e si fa ritrarre nei libri, ma è irrimediabilmente finto. Lo stesso Manzoni, come noto, il grande fautore del fiorentino quale lingua per tutti gli italiani, era solito parlare in milanese o in francese. Quindi l’italiano, semplificando un poco, ha certamente un’origine colta, letteraria, è figlio di Dante (che non a caso tradizionalmente si definisce come “il padre della lingua italiana”). Un bravo dantista, Mirko Tavoni, ha scritto: “È stato calcolato che il 90% del lessico fondamentale dell’italiano in uso oggi (cioè il 90% delle 2000 parole più frequenti, che a loro volta costituiscono il 90% di tutto ciò che si dice, si legge o si scrive ogni giorno) è già nella Commedia.” Tanto che noi oggi anche senza commenti possiamo leggere la Commedia con una facilità impensabile per un inglese che provi a leggere Chaucer o un francese il Roman de la Rose.

Che cosa racconta degli italiani l’italiano? Forse l’italiano porta con sé la nostalgia di una lingua legata alla terra, al prato, al covile, alla lettura delle stelle e dei fuochi, ma forse non sono che fole, queste. 

L’italiano, anzi la storia dell’italiano, dice molto degli italiani e della loro, della nostra storia, dice anzitutto della nostra tendenza alla divisione, alla frammentazione, al campanile che ora è serbatoio prezioso di conservazione ora ridicola rivendicazione. È la storia stessa del Paese, che ha impiegato secoli per unirsi, senza essere unito del tutto; riconoscibile, identificabile, ma irriducibile a un tetto realmente comune. La storia della lingua – così mi ha insegnato il mio Maestro – è storia di un popolo. E noi siamo un popolo fatto di popoli che anche se non lo sanno parlano in fondo lingue diverse – e sono queste altre lingue, a mio avviso, a portare quella nostalgia di cui parla lei. Mi piace rilevare poi, anche se non so francamente trovarci una morale o un’arguta connessione storica, che l’italiano, la lingua oggi patrimonio di tutti noi, è nato con un formidabile, irripetibile exploit, quello della Commedia di Dante, il miracoloso portento che davvero “mostrò ciò che potea la lingua nostra”. Infine, si può ricordare quanto scrisse Gino Capponi, a pochi anni dall’unità d’Italia: “La lingua italiana sarà ciò che sapranno essere gli italiani”. Ecco, cosa sono, cosa hanno saputo essere gli italiani? Forse qualche risposta ormai ce la possiamo dare.

Chi ‘fa’ la lingua, infine: i poeti, i mistici, i ragionieri, i legislatori, o chi la parla?

La lingua la fanno tutti, i poeti, i mistici, i ragionieri, i legislatori, io, lei, mia figlia Agnese che ha tre anni. Tutti. La “facciamo” usandola: su Facebook o in un articolo o in un libro anche brutto o in un messaggio su whatsapp, o parlando d’amore alla nostra morosa e di calcio al bar e di nanochimica da una cattedra universitaria. La lingua la fa il – non romanticamente inteso – popolo, ossia tutta la comunità dei parlanti, ciascuno dei quali – quindi ciascuno di noi – concorre ogni giorno a modificarla. Il che è un bene. Una lingua che non cambia è una lingua morta. Che è quello che dicevano dell’italiano letterario Parini (“ella [la lingua italiana] è fissa, ella è, per questa parte, della natura di quelle che chiamansi morte”) e Manzoni.

Una curiosità. Ho visto che si è occupato di Mario Pomilio. Romanziere straordinario, che nel Quinto evangelio e nel Natale del 1833 tenta degli esperimenti di linguaggio, entro la lingua italiana. Ecco: cosa le piace leggere, che cosa sta leggendo?

Mi fa piacere che abbia ricordato Pomilio, autore che mi è anche affettivamente caro e le cui carte sono tutte conservate qui a Pavia, nel Centro manoscritti fondato da Maria Corti. Devo però confessare che quando leggo per puro piacere preferisco i romanzieri stranieri: Roth e Richler, Mauriac e Bernanos, o ancora Tolkien e Nabokov. Catalogo invero disomogeneo. Quanto agli italiani mi rifugio sempre volentieri nei lombardi: Manzoni, Dossi, Gadda, Chiara, Testori. E poi Guareschi. Leggo più volentieri Carlo Porta e il lodigiano Cècu Ferrari che Petrarca. Sono un po’ attardato, poco aggiornato, ma mi piace leggere prose voluttuose, dalla sintassi complessa e dalla lingua altamente connotata (non per forza espressionistica). Tra i viventi amo Francesco Pecoraro. In questo 2020 di pandemia ho letto quasi niente: perlopiù saggistica d’argomento dantesco. Direi che Dante rimane la mia unica incrollabile certezza di lettore, prima ancora che di studioso.

*Il dialogo con Mirko Volpi è stato pubblicato, in forma ridotta, su “il Giornale”, qui

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