05 Ottobre 2024

L’arca e la spada. Ovvero: per discorrere con Dio non serve il vocabolario

Festa di San Michele Arcangelo: sopra l’altare, una pala del Seicento, di non nobile fattura. Il guerriero celeste volteggia sopra una folla di uomini in processione, con la spada sguainata e il consueto, incolpevole viso, da bimbo. In basso, secondo cliché, il devoto pittore fissa lo spettatore, indica la creatura divina, in cielo.

C’è risonanza tra il nitore della spada e le ali, luminose, istoriate, forse, pensando alle ali del gheppio, a quelle della poiana o dell’aquila. La combinazione tra umano e bestia offre alla mostruosità caratteri indimenticabili: Michele, Chirone, la donna con il viso da leonessa, l’uomo per metà cervide. L’estremismo della sapienza e quello della violenza.

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Immagino che i paesani si sfoghino per le vie del borgo, vestiti da angeli guerrieri, issando la statua dell’Arcangelo tra fischi e clangore – ma questo, il nostro, è un cristianesimo ispido, ceruleo, col raffreddore, per lo più ipocrita, che annacqua il clamore nel buon senso; non è più un cristianesimo da ispirati ma da magnati della quiete sociale, da mangiati dal mondo. Così, anche il prete più che brandire l’angelo – figura che atterrisce: per timore ed eguale tenerezza – distribuisce brand che riguardano, grosso modo, il bene del prossimo, la cura della comunità. Vado ancora all’icona di Michele Arcangelo mentre schiaccia il demonio, sorride e alza a scampanio la spada.

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Se penso alle “lingue degli angeli” penso al Verbo come una spada. A differenza della loquela del serpente, insidiosa, duplice, a spirale, il Verbo angelico penetra con un solo colpo, con una singola parola.

Spada: endecasillabo del sole.

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Lingua dell’uomo, lingue degli angeli, Verbo divino.

Il linguaggio è il solo modo per arpionare Dio – è la ragione della nostra distanza da Dio.

L’uomo nomina le cose per fare del creato un proprio privato possesso; non c’è eucarestia con Dio, linguaggio incapace di istituire il patto. Non consolida il patto: lo consuma.

Verbo acconcio all’uso, fa la concia a Dio.

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Poco dopo, tra tanti, a festa.

Geologia del linguaggio: quante lingue pratichiamo durante il giorno? Banalità. Tantissime. Un conto è come mi esprimo con uno sconosciuto, un conto con la mamma; un conto è la lingua, intima, dell’amore, nel vocabolo-talamo, un conto quella della propria professione. Il linguaggio brutale, tra amici; il linguaggio perché voglio fare bella figura.

Contraffazione. Siamo come parliamo – che rapporto c’è tra il mio volto e il modo in cui mi esprimo?

Pellegrinaggio di ecchimosi e di lividi linguistici.

Il fango del linguaggio è il frainteso. Sua melma: la menzogna. Dico soltanto ciò che può essere detto; la verità di ciò che dico? Nel non detto, nell’appena accennato, nell’indicibile.

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Esempio elementare. Se dico mare non dico il mare, ma la sua innocua superficie. Se dico: “il mare è come un leone”, tento di sondare, pur superficialmente, il suo mistero. Lingua inerte di fronte alla vita: tenta, con gli spadaccini della retorica, di dissennare l’opacità, di diradare le nebbie – innalzandone altre, magari, ma più attraenti, dorate.

Allora: la poesia. Continuo primo giorno del mondo, continuo tentativo di risignificare a noi il mondo – il quale, esiste comunque, pur privo di legge o leggenda.

Dono – cioè: dolo.

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Ma – ritorno – qual è la lingua degli angeli, qual è il linguaggio di Dio? Di non altro dovrebbe occuparsi il poeta se non di quel volo. Nessuna voluttà, ma a precipizio nel Verbo.

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Insomma: come si prega?

Esiste la parola in grado di piegare le ginocchia?

Esiste una parola-piaga?

Linguaggio non è forse: obbedire alle parole dette da un altro?

La vera temerarietà: ripetere parole antiche, dal potere arcano. Il Padre nostro, ad esempio. Non muoversi da lì, da quel torrione di verbi. Sempre desti, in veglia in quell’arcangelico dire. Mozzarsi la lingua-daga e precisare quel dire, levigarlo – farne abito – abitazione.

Farsi costume di quel dire – scostumarlo.

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Leggo Qoèlet perché, nella sua spietata distruzione delle evidenze, è forse il più vicino al mistero del linguaggio.

Il linguaggio è il modo con cui l’uomo si fa dio – o quello con cui si approssima a Dio.

Deporre a Lui il linguaggio – lingua-agnus – lingua agnellina. Di converso: lingua-lupo, lingua che lascia tracce nella neve, che si esagera in sterco, strepito, inseguimento. Lingua con i denti; lingua famelica, con le costole protese, ad arco – tese nello spasmo. Lingua-lingua che penzola. Lingua che sbava. Lingua con la rabbia.

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Qoèlet – primo versetto, capitolo quinto – è sempre assertivo:

“Non affrettare la bocca, non precipitare il cuore a eruttare parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu in terra: perciò siano rade le tue parole”.

Linguaggio: cuore che sboccia in bocca. Bocca-brocca. Bocca coi petali.

A Dio, nel dirsi a Lui, vanno offerte “rade parole”. Poche, pochissime, a fior di deserto. Un quasi nulla del verbo – una rugiada di verbo a Lui offerta. Lingua come corolla d’acqua.

C’è un tempo per bisbigliare e uno per urlare.

Linguaggio: tentativo di inchiodare il cielo alla terra, di ridurre questa insana distanza tra Dio e uomo. Linguaggio-chiodo, allora. Una singolare locuzione che intrappoli Dio. Locuzione locura.

Inutile, allora, il dialogo, il divagare in verbi volumetrici. Quel linguaggio-erba, quel dire che dilaga in sistemi, concetti, elaborate finezze, astrale stratagemma filosofico, non arriva a Dio.

Lingua-spada arriva a Dio. Lingua-arcangelo.

Un’unica parola: “Eccomi!”.

Per gli ortodossi, per il venerabile, sbrindellato pellegrino russo, quella magnetica giaculatoria, da ripetere di continuo, a decollare ore e giorni: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!”.

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Come si parla a Dio, come parla il dio?

Il verbo umano fermenta idoli, eccelle nell’ideare miraggi. Ci è voluto il Verbo – inchiodato come una falena, flagellato fino all’omega, franto e frainteso – per distruggere il vocabolario. Vocabolario: ghigliottina dell’uomo – formulario di inganni.

“Nella parola si manifesta all’uomo la sapienza del dio, e la forma, l’ordine, il nesso in cui si presentano le parole rivela che non si tratta di parole umane, bensì di parole divine. Di qui il carattere esteriore dell’oracolo: l’ambiguità, l’oscurità, l’allusività ardua da decifrare, l’incertezza”.

Giorgio Colli, La nascita della filosofia

Così, nel mondo greco classico: deragliare del linguaggio, delirare, singulti sul bavero della bestia, lacerti quasi increati di verbo, diverbio, animosità dell’amnio verbale. Da qui – come ai primordi dell’avventura cristiana – il carisma del ‘traduttore’: uomo capace di interpretare, trasformandolo in gergo umano, la lingua divina.

Dunque, nel mondo greco, la divinizzazione dell’enigma, “la manifestazione nella parola di ciò che è divino, nascosto, un’interiorità indicibile” (Colli), che si sfa, nell’evo volgare, gioco di parole, rebus verbale, corazza retorica. Dalla Pizia alla Sfinge, dall’oracolo di Delfi all’idolatria della Ragione – Edipo – che sovrasta il Mostro – la Sfinge, che minaccia tramite indovinelli – ma infine si acceca. A chi domina l’evidente sfugge la terribile evidenza della verità.

La mistica: tentativo di sobillare il linguaggio.

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Da qui, l’incanutirsi del linguaggio in concetto, in bruma di bizantinismi, nei principi, nell’essere/non-essere, nel vero vs. falso, nella ‘logica delle cose’.

Beata filosofia che tutto insegna tranne il dio, che decide di recidere i rapporti con il dio, per sempre.

Beata teologia: ragionare su Dio perché ci è sfuggito. Cingere in formule l’informe.

Beata divinità logica: la legge ci insegna cosa è bene fare e cosa non bisogna fare; linguaggio come corda, prigione, calcina della società.

Bisogna capirsi – da qui, gli azzeccagarbugli, gli irresponsabili, gli esoteristi del linguaggio massonico, specifico, potere che scimmiotta il dio; sentenza: esigua, inerte, becera imitazione dell’oracolo.

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Che cosa mi stai dicendo? Perché non mi capisci?

Linguaggio: solo scandaglio del cuore – ma non scendiamo nel nostro abisso con la lanterna, a illuminare le beneamate oscurità. Spacchiamo il lume, che si infervori in fuoco. Fuoco-volpe, fuoco muta di cani in corsa.

E la poesia? Ipotesi di linguaggio angelico, ci addestra a spezzare l’ordinaria lingua. Ci addestra all’altro mondo del linguaggio – il solo.

È pazzo chi crede che il tavolo corrisponda alla parola tavolo; credete in chi chiama le ombre della cucina Michele, intuisce l’arcangelo, verbo che abbaglia sulla cruna della lama.

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Ritorno all’orda biblica.

Seminagione di linguaggi: Babele. L’uomo vuole costruire una torre per incardinare il cielo alla terra. Follia. Dio parla, l’uomo ascolti. Dio sceglie come suo messaggero un balbuziente – Mosè – uno privo di loquela – Isaia.

Dio non parla nel palazzo – replica più modesta di Babele – ma dal deserto.

Palazzo: concertare consigli, spazio del marchingegno verbale (per sedurre, concupire, ideare tattiche). Invece: desertificare il linguaggio. Nel deserto, in solitudine, Gesù si fa servire dalle belve e dagli angeli (così racconta l’evangelista Marco). Gli uomini non capiscono il duro dire del Nazareno; la sua complicità è con bestie e celesti. Lingue degli angeli; lingue bestiali.

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All’opposto equinozio di Babele: l’arca – Noè – e la culla – Mosè. Spazi in cui rifugiarsi, oggetti che veleggiano sulle acque – ipotesi di nuova creazione. Lingua-arca; lingua-culla. Le tavole dell’alleanza – verbo che si struttura in legge per incapacità di intendere l’oracolo – custodite nell’arca: che ringiovaniscano, che ritornino bimbe. In Eden non c’è legge: si parla come una fioritura. Parole come foglie che sventagliano.

Tra Babele e arca/culla (arca: culla per tutti): il tempio. Il tempio non racchiude Dio, non ne è la gabbia: è luogo d’incontro. Nel tempio posso trovare Dio – o posso perderlo.

Nel tempio si risillabano le antiche parole per invitare Dio all’incontro.

Parole pari alla dipintura dell’icona. Parole-gesto, parole che ricalcano gli stessi gesti, perché Dio appaia. Ma la ripetizione è ricreazione. Chi confida nel ‘nuovo’ è un idolatra, un apostata.

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Spogliarci del linguaggio.

L’estrema spoliazione è terribile. Defraudare il Nome per tentare il proprio nome. Farsi arca perché l’altro in noi si sieda.

Dunque: imparare le lingue dei passeri, arcangelici, e quelle della formica, della cimice, del capriolo.

Linguaggio: arte di trasalire – di travalicare.

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Mi capisci?

Parla come mangi.

Appunto. Ostia ostilità.

Gruppo MAGOG