04 Dicembre 2018

4 dicembre: discorso sulla morte del padre, sulla paternità castrata e sul perdono con cui velare il corpo del suicida (che attende il giudizio degli uomini)

Per prima cosa, poiché il nostro cervello non crede al caos, si cerca una condivisione del destino. Il 4 dicembre muore Giovanni Damasceno, santo per la Chiesa cattolica: fu amico dell’Islam e scrisse contro l’iconoclastia che vigeva a Costantinopoli. Secondo il Damasceno, Gesù poteva essere raffigurato in pittura, l’icona, che è stimmate e segno, ci conduce a Dio, il Padre ha decenza d’indagine artistica.

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Mi appendo a questo: è possibile figurare il Padre in confini mortali, figurarselo in corpo pittorico, non semplicemente con segni astratti, con alfabeti astrali.

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Mio padre si è ucciso il 4 dicembre di 29 anni fa e il suo nome non c’è nella lista dei ‘morti’ snocciolata da Wikipedia, tra Guglielmo I di Scozia, Thomas Hobbes, l’imperatore giapponese Meisho, il poeta tedesco Stefan George, il grande Frank Zappa. Mio padre non è degno di nota – non so se abbia annotato qualcosa della sua vita – ho una lettera, questo sì, una specie di monile, “per Davide Brullo” (come fossi un estraneo, come fosse già andato) da cui, prima o poi, estrarrò un libro.

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Lo so: non dovremmo occuparci dei morti, come se la morte fosse un privilegio. Bisogna amare la vita. Ma lo scrittore, infine, fa questa operazione alchemica: trae la vita dalla morte, dal cadavere munge argento.

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“Tuo padre è morto”. Facevo la quarta elementare – mi vennero a prendere a scuola – non volevo uscire da scuola, stavo bene con i miei amici – la rivelazione accadde nello studio, da parte di mio zio, al piano interrato di una villa. Ricordo le finestre da cui la luce proveniva a blocchi. “Ora puoi piangere”, disse. Ma non ho pianto. A dieci anni è incredibile che il padre muoia – i padri sono immortali, per un bambino il padre è dio.

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Col senno di poi: mio padre ha sempre cercato altrove ciò che qui gli era insufficiente. La Chiesa cattolica è un regime opprimente: allora la passione per l’India, poi per Lanza del Vasto, poi per i Valdesi. La famiglia è una museruola: allora cerco donne altrove, vivendo ogni vita possibile, purché altra da questa. Mio padre, quando muore, è separato da mia madre da un paio di anni e i libri sono una fuga: ricordo che mi regala un bellissimo libro sull’Islanda. Come se il ghiaccio potesse lenire l’inquietudine, d’altronde il bianco acceca, tramuta gli occhi in api.

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Il suicidio del padre – della natura della morte di mio padre seppi parecchi anni dopo la sua morte – è un capovolgimento cosmico. Di solito è il figlio che uccide il padre, che lo attraversa. Oppure è il padre che accetta il sacrificio del figlio. Non ti resta, allora, in assenza del padre, che affilare il coltello e metterti in ascolto, assaporando i singulti dei morti.

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Dicono che il lupo artico, quando perde il branco, non ulula, torna a suonare i segnali dei branchi passati, che si sono uniti e disciolti, come acqua, come se potesse evocarli. Neanche le betulle, però, si piegano al suo richiamo, né le stelle indugiano nella nostalgia.

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Di mio padre ho due ricordi nitidi. Entrambi riguardano la perdita. In montagna, eravamo al Gran San Bernardo. Mio padre mi fa vedere gli stambecchi e le marmotte. Mangiamo un panino sulla soglia di un rifugio, chiuso. Siamo solo io e lui. Nel cielo una transumanza di nubi grigie. Scendiamo. La nebbia ci assale. Fittissima. Lo perdo. Mi spavento. La nebbia come l’ostinato fiato di un Minotauro. Ci chiamiamo. Voci sottili come filo spinato. Infine. Mi raggiunge. Il secondo ricordo è simile e contrario. Non siamo in montagna ma a Milano. Metropolitana. Biglietto. Entro. Gente. Folla. Scale. Tante scale e tanta gente. Lo perdo. Mi fermo, capisco che l’umanità è un corno di carne, indistinto. Poi mio padre emerge da una scala e mi prende. Forse sono una preparazione alla perdita, questi ricordi.

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In eredità mio padre mi lascia un certo numero di libri, tanto dolore arrecato al prossimo. Di mio padre non si può parlare perché si inaugurano nuove ferite senza via di fuga. In eredità mi lascia una sorella avuta con un’altra donna – di cui so nulla. Mi lascia anche i suoi genitori, i miei nonni. Entrambi, nel tempo, precipitano nella demenza senile fino a dimenticare l’esistenza del figlio. Che strategie micidiali s’inventa la mente per scartare il dolore. Qualcosa, con una spugna di ferro, ha cancellato il nome di mio padre dai ricordi dei suoi genitori. Così, che magia, sono diventato io il figlio dei miei nonni: ho annientato mio padre dalla parentela.

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Neppure un padre a insegnarmi a fare la barba, a insegnarmi come si guida la macchina e come si accende la caldaia. Io e mia madre siamo cresciuti in un isolamento austero, perfetto: ho avuto la benedizione di essere molto amato. La morte di mio padre mi ha dotato di una eccezionalità folgorante. Piuttosto, ora mi domando, che padre può essere il padre di un suicida?

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L. è più giovane di me, sua madre si è uccisa pressappoco quando si è ucciso mio padre. Non c’è parità nel suicidio: il suicidio è una scelta così intima, impareggiabile, che nessun suicida è uguale all’altro. Il suicidio marca una identità. L. mi scrive cose bellissime e crude riguardo alla madre, ha una lucidità micidiale, è spietata come chi conosce l’evidenza carnale della morte. “Il gesto di togliersi la vita, ti toglie anche la tua di vita, non si è più figli di chi si toglie la vita, l’egoismo del suicidio ti fagocita, si divora anche la maternità. Il dolore di colpo, appartiene solo agli altri, paradossalmente sono gli altri da consolare, che ti chiedono la spalla per piangere. Che ti rinfacciano il loro di dolore. Ma io?”.

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Sperimentare la morte da piccoli è una grazia: tocchi il nervo estremo e ti orienti su quello. Capisci che a tutto c’è una soluzione tranne che alla morte, ad esempio. Ogni cosa risuona nella sua nitidezza implacabile: vita, morte; morte, vita. Capisci, ad esempio, che tutto muore – ma che la morte non è la morte di tutte le cose, è la vita. Capisci che si dà splendore alla vita prendendosi cura dei morti.

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Per salvare i suicidi dall’anatema della cultura dominante – che è una cultura che nega la morte, ed è dunque mortifera, di morte, e che per questo non può accettare che un uomo scelga la morte rispetto alla schiavitù di una vita mortificante – ho scritto un libro, Pseudo-Paolo. La lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro (Melville, 2018), la cui sintesi è qui: “Senza i suicidi come potremmo capire l’ampiezza del dolore e la sua soprannaturale entità? Come potremmo comprendere la smisurata sproporzione tra la libertà e la giustizia? Senza i suicidi ci è ignoto il sacrificio di Dio, che si suicida, prevedendo le circostanze della morte, accettando la Croce e l’estinzione dalla storia – all’interventismo preferisce il riposo e l’allusione. Nel buio più remoto del cosmo sono confinati i suicidi: mentre le anime volgono lo sguardo a Dio, essi, i soli, guardano, con occhi dilatati come mani, la terra. Attendono il giudizio degli uomini, non quello di Dio. Una probabile gioia li ha portati alla morte – adesso aspettano, nell’impasto torbido del mondo, l’assoluzione dagli uomini che hanno lasciato. Il volto è divorato dagli occhi, enormi, dentro cui lampeggiano le pupille: hanno una bocca piccolissima e tonda, da cui proviene un sussurro, “scusa”, un suono che naviga nel paziente silenzio degli universi. Attendono, muovendosi uno contro l’altro, picchiandosi, come pesci in una vasca, ma l’acqua non è sufficiente per la salvezza di tutti. Attendono che un uomo ripercorra la loro vita, specularmente, risopporti il loro dolore, e neghi il suicidio, spargendo parole di perdono. Allora, riscattati, giustificati da un altro uomo, i suicidi diventano santi, sotto lo sguardo di Dio. Ma più facilmente i vivi, invidiosi dei suicidi, sigillano il loro atto con parole come “codardi”, “infami”, “vigliacchi”, modellano il ricordo, evocano dei mostri. Finché non dimenticano il suicida. Quando non esiste più un uomo che ricordi il suicida, un angelo lo slega dagli altri e con un morso ne ottura gli occhi. Il suicida, risucchiato nel niente infinito del cosmo, sembra morire definitivamente. I suicidi sono necessari perché Dio ricordi che un tempo è stato uomo, perché una compassione più larga lo leghi. Perciò si uccidono, per accelerare la nostra salvezza – ed è giusto ricompensarli con la preghiera”.

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Non si sutura un dolore – lo si incorpora, succhiando l’oscuro, distillandone l’oro.

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Intendo che occorre parlare della morte senza l’anatema della pietà, il pietoso tango della compassione, perché il regno dei morti va rovinato, va scatenato, con scanzonata gioia.

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Non ci sono figure di padri notevoli nel mito. Edipo uccide distrattamente il genitore, Crono taglia le palle del padre, Urano; Zeus scampa alla furia omicida di Crono, suo padre, grazie allo stratagemma ordito dalla madre, di solito le madri aiutano i figli a ribellarsi alle prepotenze dei padri. Nei Vangeli, Giuseppe – che è anche il nome di mio padre – è un padre a metà, castrato, uno a cui è stato affidato Gesù, mentre Dio Padre è un padre castrante, bisogna sempre fare quello che dice lui. La vita è l’ambizione del figlio di sovrastare il padre: ma… quando il padre non c’è? La benedizione è questa: vedere il dolore negli occhi degli uomini, vigile come una vipera, e amarlo, riconoscerlo come la cosa più grande. Poiché non puoi sperare, puoi salvare.

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Ci siamo tutti protetti con nomi biblici. Mio nonno si chiamava Angelo, il mio bis era Raffaele, mio padre è Giuseppe, io Davide, i miei figli hanno nomi estratti dalla Bibbia. Basterà? L’anno prossimo avrò l’età in cui mio padre si è ucciso. Gli sopravviverò, vivrò più a lungo di lui? (d.b.)

*In copertina: Giovanni Battista Caracciolo, “Giuseppe con Gesù bambino”, 1610 ca.

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