Disturbi di luminosità è stato brevettato il tredici febbraio del 1895, a Parigi.
Il ventotto dicembre di quello stesso anno, Ilaria Palomba si trovava tra gli attoniti spettatori del Salon indien del Gran Cafè, al 14 del Boulevard des Capucines. Dall’inquieta mente saettava la scintilla. Il seme della sua poetica, da cui sarebbe germogliato il memoir, fu ben conficcato nel fertile terreno del protocinema.
Protagonista del libro, vi allude il titolo, è la luce. Luce filtrata dalla pellicola e ordinatamente proiettata sul grande schermo dal dialogo tra l’inventore e l’ispirazione. Il primo della lunga teoria di artisti, cui Ilaria si rivolge come postulante ad altrettanti Oracoli, è Chuck Palahniuk. Manifesto l’argomento principe della narrazione: l’estasi ingestibile, la visione mistica invalidante.
Tyler (Durden, nel romanzo di Palahniuk) consegue la propria visione, attraverso il medesimo strumento utilizzato dagli apache per l’iniziazione del giovane guerriero: privazione del sonno. Nel film cult di David Fincher, uscito nelle sale il ventinove ottobre del 1999, Edward Norton e Brad Pitt, due corpi monumentali animati da talento e lavoro incommensurabili, si contendono la mente del protagonista. L’espediente metafilmico adoperato da Fincher, per rendere in funzione espressiva il corto circuito sinaptico, causa dello sdoppiamento del proprio personaggio, è l’innesto di un singolo fotogramma avulso alla scena. Il terrorismo culturale, cui si fa riferimento in una delle scene, prevede per esempio l’innesto dell’immagine di un pene, fra quelle animate di un lungometraggio per bambini. Palese il riferimento al messaggio subliminale, argomento molto in voga nel pubblico dibattito di quel periodo.
Questi fotogrammi incoerenti, sbagliati, decontestualizzati e strappati a un insieme indicibile e recondito, squarciati dal ventre imbottito della bambagia da pupazzo, di tabù scorticati e sbugiardati feticcio sovrano e Lare (per la bambina che Ilaria non è mai stata), spalmati su pagina con perizia inarrivabile e precisione ossessiva, la scrittrice ha poetato “Disturbi di luminosità” (Gaffi, 2018).
Il lemma “luce” compare una prima volta a pagina 14, ci offre lo spunto per analizzare uno stilema della scrittrice, che ha molto da insegnare ai colleghi della presente generazione e di quelle precedenti, fatti salvi pochi maestri: “Lascia entrare la luce. Il buio. La luce. Il buio. La luce.”
La copia di “Homo Homini Virus” (Meridiano Zero, 2015), il romanzo che ha consacrato la Palomba, oltre a spedirla direttamente in vetta alle mie preferenze di lettura, si trova molto opportunamente sopra una di due copie de I signori e le nuove creature, sillogi del poeta americano James Douglas Morrison, doppio della scomposta e disturbata rockstar americana. In esergo a questa preziosa edizione: “Mi sono sempre piaciuti i rettili… Immagino l’Universo come un mastodontico serpente, con tutte le persone, le cose, i panorami alla stregua di minuscole immagini sulle sfaccettature delle squame. E penso che la contrazione peristaltica sia il movimento basilare della vita: l’inghiottire, il digerire, il ritmo del rapporto sessuale. Del resto, la lucertola e il serpente si identificano con l’inconscio, con le forze del male…”.
Ilaria porta il moto peristaltico sulla pagina, attraverso l’espediente della ripetizione, ossessionante e ossessionata, delle proprie idiosincrasie. Le pagine di “Disturbi di luminosità” sono ricche di quest’inviti all’attenzione, alla sottolineatura animica, di queste metafore stilistiche dell’inquietudine. Pagina 17: “La pancia si crepava. Gli arti prosciolti nella luce. Sotto le palpebre geometrie Maya.”
Emerge dall’ansia, la colpa autoinflitta e così il castigo, danza salvifica e redentrice, al termine della notte, fluorescenze e fosfeni atavici. Disturbi di luminosità è una miniera d’immagini, tutte cariche di questa vis, tutte pronte a stravolgere l’immaginazione, a prenderla per mano e concupirla tra rovi e bacche, profumate un istante, rancide e fetide in quello successivo.
Sono sincero nel comunicare al lettore una suggestione. La premessa è che quando ebbi tra le mani “Infinite Jest”, di David Foster Wallace, pensai di essere intento nella lettura dell’unico romanzo che fosse mai stato scritto. Considerai per la prima volta l’esperimento mentale dell’isola deserta. Se avessi potuto portare un unico libro, si sarebbe trattato di IJ. Trattasi, come suggerisce il titolo, di un intrattenimento infinito. “Infinite Jest” può essere letto lungo l’arco intero della propria esistenza, suggerirà sempre la novità e stimolerà nuove comprensioni. Il libro di Ilaria Palomba è impastato di quella stessa materia, cangiante e caleidoscopica, di cui il grande maestro di Ithaca fu avvezzo a imbrattare le proprie mani. Non mancano persino prossimità di argomento, contenuti, i riferimenti alle farmacopee psicotropa e psicoterapeutica, ma soprattutto alla funzione dell’arte, sempre presente, imprescindibile.
La parola “luce”, declinata come sostantivo-soggetto, o in forma di derivata-attributo, compare nell’opera non meno di trenta volte. Non intendo effettuare una verifica per i sinonimi o per i lemmi che vi alludono. Voglio solo sottolineare come in principio fu il verbo e poi “fiat lux”. Come Ilaria prenda soavemente e delicatamente a calci la divina creazione, con il cranio affondato nell’abisso della comprensione, in cerca dell’origine di Natura. Il testo è definitivamente troppo pregno di riferimenti culturali, filosofici e artistici, per concederci in questo spazio di citarli tutti. Pagina 18: “Ricordo Spud raccontare di aver visto le porte della percezione di Huxley dipanarsi come acqua”.
Al netto del riferimento al personaggio welshiano, per cui rimando il lettore curioso all’approfondimento di “Trainspotting”, di fronte a questa frase ci troviamo costretti a macinare una riflessione, ch’è la chiave di una voragine.
Ilaria sa che “the doors of perception” è immagine creata da William Blake, nel proprio capolavoro “The marriage of Heaven and Hell”; la scrittrice conosce vita, opera, morte e miracoli, del gruppo rock teatrale per antonomasia, che scelse di omaggiare il poeta e illustratore inglese, marchiando la band per mezzo della sua poetica. Eppure in questa frase, che dice del racconto di uno sperimentatore di sostanze psicotrope, in merito all’estasi e alla conoscenza, alle differenti dimensioni del reale, la pensatrice barese connota l’esperienza nel contesto del saggio sulla mescalina del genio di Godalming, Aldous Huxley per l’appunto. In una sola frase Ilaria suggerisce un trattato di antropologia, uno di psichiatria, un saggio sulle religioni e considerazioni sullo sciamanesimo. Tratta di poesia estatica, di artisti rock della contestazione americana, di un’opera orecchiata ma a noi misconosciuta, dell’autore de Il nuovo mondo, apre su Welsh e sulla riduzione cinematografica di Danny Boyle.
Suggerisce strade diverse per raggiungere la visione. Riassume la sete di conoscenza dell’umanità d’ogni latitudine con pochi graffi d’una penna acuminata e tagliente come acciaio nipponico. Ilaria è una samurai dell’espressione. A conferma dell’affermazione in merito alla frequentazione della musica dei The Doors, da parte della scrittrice, riporto l’ultimo rigo di pagina 25: “Quando la musica finisce, spegni la luce”.
“When the music’s over, turn off the light”. Ancora la luce. Ancora J. D. Morrison. Il cantante compose questo verso nel corso di un’improvvisazione, con la quale il gruppo chiudeva le serate al London Fog. Si trattava di proposizione deittica: il gestore del locale doveva realmente spegnere le luci quando fosse terminata la musica, per creare l’effetto scenico immaginato dal giovane istrione e studente di cinema. La canzone è un’altalena di sensualità, una fra tante danze peristaltiche del suo autore e interprete.
“Disturbi di luminosità” è anche un libro politico. Non mancano i riferimenti alla seria riflessione e all’impegno, declinati attraverso una pars destruens, la critica, e una pars construens, l’affermazione propositiva, sempre per mezzo di quella prosa lirica ch’è marchio di fabbrica di quest’artista totale, accidentalmente coinvolta nel suo passato, in un percorso filosofico accademico. Pagina 45: “Pensaci, tu che mi leggi, come fai a non considerare il tuo male il male del mondo? Come fai a dire malattia invece che società? Come fai a vedere davvero le scissioni tra le cose? Forse è questo l’esistere, un filo invisibile di corpi, che tutti li unisce”.
Il coincidere sinonimico di queste due attente elezioni lessicali, malattia e società, rimanda immediatamente a due questioni. Una più attuale e contingente, inerente all’aberrazione disumana del vivere contemporaneo, stravolto dal presunto progresso tecnologico, che usa la carne come bersaglio dell’interminabile sventagliata di immagini e informazioni, utili a ridurre la vita umana a incredula immobilità. L’altra di natura classica e intramontabile, perché affonda le radici nella critica marxista al capitalismo e in particolare alle istanze e ai ragionamenti relativi all’alienazione che deriva dall’automazione del lavoro. In definitiva si tratta di un libro che tratta la sofferenza emotiva e razionale. Assimilabili e interagenti in un complesso rapporto di causa ed effetto, che per la mente meravigliosa di Ilaria è acquisito.
Le “scissioni” della frase successiva, non sono solo i vuoti innestati sui “vincoli”, dimostrati dalla penna di Giordano Bruno, da tutto il pensiero ermetico medievale e protomoderno. Non si tratta solo di acquisire, interiorizzare e metabolizzare il pensiero orientale, cui Ilaria si riferisce spesso, in urla sussurrate e disperate, che invocano comprensione e clemenza al mostro esiziale che la legherà al letto d’ospedale (urla che si giustificano per il genio), per sperare di conoscere un po’ meglio il reale è necessario un atto di fede.
Il filo invisibile dei corpi, che tutti li unisce, non conosce scissione tra anima e corpo, non c’è schizofrenia, termine obsoleto appena valido oramai per i discorsi da bar del popolo, sempre più oppresso dalla tragedia della sofferenza di un parente, preso in carico al CIM. E=mc2. La materia è energia. Ilaria, reduce dalle proprie peregrinazioni negli spazi sterminati delle molteplici dimensioni, ne ha coscienza efficace, la consapevolezza sublime, sa esprimerla attraverso la propria arte, che padroneggia da immortale, si tratti di quella performativa o di quella narrativa.
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Ilaria Palomba è la prima e più tenace portavoce delle istanze di quella generazione X, che il potere sperava di aver cancellato per sempre dai radar, con droghe scadenti e le televisioni commerciali prima, con la riforma del lavoro e il precariato poi. Ilaria è a capo della protesta contro la repressione che abbiamo subito negli anni d’oro della nostra giovinezza, quando dovevamo sperare e progettare, quando, appena concluso il tempo della prima formazione, eravamo pronti a rivoluzionare il gusto e il mondo. Quando eravamo abbastanza forti e coraggiosi da immaginare un Universo unito e pacifico, un pianeta Terra costernato dall’amore dei suoi abitanti e dal suono cristallino delle risa di bambini che non nasceranno mai. Ilaria raccoglie preziosi oggetti usati inestimabili, libri, audiocassette, videocassette, dvd, cd, direttamente nei gloriosi anni ’90, quelli della Rinascita Inosservata.
I monopolisti dell’italica cultura possono proseguire tranquillamente con le loro politiche economiche di produzione di carta da culo usata, possono ignorare chi crea opere d’arte e contribuisce con apporti significativi alla cultura. L’establishment, anzi, deve necessariamente mirare all’autoconservazione e al proprio perpetuarsi, plasmato e informato di presunzione, ignoranza, incompetenza, malafede, piaggeria, connivenza e clientelismo. D’altronde “il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura”.
Gli artisti liberi, che si rivolgono a Ilaria Palomba come al Vate della rivalsa, Oracolo pervaso di stile impeccabile e traspirante bellezza, potranno morire in un giorno non molto lontano, perché il loro cuore non reggerà la fatica.
Nonostante l’apparente gratuità del sacrificio però, sarà la Storia a versare il suo tributo all’arte, come è sempre stato. Non abbiamo paura. Il giorno del boom al petto, sarà stato senza dubbio un buon giorno per morire. Una pagina: “L’Oracolo ti disse: Non è mica facile stare con te. E tu hai avuto paura di essere solo una terra di passaggio in cui ciascuno semina fiori che nessuno raccoglie”.
Luca Perrone
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Il lavoro intellettuale speso con felicità sul libro di Ilaria mi ha ispirato alcuni versi. Nell’intento, il riportarli in questa sede vuol essere un omaggio all’autrice e un ulteriore messaggio per il pubblico che leggerà “Disturbi di luminosità” (Gaffi, 2018). Spero di non essere frainteso.
Scava la deflagrazione.
Il cratere luccica agli astri
sovrappensiero e brillo
erutta l’atro meteorite
scova diamanti la tenebra
torbide come ascessi neonatali
mietono cinque sfingi
spoglie galere vestono
immane riverbero lunare
accosta il palmo e quieta
genuflette ai posteri la miseria
Ricuci attenta ogni assenza