
“Contestazione assoluta e totale”. Il Gruppo 63 & il manifesto “Per un nuovo teatro” di Scabia
Teatro
Alessandro Carli
La voce prima delle sue parole. Un gracchiare che sembrava provenire dall’oltretomba, anche grazie all’effetto distorsivo dei tubi. Solo che, a differenza del cilindro che separava Pehnt da Pekish e che disperdeva, o solamente assorbiva i suoni (“Castelli di rabbia”, Alessandro Baricco), qui il suo timbro francese arrivava sino alla platea.
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“Per farla finita col giudizio di dio” è un’opera radiofonica di Antonin Artaud registrata nel novembre del 1947. Una commistione incendiaria di voci, tamburi e xilofoni che ottengono un risultato altro: agghiacciano. E nella sublimazione della parola, sparano la poesia nell’orbita scivolosa e senza ritorno di quello che non si può dire.
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Non occorrono ricorrenze per ricordare i Maestri: basta solamente un po’ di attenzione e di curiosità. E pazienza se il francese non è coglibile: non è necessario capire sempre. La matematica è praxis, saper fare. Pòiesis è attesa, è sedersi e aspettare, accogliere l’arrivo senza chiedersi il significato. Senza voler sapere cosa c’è oltre il muro.
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Aghi negli occhi. Tipo “Arancia meccanica” di Kubrick: Artaud è un ago che si conficca nelle pupille senza farle sanguinare. Le buca per farti vedere meglio.
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Più che farla finita con giudizio di Dio, il “poeta nero” cesura l’arte scenica. E per farlo sceglie la ghigliottina più sottile: la penna. Questione di millimetri, non di chilometri. Ma l’effetto che produce è degno del primo grande orafo del mondo. Imperfettibile.
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“Il teatro deve smettere di proporsi come un doppio della vita, ma diventare vita”.
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In fondo l’idea di metateatro non era nuova: ci aveva pensato Pirandello. Qui però Artaud dà un ulteriore sviluppo al dogma. Stesso paradigma, più o meno, con la differenza che le radici attingono a humus diversi: quello del Nobel di Girgenti nell’eterno gioco delle maschere sociali che si è costretti a indossare per essere accettati, quelle di Artaud nella pazzia allucinatoria che si abbeverava di laudano (un composto a base di alcol e oppio) e di altre droghe.
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“Io sono l’uomo crocifisso sul Golgota. Ma l’uomo crocifisso sul Golgota non si chiamava Gesù Cristo bensì Artaud. La cosa d’altronde non è avvenuta come la raccontano”.
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Artaud ha inventato il “teatro della crudeltà” lì dove la “crudeltà” è intesa come quello stimolo al sacrificio di qualunque elemento non concordante al fine della rappresentazione. Artaud riteneva che il testo avesse finito con l’esercitare una tirannia sullo spettacolo, e in sua vece spingeva per un teatro integrale, che comprendesse e mettesse sullo stesso piano tutte le forme di linguaggio, fondendo gesto, movimento, luce e parola.
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“Il teatro è prima di tutto rituale e magico e non è una rappresentazione. È la vita stessa in ciò che ha di irrappresentabile. Non si può continuare a prostituire l’idea di teatro, poiché il suo valore risiede esclusivamente in un rapporto magico e atroce con la realtà e con il pericolo”.
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“Per farla finita col giudizio di dio” era stato pensato come il primo atto del “teatro della crudeltà”. Poi è diventato un atto unico.
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“Per farla finita con giudizio di dio” è stato il secchio di acqua gelata che è arrivata addosso agli spettatori che hanno visto “Dovevamo scegliere (e siamo stati scelti)”, spettacolo di Fabio Biondi tratto da “Il minotauro” di Paolo Puppa in occasione della lunga presentazione a Pianoterra, nell’autunno del 2001. Un luogo appena fuori Rimini che oggi non esiste più.
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Una secchiata di parole in francese. Un brontolio espanso delle voci della mente.
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Nel marzo 1948 Artaud morì da solo nel suo pavillon, seduto di fronte al letto, con la sua scarpa in mano, forse per una dose letale di cloralio.
Alessandro Carli