26 Agosto 2019

Siniša Mihajlovič, l’uomo che milita nel miracolo, sembra il personaggio di un romanzo folle e scatenato di Nikolaj Leskov. C’è chi nasconde le proprie cicatrici e c’è chi si fa cicatrice sul volto cruento del tempo

Qualcosa che ha a che fare con la milizia, con una militanza al dolore.

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Prima che Belgrado fosse bombardata e la Jugoslavia straziata dalla ferocia, casa per casa, a setacciare ogni stimolo di crudeltà, a raspare a dentate i figli e i cugini, a ghigliottinare le famiglie, esisteva una squadra di calcio che faceva vedere le stelle agli avversari. Si chiamava Stella Rossa. Fu la Coppa dei Campioni del 1991, quella del Milan che esce ai quarti per via di un riflettore, nello stadio del Marsiglia. Quel Milan, detentore della coppa, beatificato dal tridente d’Olanda Rijkaard-Gullit-Van Basten, giocava contro l’Olympique di Jean-Pierre Papin, capocannoniere in quella disfida con 6 reti. In semifinale, Marsiglia recide facilmente le speranze dello Spartak Mosca.

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Sembra un cartellone da Guerra Fredda. Mosca, Belgrado, Monaco. L’altra semifinalista è la Stella Rossa, che sfida il Bayern Monaco. Nella Stella Rossa segna il grande Darko Pančev, poi autore di una sfortunata carriera con l’Inter; il numero 8 si chiama Siniša Mihajlovič. All’epoca Siniša ha 22 anni, oggi ne ha 50, ed è scavato dalla leucemia. All’epoca la coppa si giocò ai rigori e l’infallibile Siniša – tiratore numero 4 – non sbaglia. La finale si gioca al San Nicola di Bari, quasi un segno del destino di Siniša: la carriera italiana, che comincia con la Roma, procede con la Sampdoria ed esplode con la Lazio (nella stagione 1998-99 fa 8 gol in 30 presenze), con cui vince un campionato (vent’anni fa), due coppe Italia, altrettante Supercoppe italiane, una Coppa delle Coppe e una Uefa. Finirà di giocare nell’Inter, con le consuete qualità: genio strategico, talento tecnico, ferocia soffusa. Nella sua natura senza fronzoli l’inflessibilità è il carisma. Per la cronaca: quella Stella Rossa, che godeva del piede superiore e superbo di Dejan Savićević, vinse in scioltezza anche la Coppa Intercontinentale, al National Stadium di Tokyo, battendo 3 a 0 gli impalpabili cileni del Colo Colo.

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Bologna è una città teatrale: è la terra di Guido Reni, del pazzesco Compianto di Niccolò dall’Arca, dove la terracotta urla, di San Petronio, così bella per la tracotanza – è la San Pietro bolognese – e per l’incompiutezza. Ha, pure, una teatralità astrale, esistenziale, che alle orazioni del Carducci preferisce le bottiglie di Giorgio Morandi e i film di Valerio Zurlini – a Bologna si restaura il cinema, che è come dire, rassettare l’uomo. Mihajlovič a Bologna arriva dieci anni fa, nel ’08-09, senza particolare fortuna: spesso, però, basta un giorno per fare una vita intera. Subentrato quest’anno, nel gennaio 2019, Mihajlovič ha dato, a una squadra un po’ intontita, il senso, per lo meno la furia di arrivare alla salvezza con spavalderia (17 partite: 9 vittorie e 3 pareggi). Domenica scorsa Bologna è stata teatro di un gesto di grazia, di milizia al miracolo.

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In casa, contro il Verona, il Bologna, alla prima di campionato, ha pareggiato, gol di Nicola Sansone. In panchina, dopo un ricovero di oltre 40 giorni per arginare il male, Siniša Mihajlovič. La nota, sobria, del Bologna FC, che avvisava della presenza dell’allenatore ha scatenato l’entusiasmo. Siniša Mihajlovič è magro, le orecchie tese come un elfo, sembra un monaco, un personaggio scaturito da un racconto crudo e sognante di Nikolaj Leskov, come uno che lì per lì, roso dall’ispirazione, denunci la sua fede, vertiginosa, pietrificata.

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Il male si combatte ostentandolo? Finché c’è l’emergenza della vita, si viva, c’è sempre tempo per la prudenza. L’uomo che non ha paura di far vedere come lo morde il male e ne mostra la lotta, i segni, l’ammissione del chiodo, ti pone in una situazione di resa. Egli usa con violenza la sua debolezza – cosa puoi dirgli? Ti mette in inferiorità numerica: l’uomo che battaglia con il male e addirittura se ne incarica, se lo porta sulle spalle, lo fa vedere a tutta la corrida, come fosse un figlio neonato, reclama sospiro e commozione, ti ulcera. Il male si può vincere sopraffacendolo con lo scatto, con la rivolta – che poi la guerra la vinca il male, non conta, la vita a volte vale per un giorno di gloria. C’è chi nasconde le cicatrici e chi, mutato in cicatrice, si pone come ciò che non ha suture, come una ferita aperta. (d.b.)

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