17 Settembre 2024

“Poiché la carne è sazia, l’angelo interiore geme”. La poesia di Medardo Ángel Silva

Nel suo ultimo scritto, “per se stesso”, David Maria Turoldo scrive del suicidio di un ragazzino. Scrive del dolore, del dolore che fa impazzire (“la sofferenza ti fa impazzire”). E di un ragazzo senza nome che si toglie la vita. “Proprio in questi giorni il figlio diciassettenne di una mia amica si è suicidato, sparandosi un colpo di pistola: a 17 anni!”.Dice, Turoldo, di voler scrivere “in ginocchio… o meglio, prostrato a terra come certo doveva sentirsi il Cristo nell’orto degli Ulivi”. Forse non c’è altra postura per scrivere: in ginocchio, prostrati, in pura elargizione di sé.

Turoldo muore il 6 febbraio del 1992; nel suicidio del diciassettenne, muto, che ammutolisce, forse, il trabordante mistero del Crocefisso, il punto che annienta.

Cosa significa scegliere di ammutinarsi alla vita a diciassette anni? Perché?

A noi è dato soltanto mutare le braccia in sudario, sederci alla veglia – silenziare la risposta dacché il suicidio è il luogo dell’uomo tutto intero. Disintegrato, dunque. E se quella energia fosse stata elargita per fare altro?, si domanda Rainer Maria Rilke, dopo aver visto il corpo di un suicida ripescato dalla Senna, in una lettera alla poco più che diciassettenne Anita Forrer. Ci si suicida per sovrabbondanza d’energia, per nera vitalità?

La letteratura inglese moderna nasce intorno al corpo di un suicida. Thomas Chatterton si ammazza, diciassettenne, il 24 agosto del 1770, con l’arsenico. Nato a Bristol, poeta dalla precocità colosso, tentò fortuna a Londra – nessuno capì il suo screanzato talento; d’altronde, non aveva ‘padri’ particolarmente nobili. Intriso del mito medioevale dei preromantici, suggestionato dalle chiese in rovina e dai manoscritti ritrovati, Chatterton s’inventò un alter ego, Thomas Rowley, fittizio chierico del XV secolo, che scriveva ballate ed ecloghe in antico inglese. La sua tragica storia favorì leggende: Hanry Wallis, pittore preraffaellita, ritrasse The Death of Chatterton in un quadro-icona. Il ragazzino, d’apollineo pallore, ha la bellezza di un Emmanuele, di un predestinato. Dalla sua morte, trattata come la rivolta del genio contro l’ottusità del tempo e l’idiozia dei pompier, i sarcofaghi cultori di una cultura accademica, Alfred de Vigny trasse un dramma, Chatterton, appunto, e Leoncavallo un’opera, rappresentata per la prima volta a Roma nel 1896. Dylan Thomas fece di Chatterton – come di Gerard Manley Hopkins, poeta pur d’altra tempra – il proprio Orfeo da scrivania.

Nella vicenda di Chatterton il suicidio giunge per eccessiva maturità. Pare che il poeta – al cospetto dell’alato nemico, Horace Walpole, che non lo degnò d’interesse – abbia vissuto più vite, così da potersi permettere di perderne una per frivolezza. È la sua eccezionalità rispetto ai letterati in gorgiera dell’epoca, la sua maturità, appunto, a renderlo per sempre giovane, a conferire alla sua opera una freschezza a tratti irraggiungibile.

D’altra parte, all’altro lato del mondo, abbiamo un altro giovane suicida, che s’ammazza per motivi diametralmente opposti a quelli di Chatterton. Medardo Ángel Silva prepara con cura la propria morte. Si veste di nero, scarpe di vernice, foulard. Maneggia il bastone; attraversa il parco San Augustín di Guayaquil, si dirige presso la casa di Rosa Amada Villegas. Pare abbia soltanto un fucile in canna. Due giorni prima ha compiuto ventun’anni. Rosa ne ha quattordici. La sua è una bellezza paga, senza vento. “Siamo stati innamorati per poco; anche se lo avessi amato per davvero, non sarei mai stata felice al suo fianco”, dirà, troppo tardi. È il dieci giugno del 1919, le nove di sera: il poeta si spara un colpo alla nuca. Con la morte di Medardo Ángel Silva possiamo dire che la letteratura dell’Ecuador entra, feroce come un proiettile, nella modernità.

Medardo Ángel Silva (1898-1919)

Nato in una famiglia di musicisti – il padre era un raffinato accordatore di pianoforti –, Medardo Ángel Silva compie studi disordinati, secondo la sequela di un talento selvaggio. Scrive le prime poesie a dodici anni, entra nella redazione de “El Telégrafo”, per cui racconta, celato dallo pseudonimo di “Jean d’Agrève”, la vita del flâneur sudamericano, le strade dei bordelli e delle camere da oppio,

“l’ora del postribolo e delle bische gonfie di carni lacere e di anime abbrutite, l’ora del pugnale omicida e della romantica serenata…”

Si fa cantore della notte, dell’impeto nottambulo del poeta moderno – si atteggia a dandy: i capelli laccati, lo sguardo severo, di bianca violenza, gli occhi sottili, da rapace e il perenne pince-nez. Pare un giaguaro in cravatta e bavero alto. Memorabile il servizio sulla Tristeza del burdel, dove racconta di “corpi inflacciditi dal vizio”, di “abiti dai colori accesi e dall’eleganza sfatta”, di donne in cui “il rossetto assegna l’ironia di una rosa a zigomi scheletrici”. In lui, i temi di Baudelaire e di Verlaine si misurano con un’esuberanza australe – ciò che parrebbe decadente, ormai fuori tempo, fiorisce di una inattesa voluttà – per paradosso, crediamo ai sovrabbondanti ardori di questo ecadoriano che a quelli, avvezzi alla maschera, di uno scrittore di Parigi.

Pur senza appartenere ad alcun gruppo, Medardo Ángel Silva è il capofila della cosiddetta “Generación decapitada” – parallela alla lost generation nordamericana – che ha imposto una svolta modernista alla poesia di quell’area di mondo. Ciascuno di quei poeti – Arturo Borja, Humberto Fierro, Ernesto Noboa – fu razziato dall’arte, lacerato dalla poesia, indossandola come diktat esistenziale, come un codice che sfociò, spesso, in una morte immatura, implume.

Il binomio amore/morte era troppo evidente per vedere altro: Medardo Ángel Silva diventò leggenda, le sue poesie – El alma en los labios è la più nota, dedicata alla ritrosa giovanissima amata – furono messe in musica, interpretate da generazioni di cantanti, divennero popolarissime. Aveva una figlia, María Mercedes, avuta da una ragazza, Ángela, orfana, ospite dei suoi genitori. Pubblicò un unico libro, El árbol del bien y del mal, stampato nel 1918 in un centinaio di esemplari. Il libro ebbe tuttavia un successo straordinario, tale da rendere il suo giovane autore il più autorevole poeta del paese.

In effetti, il libro – costituito da poesie scritte tra i sedici e i vent’anni, con selvatichezza rimbaudiana – dimostra (anche qui) una straordinaria maturità: Medardo Ángel Silva muta toni e modi, passa dal poema (La investidura) al sonetto, dagli stornelli d’amore (la sezione Libro de amor) alle atmosfere gotiche (l’ultima sezione, Suspiria de Profundis) che più che ai simbolisti francesi si rifanno, per rifrazione, a Edgar Allan Poe e a Thomas de Quincey, segno che il poeta leggeva, letteralmente, disordinatamente, di tutto. La parte più bella del libro è quella costituita dalle Estancias, brevi poesie – spesso dardeggianti quartine – dalla furia epigrammatica, dal nitore sapienziale, dalla postura stoica. Il poeta le ha scritte nel 1914, a sedici anni, segno che in poesia la maggiore età, l’adultità del talento non si misura con il nostro calendario. Naturalmente, si tratta, qui, di singolarità irripetibili.

Voglio dire: il libro di Medardo Ángel Silva ha una risolutezza precisa, al diamante – è stato pubblicato per non avere seguito, in ostilità ai seguaci. Inseguendo se stesso, il poeta doveva soltanto sigillarsi in una fine. Ad alcuni è data la rinuncia, ad altri la carriera letteraria – lui scelse: soffrire per amore. Il proiettile gli fu Cerbero e cane da caccia.

***

Da Stanze

Dirupi le tue pupille, trascinano
le anime dal sonno al nulla.
(Donna, illustrami i tuoi dolci malefici
uccidimi col pugnale del tuo sguardo).

Piccole perdute mani, gigli
di carne, caute nel decapitare…
(Donna, ti offrirei mille vite
perché tu possa sottrarmele, una ad una).

*

Non voglio né anelo, nessun desiderio
lacera il crepuscolo della mia anima.
Ho bagnato le labbra nel latteo Lete
e la morte elargisce ora il suo dono più bello – la quiete.

Delle passioni ho spento il fuoco
non sono che la brace di ciò che fui.
Nel buio, come un bambino cieco, cerco
il sentiero negromante che porta all’oblio.

*

“Così distante il dolce, timido ragazzo
da quest’uomo pallido, reso al vizio”.
“Ha spiccato il fiore della lussuria dall’albero
cattivo, gli si è avvelenato il cuore”.

*

“E la vera luce… la pace assoluta
la figura esatta della Sapienza?”

“Dai tregua al Tempo, cuore miraggio
e varcherai il sommo silenzio che tutti attende”.

*

Poiché la carne è sazia
l’angelo interiore geme:
“Chiamano questo amore?
Infinita miseria della carne

dolore senza veli…”. Psiche
dall’iride di cristallo, verso
purissimi cieli si libra
con ritmo celestiali, auree ali.

**

A una triste

Al vago delle celestiali cetre
del vento che divaga nel bosco
tu canti, e non si sa se sospiri
o se è l’usignolo che ti imita.

I tuoi occhi neri dallo sguardo dolente
non so in quale quadro di Rossetti li ho visti
e mi ricordano inconsciamente
gli occhi malinconici di Cristo.

Amo la tua bellezza così dolorosa:
il tuo dolce volto di vergine martire
coronato di mistica tristezza.

Vale più di tutto ciò che esiste
il tuo spirito romantico, che ha
una suprema eleganza triste.

*

Con l’anima sulle labbra

Per la mia amata

Quando la fiamma appassionata del nostro amore
nel petto amante, contempli ormai spenta,
poiché solo per te la vita mi è cara,
il giorno in cui mi mancherai, mi strapperò la vita.

I miei pensieri, pieni di questo amore
in un’ora felice mi hanno reso tuo schiavo.
Lontano dalle tue pupille sono triste come un bambino
che si addormenta sognando il cullare della tua voce.

Per avvolgerti nei baci vorrei essere il vento
e vorrei essere tutto ciò che tocca la tua mano;
essere il tuo sorriso, essere il tuo respiro,
per poter stare più vicino alla tua bocca.

Vivo delle tue parole, eternamente spero
di chiamarti mia, come chi aspetta un tesoro.
Lontano da te capisco quanto ti amo
baciando le tue lettere, piango ingenuamente.

Perdonami se non ho parole con cui posso
dirti l’ineffabile passione che mi divora;
per esprimere il mio amore posso solo
aprirmi il petto, Amata, e nelle tue mani di seta
lasciare il mio palpitante cuore che ti adora!

*

Morte profumata

Convalescente di quella strana malattia,
per la quale solo tu conosci la cura,
come un fuggiasco dalla tomba
la sera mi ha scoperto, spettrale e arcigno.

Ha reciso le mie gioie la Sventura
come un gregge innocente e candido,
sotto la falce dell’antico disincanto
agonizzava la mia fugace ventura…

Come una chioma grigia e spettinata
la pioggia ondeggia dietro la finestra…
In quella sera pallida e moribonda

ho sentito nella mia dolce prostrazione inerte
la bella tentazione di darmi morte
tessendomi una corda con la tua parrucca.

*

La strana visita

Di notte la Morte visita le alcove
dove dormono i nostri appetiti bestiali:
da buon vendemmiatore, sceglie i frutti
dalle sue vendemmie eterne.

Una volta al mio fianco è venuta silenziosamente
e, come fosse un membro stretto della famiglia,
mi ha accarezzato le mani, mi ha baciato la fronte;
capii tutto…

Da quella veglia
marcia con me
si sdraia sul mio letto
il suo sguardo scuro cinge tutta la mia vita…

Non vedi, dal mio agire, che sono come alla ricerca
del mormorio con cui naviga la sua misteriosa barca?

*

Sonetto

Ho invocato il tuo cuore… e non mi hai risposto…
Ho chiesto ristoro a droghe fatali per le sue pie bugie…
Invano! Contro di te nulla può l’oblio:
rimarrò schiavo dei tuoi gloriosi piedi!

Ho invocato nella mia veglia l’immagine della Morte
e del Werther germanico, la memoria del suicida…
Inutilmente! La paura di perderti
è più forte del mio orrore per la vita!

Puoi anche sorridere e sentirti felice:
l’aquila ai tuoi piedi è diventata farfalla;
Dalila ha tagliato i capelli a Sansone;

la mia anima è un piedistallo per il tuo corpo leggiadro;
e le ali, destinate un volo infinito,
come un tappeto di piume spiego sotto i tuoi bellissimi piedi!

*

Nell’atteggiamento di colui che non si aspetta nulla…

Nell’atteggiamento di colui che non si aspetta nulla
ci ubriachiamo di vaghe teorie,
sognando di far germogliare la Primavera
dall’infezione delle nostre stesse ferite!…

Signore, abbiamo peccato contro la tua Legge
e, invece della dolce anima che ci hai dato,
nell’ultimo giorno ti offriremo
un cuore lebbroso, vecchio e triste!…

Ángel Medardo Silva

***

Il segno del predestinato, la bellezza dei naufragi. Sulla poesia di Ángel Medardo Silva

Non l’ho conosciuto. Ma leggerlo è ascoltarlo e nella sua voce, penetrante e persuasiva, un tono di confidenza ci trattiene, più attenti al luogo in cui si muove un’anima che alla musica delle strofe. Mentre il canto leggero trema nel silenzio, il vero peso delle sue parole scende in noi come in segreto, fino ai pozzi nascosti dell’anima, dove si celano lacrime arcane, quelle che non sgorgano mai dagli occhi e che nessuna felicità potrà mai esaurire. Il suo precoce senso della vita, la sua triste prescienza dell’amore, di cui tutta la sua poesia è intrisa, hanno un tale sentore di quell’amarezza che precede e supera tutte le nostre vicissitudini, che basta una goccia lasciata cadere a caso in un verso per lasciaci impregnati di inquieta malinconia. È altro il tocco infallibile della poesia?

Non l’ho mai incontrato. Ma tra i poeti della mia terra, che allora innalzavano l’orgoglio dei loro vent’anni come un grappolo di ebbrezze riservato solo a loro, solo in lui si poteva riconoscere il segno del predestinato. Era segnato da un destino di gloria e lutto.

Tris les Saturniens doivent souffrir et tels mourir… come nella poesia di Verlaine.

La morte! Vedrete come passa e ripassa, come svolazza allegra e si posa familiare e meditabonda, in quelle sue poesie funebri che sembrano rabbrividire al soffio del mistero con un mormorio di fronde notturne. Sentirete come canta e piange, in certi versi così pieni di nefasta disperazione da piegarsi come rami neri carichi di frutti letali. La morte! Unica sposa della sua anima. Dalla sua bocca cinerea, il poeta bambino attendeva, con una stanchezza secolare, il bacio inafferrabile. Lei lo tentava e lo eludeva, con mutevoli e incostanti promesse. Finché lui – a ventun anni! – si avviò all’appuntamento. Con le sue stesse mani recise la propria vita come una vite appassita, e la offrì a un triste amore, o a chissà quale oscuro potere della terra o dell’ideale.

Un altro poeta, suo compatriota, fratello nell’angoscia e nel sogno, lo precedette, senza dubbio lo chiamò dal profondo come una guida dedalica. L’esempio di Arturo Borja, che un chiaro mattino, a Quito, falciò il fiore della sua giovinezza, ha indubbiamente esercitato un’attrazione funesta sulla sua generazione e su quella successiva. Suicidi estetici? Tormenti immaginari e atteggiamenti letterari? Vili ribellioni? O forse disperate immersioni nell’insondabile? Il cerchio ossessivo e attraente delle ombre fraterne: Acuña, José Asunción Silva, Dolores Veintemilla de Galindo, Teresa de la Cruz, tanti altri poeti minori per genio ma non per dolore, che si legano per leggenda o per biografia, non forgiano già una catena magnetica?

Tra i loro immediati predecessori o compagni, quelli che non cedettero all’incubo del suicidio furono più deboli o più coerenti con se stessi, chiedevano alle droghe un talento illusorio o una voluttà ingannevole: morirono presto, narcotizzati in vita per lo spirito o per l’arte. È difficile giudicare a quale forza fatale abbiano obbedito, ragazzi spinti dalle torbidezze mal decantate della loro impetuosa primavera. La loro epoca è segnata da più di tre croci maledette. Per giustificarla, sarebbe necessario ricostruire l’atmosfera di quegli anni. Non è possibile in uno spazio così ridotto disegnare il paesaggio spirituale di quella desolazione. Dunque, vorrei solo ricordare, con molta leggerezza, un’impressione personale, come testimone fraterno, anche se non complice.

Tra il 1910 e il 1915, sei o sette giovani poeti vagavano nella triste Quito, percorrevano quelle strade che “si inclinano” e “scivolano”, contrastando l’enfasi delle loro capigliature con l’estrema correttezza del loro abbigliamento, e indossando, per maggiore eleganza, un’anima tormentata e falsa. Falsa? Forse no. Falsificata forse da un eccesso di letteratura recentissima, ma già così connaturata da dare loro, e anche ad altri, l’illusione di una sufficiente sincerità. Erano liricamente agitati da un caos di aspirazioni estetico-voluttuose. Ma un unico anelito affiorava in loro come da una fonte inesauribile: uscire dalle montagne che li circondavano, uscire da quell’angolo di mondo per entrare nel mondo dell’arte, della passione e dell’avventura letteraria! Recitavano ovunque come un’antifona un sonetto nostalgico del poeta più puro tra loro, il compianto, fine e amatissimo Ernesto Noboa Caamaño, il sonetto della partenza senza meta, della smania esorbitante. La letteratura più esclusiva, la poesia più moderna, la cupa magia della morfina, erano per loro un modo di espatriare, di perdere il contatto con gli altri e con la realtà, di segregarsi da un ambiente considerato irrimediabilmente inferiore e barbaro, di una barbarie priva di qualsiasi prestigio, dal momento che la realtà già inventariata o inventata dalle letterature civilizzate, era più di loro gradimento rispetto ai capolavori della cultura classica, altrimenti ignorati o trascurati con giovanile abbandono.

In effetti, in tutte le città ispano-americane, la stessa febbre di novità accendeva la stessa nostalgia. Ma tra le cupe colline la situazione era ancora più critica. Riconoscevo in essa la mia vecchia inquietudine, anche se mi sentivo già immune: avevo già chiuso il mio ciclo ritornando all’ineluttabile legge delle origini, attraverso l’accettazione dei limiti e il ritorno consapevole al primordiale, secondo la terapia di Barrés. Sapevo però troppo bene che da quella febbre non si guarisce se non cedendo a tutte le sue tentazioni raggiungendo, per saturazione, la disillusione fatale. Perciò non la disprezzavo nei miei amici più giovani; al contrario li incoraggiavo, fornendo loro letture e seguendoli in conversazioni che alimentavano il loro male ardente. Mi interrogavano, amplificando tutto con affascinata curiosità.

Vivevano così come sospesi dai miraggi al di là delle montagne e dei mari. Turbati da tali intimi incantesimi, come potevano rimanere, se non insoddisfatti, non solo nell’angusto quadro del loro luogo di nascita, ma nemmeno in rassegnata comunione con la semplice condizione umana del loro destino?

Al ritorno dall’Europa – è dall’Europa che di solito si scopre l’America, e non solo l’America: si scopre anche la patria – mi sono scoperto innamorato della tenerezza della valle natia. Portai con me il fervore del neofita per “ciò che è nostro”. Era una sorta di rimorso e di desiderio di riparazione, una forma effusiva di amore tardivo. Avrei voluto, allora, ritrovare in quei fratelli minori della pianura e della montagna, rivisti con occhi più candidi, anche se più esperti di quelli duri di un tempo, lo stesso attaccamento al proprio, lo stesso stupore per il quotidiano, e la convinzione che, per il rinnovamento della sensibilità letteraria e la rinascita di ogni attività spirituale, l’unica cosa da fare fosse cercare l’espressione artistica di tanta rustica bellezza non ancora rivelata, che attendeva solo il loro tocco per nobilitarsi e per stabilire una genuina tradizione. Ma tutti rifiutarono una sana conversione. Preferirono restare malati di prelibate patologie. E fecero del mio ritorno soltanto un motivo amichevole per compatirmi per essere ricaduto nell’abisso della noia in cui si consumavano con inutili desideri. È vano pensare di calmarli o dissuaderli. Quello che volevano era liberarsi, fuggire, essere altro. La cosa più auspicabile, dunque, secondo me, era che si preservassero al meglio da modelli inassimilabili, da imitazioni grottesche e dal cattivo gusto. Poi sarebbero tornati, di loro iniziativa, ai poeti della generazione nascente, nella misura adeguata alla loro verità.

Ed ecco infatti, all’improvviso, con un’innata e istintiva purezza classica, un poeta, modernissimo per nozione, accento e sentimento, affina, riassume gli sforzi dei suoi predecessori e compagni, dà l’atteso diapason.

Come se prevedesse che il suo ricco miele non poteva cagliare lentamente nel breve sole dei suoi giorni, Medardo Ángel Silva apparve portando, come gradito compenso, una tempra precoce di maturità e pienezza. Riuniva in un fascio armonioso e sobrio l’inquietudine degli aneliti più acuti di Arturo Borja (che forse si era ucciso per salvare il suo ideale e il suo orgoglio, addolorato dalla convinzione di essere inferiore alla sua impresa) con il gusto inquieto e suggestivo del nictalope Humberto Fierro (perché taceva?), la sincerità davvero lacerata di Noboa e gli slanci di mistica mansuetudine dell’amico Egas. Tutte le ricerche di immagini e ritmi del suo gruppo e di quelli che l’hanno preceduto, lui le ha improvvisamente raggiunte, portando con se tutto il suo estro profondo e disinvolto, prodigo e preciso.

Una somiglianza, tuttavia, domina tutte le sue affinità. La sua anima, il suo ritmo intimo, il suo dono supremo, sono della stirpe del miglior Rubén Darío, del Darío autunnale, e non più quello dell’autunno decorativo della sua sofferente Versailles, ma quello della vendemmia del cuore, quello dei “grappoli neri” che una malinconia epicurea spreme fino agli sgoccioli la sua vita.

Ci sono versi, strofe, poesie di Medardo Ángel Silva che potrebbero benissimo passare per inediti di Darío. E non dico questo per insinuare che ci sia un accenno di mimesi o di imitazione inconsapevole, ma per esaltare una risonanza che denota la purezza del cristallo ferito. Due voci dal timbro concorde hanno modulato lamenti simili davanti alla stessa visione del mondo, una visione creata dall’uno e riflessa dall’altro, è vero, ma che, grazie alla diafanità del riflesso, può essere confusa, come il cielo rovesciato del lago. Quando un’eco del Darío, della sua devozione si riverbera in Silva, un accento affettuoso rivela come egli abbia fatto propria la primaria emozione; si vede il poeta sincero, filialmente sottomesso ai dettami del Padre e Maestro. Senza Darío l’apparizione del tropicale silvano sarebbe stata problematica. Ma va detto che, alla sua età, poche poesie ci ha regalato Darío che sembravano così definitive come queste, in cui il suo epigono ha fatto rinverdire i suoi rami opulenti.

Se Darío non fosse esistito, Silva avrebbe trovato la sua pietra filosofale in Moréas. La rotondità piena di pensiero armonioso e malinconico, la gravità ponderata del ritmo, l’austera e dolce sobrietà delle Stanze, trovano un parallelo nelle stanze del discepolo meditativo. Sono le sue poesie migliori, quelle le cui due strofe corrono parallele verso l’infinito. Nella monotona simmetria delle quartine gemelle come Amore e Morte, che evocano l’inflessibile e universale dilemma del destino, egli racchiuse un lungo respiro con grande parsimonia, e nell’intenso ondeggiare del sentimento poetico troviamo come la sistole e la diastole si gonfiano e rilasciano un’emozione perenne.

Pubblicò un solo libro: L’albero del bene e del male. Un piccolo e raro libro in cui c’è tutto. Pubblicato a Guayaquil, circolò poco in America, ma suscitò ovunque quel mormorio di stupore che si leva al passaggio di un poeta, anche tra la folla: ormai uno sciame delle sue strofe vola al ritmo delle chitarre. Perché nel suo libro c’è tutto, ma soprattutto c’è un’anima.

Ha dato alla luce quel libro poco prima di tagliare, come un nodo funesto, il filo della sua vita. Ricordo che stavo leggendo qui a Parigi, senza che nessuna telepatia mi avvertisse, la copia che mi aveva inviato insieme a una lettera serena: forse la leggevo il giorno in cui i suoi amici tornavano soli dal cimitero. Senza prevedere il dramma lontano, la mia matita sensibile, pronta all’emozione della prima lettura indicava come le più belle, forse perché le più profonde, le strofe che l’ossessione della morte appare come una cupola oscura, come un cielo gravido. Attento al dono letterario e alla promessa di futuro che quelle poesie contenevano, ho voluto vedere nel disincanto, nella precoce stanchezza del nobile tedio, più che l’alone sfortunato di un destino prossimo, soltanto un atteggiamento da efebo eletto che mi ricordava, non so perché, quel Genio Funereo dell’antica Grecia descritto da San Vittore: “C’est un bel adolescente qui s’appuie à un arbre ou à une colonne, les mains croisées sur sa tête: son pied foule mollement una torcia éteinte”. Ma l’ombra, passando in voli sussurranti, insisteva come un oscuro monito. I suoi aneliti di pace sorgevano, bolle dalle ignote profondità fatali, come fremiti premonitori, fino alla superficie dell’anima, in un brivido come quello che fa irretire la pelle al lamento dei violini.

Presto ne conoscemmo l’esito. Lo spirito riflessivo di fronte alla morte enigmatica sente espandersi, oltre la tomba, la voce del persistanatos in cui non abbiamo creduto. Queste prove superflue ma irrevocabili accrescevano il nostro rammarico per non avergli tributato in tempo la nostra augurale e inquieta ammirazione. L’elogio postumo si copre il volto come un inutile piagnisteo.

Il suo canto lo avrebbe redento, un canto liberato e liberante, come una laude dannunziana. La sua giovinezza lo ha offuscato. La sua giovinezza lo ha ucciso. La giovinezza non ha potuto essere la sua età felice. E tranne coloro per i quali non è altro che pletora giocosa: rozzi saltelli in un campo fiorito, la giovinezza non è la verità, ma quella attesa inappagabile di chissà quale beatitudine, che serve solo a staccarci da ciò che possediamo, per inseguire qualcos’altro e qualcos’altro ancora; è solo ansia, urgenza, orgoglio insoddisfatto e avido. Pur bruciando e piaffando, arde invano, tutto è sprone e quindi ferita, e di desiderio in desiderio, il suo ansimare continua senza sosta, dietro al miraggio della donna che sorride senza capire, dietro al sé che ci illude come un estraneo.

Si dice che un giorno andò a un ballo portando in tasca Tommaso da Kempis e che, mentre le coppie volteggiavano, si mise a leggere vicino a una finestra i consigli sul disfacimento di ciò che è terreno. Senza enfatizzare la posa di voler svelare così il contrasto che tanti di noi portiamo, tacito e tagliente come silicio sotto vestiti mondani. Aveva capito che la felicità era possibile nella malinconia, già sconfitta dal distacco, accompagnata in sordina dalla saggia riflessione della stanchezza. La sua era la musica dei ricordi e della filosofia, non il frastuono albeggiante delle illusioni che devono tacere nell’ora della verità meridiana.

“Non tenta più la mia anima
il dolce sguardo o la bocca perfetta
penso al terzo giorno
di permanenza nel sepolcro”.

Ma senza dubbio non voleva invecchiare prematuramente, coprendo di cenere e veli il suo illusorio vanto. Infausto, triste distacco sembrò avverarsi nella rinuncia. Non trovò altro rimedio al suo malanno giovanile che quello allucinante e nero. Mescolò il veleno dei libri con la perfidia della vita, e mise a tacere un cuore melodioso, perché si compiaceva solo della bellezza dei naufragi.

Gonzalo Zaldumbide[1]

*La scelta e la traduzione dei testi è di Diana Mazon

*In copertina: dettaglio dalla “Caduta degli angeli ribelli” di Pieter Bruegel il Vecchio, 1562


[1] Saggista e critico letterario tra i più influenti della cultura ecuadoriana, Gonzalo Zaldumbide (1883-1965) si è occupato, tra gli altri, di Gabriele d’Annunzio – suo pilastro poetico – e di Henri Barbusse. Figlio del poeta romantico Julio Zaldumbide, è stato ambasciatore del suo Paese a Parigi, Roma, Londra e Ginevra. Tra il 1929 e il 1931 è stato Ministro delle Relazioni Estere dell’Ecuador.  

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