07 Ottobre 2024

“La vanità del tempo dilania la mia mente”. Sulla poesia di Jacobsen, il maestro di Rilke

Alcuni libri hanno il favore del metallo, del bracciale: tengono a distanza il maligno.

In dono, mi è offerta un’edizione dei Poems di Jens Peter Jacobsen: stampata da Basil Blackwell, Oxford, nel 1920, in cinquecento copie, la mia è la numero 309. Il gioco numerologico – svolgendosi per trinità – è facile, è fausto.

Alcuni libri vanno sempre tenuti in tasca – alcuni libri vanno temuti – alcuni libri vanno sguainati per vincere il mondo: si legge una pagina, l’aura-corazza è salda.

La carta del libro è importante, la legatura foggiata in un’Argolide di fili; il volume sta in una mano, contiene dieci poesie. Il traduttore, Paul Selver (1888-1970), educato in Inghilterra, scriveva su “New Age”, la testata per cui collaboravano, tra gli altri, George Bernard Shaw, H.G. Welles, Chesterton e Belloc. In particolare, Selver ha tradotto dalla letteratura ceca; in particolare, Karel Čapek. Dalle fotografie diffuse via Wikipedia, Selver ha il volto aperto; fronte ampia, labbra importanti, uno sguardo di voluttuosa profondità. Porta la casacca da soldato. Tradurre, in fondo, è una forma di milizia.

Le poesie di Jacobsen, di cui si offre in calce un breve repertorio, hanno una levigata cupezza. Sono testi fragilissimi, in lamina d’oro, con un lieve istinto ‘esotico’; sono testi che si appaiano alla nebbia, che si attardano a distanza di poiana. Alcuni – il primo in particolare, “nel giardino del serraglio” – sono stati ridotti in musica. Selver ascrive lo stile di Jacobsen all’“impressionismo”, il suo metodo “a un’abnorme sensibilità”; dice che l’autore “è così importante nella storia della letteratura danese da fare canone a sé”. Di Jens Peter Jacobsen (1847-1885), nato nello Jutland, cresciuto a Copenaghen, morto giovane, si dice di una vita “priva di eventi eccezionali”, dedita alla scienza – si è occupato di botanica, vagando tra remote isole nordiche; ha tradotto in danese le opere di Charles Darwin – e a pochi, miliari testi letterari.

In sostanza, Jacobsen è ricordato per il romanzo ‘esistenziale’ Niels Lyhne – in Italia lo stampa Iperborea – e per Marie Grubbe – in Italia stampa Carbonio – storia di una donna emancipata, di sgargiante sensualità. Il primo libro fu fondamentale per Rainer Maria Rilke; il secondo fu amato da D.H. Lawrence.

In sostanza, Jacobsen fu uno dei coloni della letteratura moderna: Thomas Mann e Hermann Hesse dipendono, nei loro estremi vagabondaggi romanzeschi, da lui; Rilke ne ‘impone’ la lettura ai pupilli, il “giovane poeta” Franz Xaver Kappus e la “giovane poetessa” Anita Forrer; nella biografia a lui dedicata, A Difficult Death (Yale University Press, 2017), Morten Høi Jensen ricostruisce le parentele letterarie tra James Joyce e Albert Camus con Jacobsen. In Italia – per comprendere i ‘carati’ dell’autore – Jacobsen approda presto, per Vallecchi, Carabba, Mondadori, Garzanti, tra gli anni Venti e Quaranta del secolo scorso.

Sovrabbondante violenza dei tempi: Jacobsen era ritenuto uno dei pionieri della poesia moderna; oggi vive in una zona d’ombra, nell’ambra delle cose dimenticate. Nel “Tesoro della lirica universale”, Orfeo, il volume-totem curato da Vincenzo Errante ed Emilio Mariano per Sansoni, Jacobsen è presentato con angelici aggettivi:

“Nato nel colmo del Materialismo (Darwin), Jacobsen vive, soffre e muore di questo unico problema: quale è il senso della vita se Dio non esiste? Studi scientifici (chimica, fisica, botanica) diedero alla sua penna una precisa forma di osservazione; il suo animo, pieno di sogni e di nostalgia, diede allo stile un magico potere evocativo, una vicenda di luci e di ombre, una lirica brevità di scorci, che fecero di lui – anche dal punto di vista tecnico – un grande precursore della poesia e della prosa moderne. J. morì tisico, dopo alcuni soggiorni in Italia. Spirito solitario, J. è un ateo, virilmente, tragicamente: perché il suo ateismo non è determinato dalla sua natura, ma dal secolo nel quale egli visse. Rilke imparò il danese solamente per leggere le opere di J. sul testo originale. E – attraverso Rilke – l’influenza di J. su tutta la poesia moderna è decisiva”.

La decisività di Jacobsen nella poesia europea è oggi decisamente impalpabile. Su Orfeo, Emilio Mariano traduce Arabesco sopra un disegno di Michelangelo; questo è l’attacco:

“L’onda
si intrise nella terra?
Su brividi leggieri
scivolando tra ciottoli di perla
forse di nuovo a grembo
ha trapiantato nel firmamento
dei mari?
No. L’onda –
un destriere impennato a duro morso –
levò sgrondante, enorme,
alto – nell’aria – il torso,
arrorando criniere di spuma
candida come piuma
per la schiena
di cigno.
Nell’aria s’intrise la vena
di fulgida rena
la forma d’un arcobaleno
di nebbia;
ma l’onda squarciava quel nembo
esalandosi fuori volgendosi
larga su ala di cigno
a candido lume di sole”.

La poesia Grecia – tradotta sotto – pone una nuova variante sull’Ellade ricreata a Nord: il mito è ormai inerte, il marmo è muto – Orfeo ha il cranio-stagno –, ma dall’umile alloro rinasce l’oro degli avi, una nuova avvedutezza.

Jens Peter Jacobsen (1847-1895)

Chi lo legge oggi Jacobsen? Il simbolo si è rotto in bolide d’acqua, il cuore è imbelle, biada per un destino all’equatore dell’uomo. Si tratta di contemplare e fugare i segni; vedere nella stella la vipera e il corvo; cose che richiedono cordialità con il creato, il preciso desiderio di perdersi. Scrittura, questa, da leggere all’alba, nella luce martire.

**

China il capo la rosa: rugiada
e profumi ne allentano l’ardore.
I pini ondeggiano nell’aria afosa
sono muti e spenti.
I fiumi rotolano, d’argento
sazi di ozio
i minareti puntano le lance al cielo
con musulmana integrità.
La luna cresce e scivola
sopra il liscio grano blu
e carezza il gregge di gigli e rose
ogni singolo bocciolo
nel giardino del serraglio
nel giardino del serraglio.

*

Solleva i calici, lucenti, esatti
il vino li tinge di rosso
come pietre preziose.

Il giorno svanisce
e la vanità del tempo
dilania la mia mente.

Cade il crepuscolo
la terra si volta
verso i fiumi del sole.

Rosa selvatica sul sentiero
rosa di vino, rosa divina
rosa selvatica sulla via
dov’è finito il radioso sogno della nostra
notte d’estate? Si dilegua come fluttua
una musica fugace.
Rosa divina, rosa di vino.

*

Scarpa di seta su un piede dorato!
Ho gettato l’amore su una ragazza!
Il mio amore è all’assalto!
Sulla terra solcata dal sole di Dio
nessuno può rivaleggiare con lei, lo giuro.
Pura come i cieli del sud
pura come le nevi del nord.
I miei cieli diventano erba
i miei ghiacci fermentano fiamme:
nessuna rosa è più rossa
di suoi neri occhi.

*

Grecia

Il marmo è bianco
ma non brilla:
i pilastri sono perfetti
ma non si innalzano.
Svanito è il germoglio dei capitelli.
La foglia d’acanto è appassita:
si sbriciola e la polvere si mescola con il plinto.
I calici d’oro sono vuoti
le loro metalliche urla sono silenti.
Ebe ha soltanto lacrime
Bacco corone vizze
e le pantere giocano con i tirsi.
I capelli di Zeus si fanno radi
Poseidone fa sbraitare il tridente
Febo mira il Sole con malinconia.
Pigri, i cavalli trottano
sopra lire prive di corda.
Le Muse dormono
decapitate le Grazie.

Ma l’alloro ha ancora tutte le sue foglie.

Un albero di alloro svetta tra i pilastri:
ha il fusto forte, vasto e la cima dilaga.
Sopra i pilastri, radicati con sapienza,
tramano viticci pieni di spine
e le foglie tornano a fare luce.
I fiori di quella pianta sono amati
da tutte le donne del Sud; il sentiero
si insinua tra i pilastri e ogni uomo
ammira le rose. Molti fiori
porta, perché siano sollevati.
Prima che il giorno sorga
quelle ricchezze fiorite fra tutti
sono condivise.

Perché l’alloro reca ancora tutte le sue foglie.

*In copertina: un’opera di Vilhelm Hammershøi

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