13 Giugno 2022

“Sono un uomo dispotico”. Yeats & la più bella antologia del secolo

Costruire un’antologia di poesie è come infilare una tigre in una bottiglia. Di solito l’esercizio è grottesco, da gatta morta accademica: come fai a impagliare ciò che per natura, ancora, morde, dilania, preda? Di solito, in Italia, l’esercizio antologico è pio e compilativo, dunque inutile, oppure sibillino, ipocrita, un po’ patetico: il critico patentato vuole far valere la propria visione su quella altrui. Bartolo Cattafi giudicava la più importante antologia della poesia recente, Poeti italiani del Novecento, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, stampata da Mondadori nel 1978 (che ancora fa canone), “il frutto di un’operazione bizzarra, snobistica, estremamente opinabile, rozzamente partigiana”. Il suo giudizio, esatto, tuttavia, non vale: Cattafi – tra i più grandi e misconosciuti poeti italiani del secondo Novecento – era stato escluso dal vasto banchetto lirico. Ecco: le antologie sono buone per acutizzare liti, spargere veleno, fomentare chiacchiere.

Quando la Oxford University Press chiede a Yeats un’antologia della poesia anglosassone, dalla morte di Lord Alfred Tennyson – Poet Laureate e re del gusto lirico di era Vittoriana – in qua, il poeta andava per i settant’anni, aveva ottenuto il Nobel per la letteratura nel 1923, icona d’Irlanda, era stato senatore dell’Irish Free State. Insomma, poteva permettersi ogni bizzarria. Per altro, spiritato, spiritista, esteta, innovatore, Yeats, pur conservando le proprie ossessioni di fondo, è poeta che più di molti cambia linguaggio, ascolta, osa: da The Countess Kathleen and Various Legends and Lyrics ai New Poems, l’ispirazione è la stessa, la forma lirica è opposta. Yeats conosceva – per tramite di Pound – il teatro Nō giapponese, stava traducendo alcune Upanishad, aveva scritto il proprio codice mistico, A Vision, e compiuto un vasto regesto di miti irlandesi; aveva toccato il teatro, il regno della fiaba, il genere saggistico, spesso autobiografico. Insomma, era poeta dalla sensibilità esasperata. La vecchiaia gli fece dimenticare l’indole fatua, propensa ai fuochi fugaci. Insomma: prese la commissione seriamente. Anche per questo, l’Oxford Book of Modern Verse 1892-1935 è una raccolta mirabile, un’autentica bibbia per chi ama la poesia inglese. Allo stesso tempo, Yeats è rigoroso e capriccioso, sagace e schifiltoso, arguto e ingenuo; più che un esercizio critico, la sua introduzione (di cui calchiamo alcune pagine) è una specie di autobiografia per libri, poeti, amici, e un manuale di pratica lirica. D’altronde,

“Sono un uomo dispotico e ho cercato di imporre la mia volontà sui tempi… non un uomo cooperativo. Se donerò la mia antologia a un uomo o, come è più probabile, a una donna, dovrò poter dire, ecco la mia tabella di valori”

scrive a Laura Riding, poetessa dal talento ambiguo, nell’aprile del 1936. Lei rispose rifiutando di essere antologizzata. Ad ogni modo, l’antologia di Yeats – vuoi per la personalità vuoi per l’effervescenza polemica – rimase inimitabile. Tra i quasi cento poeti raccolti, alcuni sono notissimi – Thomas S. Eliot, Ezra Pound, James Joyce, D.H. Lawrence, Walter Pater, G.K. Chesterton, W.H. Auden, Tagore, Rudyar Kipling, Oscar Wilde… – altri attendono degna riscoperta – esempi sparsi: Walter Pater, Roy Campbell, Edith Sitwell, Hugh MacDiarmid, Cecil Day-Lewis, Siegfried Sassoon, Stephen Spender – alcuni sono, almeno qui, degli eminenti sconosciuti – Julian Grenfell, Padraic Colum, Wilfrid Gibson, Herbert Trench. Yeats fu il primo a riconoscere il genio autentico di Gerard Manley Hopkins; fu il primo a denunciare, spudoratamente, di aver installato nell’antologia alcuni amici suoi come Margot Ruddock, Shri Purohit Swami, Dorothy Wellesley. Sprezzante, incurante di ogni critica, Yeats antologizza se medesimo: tra le sue poesie preferite spiccano Lullaby, Sailing to Byzantium, Coole Park.

L’antologia dà sempre l’idea di giocare a figurine; in verità, il bello è che ogni nome è una botola e una finestra, precipita in una storia. Yeats è bravo a tessere un intrico intrigante, ci lega la lingua al drago del suo intuito, non di rado crudele. L’antologia – l’esercizio più antico del mondo – aspira a vincere la morte, è una navicella proiettata in un futuro da primo uomo, quando, lappando i poeti, si dovrà ricostruire un nuovo alfabeto, in contrasto all’alba e alla calura, alla caduta. In Italia qualcosa di analogo lo ha tentato Edoardo Sanguineti, con la sua Poesia italiana del Novecento, uno spasso. Forse più intelligente di Yeats, Sanguineti, però, resta Sanguineti, un poeta infine modesto, e gli anni Sessanta non ammettono più l’epica fanciulla, screanzata, sul ciglio dell’abisso. 

Yeats conclude l’antologia con alcune poesie di George Barker, poeta di caustica precocità, poco più che ventenne (Eliot aveva pubblicato una raccolta dei suoi Poems per la Faber nel 1935). La sua carriera fu eccezionale: insegnò in Giappone, poi negli Stati Uniti; fece di tutto per disfare tutto: amò Elizabeth Smart – che lo mitizza in un bel libro, Sulle fiumane della Grand Central Station mi sono seduta e ho pianto –, collezionò quindici figli avuti da svariate donne, non per forza mogli; lo dicono “irregolare” e “apocalittico”. Yates ne riconobbe le stimmate del condannato alla poesia; l’ultima poesia dell’antologia oxfordiana è sua, s’intitola He comes among, è questa:

Egli viene in mezzo a noi
tra le schiere estive delle giovani
rose, nelle sue lunghe
mani porta fiori, dita;
sogna voliere in cui
cinguettano fenici,
le promesse scoccano
in estate, per non realizzarsi:

e poi, esangui cascate
di correnti ultraterrene, chiamate
che ricalcano la chiamata,
tentano con spirali d’eco l’oscurità
senza spazio del cuore, esausto,
e i sensi, inebriati, ruotano e bruciano
tra le lente foglie di un’era
vaga, che urge, che preme.

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The Oxford Book of Modern Verse 1892-1935 Chosen by W.B. Yeats

Ho tentato di includere in questo libro i poeti migliori, vivi o morti che siano, dai tre anni che precedono la morte di Tennyson ad oggi, eccetto due o tre che per il carattere intrinseco della loro opera appartengono a un periodo precedente. Perfino un uomo longevo ha il diritto di chiamare i propri contemporanei moderni. Alla generazione che ha cominciato a pensare e a leggere alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, i quattro poeti con cui inauguro il libro erano per lo più sconosciuti, di certo non suscitavano alcuna simpatia. Gerard Manley Hopkins è rimasto inedito per trent’anni. Cinquant’anni fa lo incontrai nello studio di mio padre, in diverse occasioni: non ne ho particolari ricordi. Un ragazzo di diciassette anni, con Walt Whitman in tasca, aveva poco interesse per un studioso tanto sensibile e querulo. I poemi di Thomas Hardy erano ancora in divenire, o ancora impubblicati. Robert Bridges pareva un modesto poeta vittoriano le cui poesia, pubblicata in maestosi libri stampati in proprio, si potevano trovare nelle teche di amici piuttosto abbienti. Ci è voluto del tempo perché il genio di questi tre facesse scuola.

Wilfrid Blunt l’ho conosciuto grazie alla segnalazione di alcuni amici: ne dicevano come di un dilettante, un uomo alla moda, che aveva sacrificato il talento letterario per l’avventura egotista. Sarebbero dovuti passare una decina di anni perché qualcuno capisse che alcuni dei suoi sonetti fanno parte permanente della nostra letteratura.

Un giovane appena sbarcato a Londra si sarebbe sentito respinto dalla fredda energia del verso di William Ernest Henley, l’avrebbe detta retorica, avrebbe associato quel poeta al propagandista che attraverso i giornali aveva trasformato i giovani di Oxford e di Cambridge in perfetti imperialisti. Henley giaceva su un divano, paralizzato da un’incauta giovinezza, trascinava il corpo con le stampelle, faticava a muoversi nello spazio di due stanze e immaginava le vastità del potere imperiale. Per un giovane nel pieno della lotta per la forma, disperando del successo, egli restava celato dietro lo schermo dei suoi effetti, troppo affettati ed efficaci. Non si sarebbe sentito rappresentato neppure da Oscar Wilde, quel giovane, a dirla tutta: lo avrebbe considerato un’esagerazione, autentico frutto della cupa colpa vittoriana. Uomo di società, drammaturgo nato, egli ordiva inganni per attirare l’attenzione su di sé. Anche quando fu colpito dal disastro, non poté rischiarare di mettere a nudo la sua anima. Nonostante molti versi efficaci, perfino la Ballad of Reading Gaol è spesso banale, artificiosa, arbitraria. Eppure, ho portato alla luce, di Wilde, il suo (quasi) grande poema: questo lavoro mi ha concesso un simile privilegio.

*

Ezra Pound ha fatto del flusso il suo tema; trama, caratterizzazione, discorso logico, gli sembrano astrazioni incongrue per un uomo del suo tempo. È a metà di un immenso poema in versi liberi, chiamato, al momento, The Cantos, dove le metamorfosi di Dioniso, la discesa di Ulisse all’Ade, si ripetono in vari travisamenti e travestimenti, associati a qualcosa di irripetibile. Ade, dunque, può essere l’inferno moderno in cui ogni uomo di oggi subisce la propria dannazione… Non c’è continuità temporale: si passa, senza soluzione, dall’antica Grecia all’Inghilterra moderna alla Cina medioevale; la sinfonia è senza tempo, flusso eterno, perciò immoto. Come altri lettori, ritaglio frammenti eccellenti e grotteschi. Il poeta spera di dare l’idea di un corpo vivo, unico, senza spigoli; ma può essere poesia questa materia composta da una relazione di parti visive e parti metriche, ideata con la matematica di una sinfonia? Il poeta ha tale fede nella sua opera che fin dal suo apparire ho sospeso il giudizio.

Quando considero il lavoro di Pound nel suo insieme, trovo più stile che forma; certe volte più stile, una sorta di deliberata nobiltà, che in qualsiasi altro poeta contemporaneo che conosca, ma questo stile è costantemente interrotto, ostacolato, rotto, contorto nel suo contrario, una mania nervosa, l’incubo, la balbuzie, il caos; Pound è economista, poeta, politico, infuria contro i mali del mondo con figure che paiono tratte da un libro di bestie per bambini. Questa perdita di autocontrollo, comune tra i rivoluzionari ingenui – anche Shelley la possedeva in certa misura –, è rara tra uomini eruditi come Pound. Lo stile e il suo contrario possono alternarsi, ma la forma deve rimanere piena, sferica, singolare, esatta.

Tolto Thomas S. Eliot, Pound è il poeta più influente del nostro tempo: è lui la fonte dell’oscurità di Wystan H. Auden, di Cecil Day Lewis e della loro scuola, che ammiro molto. Anche quando lo stile è sostenuto, si ha come l’impressione di leggere un brillante istrione che traduca a vista il capolavoro di un greco finora ignoto.

*

Dieci anni dopo la guerra, alcuni poeti hanno ideato il vocabolario della modernità: l’accurata registrazione di fatti decisivi appresa da Eliot si è mescolata al senso del soffrire espresso dai poeti di guerra, una compassione non più delirante, nervosa; la filosofia l’ha resa piena porzione del pensare. Edith Sitwell e i Balletti Russi, Walter J. Turner e il suo Mare Tranquillum, Dorothy Wellesley con i suoi nomi arcani – “Eraclito fuoco acceso” – le sue falene, i cavalli, i serpenti. Pound e la discesa all’Ade, i classici cinesi sono troppo romantici per sembrare moderni. Browning pare moderno, ha creato l’icona dell’uomo di mondo che eiacula buon umore; ma soltanto Cecil Day Lewis, Charles Madge, Louis MacNeice sono autenticamente moderni. Ci siamo gradatamente avvicinati a questa forma d’arte tramite il culto della sincerità, il rifiuto di moltiplicare la propria persona, tipico del tempo. Possono sembrare oscuri, confusi, perché la loro passione è concentrata. Raramente riesco a rintracciare più di una dozzina di testi che mi convincono in loro, eppure, li preferisco a Eliot e a me stesso – che ho tentato di essere moderno. Si sono levati la maschera… qui non assistiamo più alla forza di un singolo uomo o di un altro: qui si espone la nuda mente dell’umanità.

William B. Yeats

Gruppo MAGOG