Le giornate dalle mie parti ‒ a volte, spesso e mal volentieri ‒ non vanno come dovrebbero andare. Nel senso che il senso della lotta deve essere insito nell’istinto di sopravvivenza: quello che ti fa combattere per difendere dignità e compromesso in ogni sudato istante. Non è quasi mai tutto oro quel che luccica, e quando il disincanto ti fa aprire gli occhi su chi ti sta accanto, non rimane che un prudente silenzio, o l’irrisione di un’intelligenza che si fa sprezzatura contro il luogo comune e il chiacchiericcio da gossip in prima e seconda battuta. Con ciò intendo dire che esistono svariatissimi tipi di guerra nel mondo piccolo e grande che di volta in volta abitiamo. Non saranno i cannoni a sparare, non verranno sventrate case e palazzi; non passeremo gli inverni al gelo delle notti, stuprati da militi indifferenti alle loro coscienze. Eppure, le guerre che abitiamo o che incontriamo sono più cancerogene di qualsiasi veleno. E me lo ricorda questa poesia di guerra di Harold Monro, tradotta da Paola Tonussi per le Edizioni Ares.
La riporto qui, poiché mi sembra esprimere bene persino un’allegoria: quella dei giorni nostri ‒ dei miei giorni che purtroppo (come per tutti) non passano indifferenti all’ignoranza di chi colpisce per il solo gusto di colpire, supponendo di aiutare senza farlo, credendosi un dio furbo pronto a ingrassare unicamente le proprie tasche, a discapito di qualsiasi bene comune.
Ora, per evitare di esser stato troppo generico o aleatorio, dico che la poesia e la letteratura per me sono anche un’arma importante per sopravvivere, ma soprattutto per lottare con tenacia, sempre e comunque.
Mensa ufficiali
I
Frugo la stanza con tutta la mente,
Scrutando tra quegli occhi;
Perché smanio di trovare
Una testa con cui io possa intendermi.
Non mi considero troppo saggio,
Ma solo, e cammino
Per questo grande posto e mi meraviglio. ‒ No:
Non c’è nessuno, temo,
Solo come me, qui.
Quanto devono odiarmi! Sono uno sciocco:
Non so giocare a bridge, a biliardo faccio pena;
Non so canticchiare motivi comici;
Non so di commercio, né di slang;
Le mie battute sono brutte, lunghi i racconti;
La voce mi viene meno, spezzata o sospesa,
Non sibila acide parole d’irrisione
Perciò le mie battute sembrano assurde.
II
Ma s’iniziò il discorso: ho trovato
Altri tre o quattro con cui discutere.
Ho forzato loro il passo. Han mosso le loro noiose ragioni,
E sono andati
A tentoni per i corridoi del Pensiero.
Abbiamo preso a strattoni le parole altrui fino a strapparle.
Mi han chiesto la mia filosofia: ne ho tirato
Fuori dei frammenti e li ho deposti a terra.
Han riso, e allora ho preso i pezzi a calci,
Poi li ho messi in tasca a uno a uno ‒
Io, dispiaciuto di averli tirati fuori,
Loro, grati per il divertimento.
E dopo aver scaraventato le parole nel lerciume,
Come scarafaggi intorno a un muro,
Uno dopo l’altro siamo andati cupi a dormire.
Non c’era alcuna felicità
In quella breve discussione senza speranza
Mentre si sbadigliava per raggiungere il letto
Tra uomini che aspettano di esser morti.
Siamo dunque pochi ad esser soli, ed in molti a non saperlo essere né sopportare. La poesia è quell’artiglio che ci sbriglia dalla trappola, lasciandoci gustare – o, meglio, vivere – il silenzio. Non ci garba ostentare né sparlare. Parimenti, godiamo nel mistero magico delle parole, uniche divine intuizioni di civiltà già accadute o ancora di là da venire. Perché si è soli, ma non si è morti!