23 Settembre 2020

“Tutto in Mongolia traccia un movimento liturgico…”. Dialogo con Massimo Zamboni

La nostra letteratura nasce a bocca aperta, occhi scatenati come tigri, è una milizia nello stupore. Francesco d’Assisi, nel Canticum canta la meraviglia di questo mondo; Marco Polo, poco prima del Trecento, racconta nel Milione le meraviglie degli altri mondi, “tutte le grandissime maraviglie e gran diversitadi delle genti d’Erminia, di Persia e di Tarteria, d’India e di molte altre province”, fiero del suo rapporto con il “Grande Kane, ’l piú possente signore di genti, di terr’e di tesoro che sia, né che mai fue, da Adam infino al die d’oggi”. Dell’Oriente sorprendeva l’infinito, l’azzurro orizzonte, e l’oro; la terra da cui il nonno di Kublai Khan, Gengis Khan, parte alla conquista del più vasto impero mai visto, la Mongolia, ora, piuttosto, conquista per i tratti rudi, la magnificenza selvaggia, la parola che vale un falò, fa vive le stelle. Nel 1254 il frate minore Guglielmo di Rubruck approda a Karakorum: era partito l’anno prima da Acri, su ispirazione del re di Francia. Il suo Viaggio in Mongolia è ruvido e appassionato – “In nessun luogo hanno una città stabile e neppure sanno dove l’avranno domani” –, soprattutto: il frate si perde, di lui, in effetti, sappiamo nulla, la sua spoglia, la traccia estrema, il respiro intimo è l’esito del viaggio, l’impresa. Il libro di Guglielmo di Rubruck, tra l’altro, è il cuore di un racconto perfetto di Inoue Yasushi, La morte, l’amore, le onde (nella raccolta Amore, edita da Adelphi), in cui si celebra una scelta definitiva, senza appello. Come se la Mongolia fosse la statura dell’assoluto, una chiamata. Sono scosso da questi collegamenti misurandomi con La macchia mongolica, il nuovo progetto di Massimo Zamboni, insieme a Giovanni Lindo Ferretti protagonista dei CCCP Fedeli alla linea prima e del Consorzio Suonatori Indipendenti poi. Il progetto nasce da una ossessione e da uno spaesamento: il viaggio in Mongolia, nel 1996, da cui nasce un disco epico, con i C.S.I., Tabula rasa elettrificata, e un libro, con Ferretti, In Mongolia in retromarcia, vent’anni fa. Dalla fascinazione per la Mongolia ‘sorge’, per così dire, la figlia di Zamboni, Caterina Zamboni Russia, nata con la “macchia mongolica”, voglia bluastra che segna spesso i bimbi asiatici, ideogramma del leggendario lupo azzurro, atavico genitore dei Mongoli. Il progetto, appunto, è un libro, La macchia mongolica, firmato da Massimo e Caterina Zamboni, per Baldini+Castoldi, il film omonimo di Piergiorgio Casotti (alcune date: potete vederlo al Bellaria Film Festival il 25 settembre, al Soundscreen Festival di Ravenna il 27, allo Zei Spazio Sociale di Lecce il 3 ottobre) e una colonna sonora firmata da Zamboni. Il film è affascinante: tra il rapace e il bambino a cavallo la differenza è misera, sfinisce in fame, tutto è in moto – le tende, i sorrisi fermi – ed è immobile. “Forse l’identità si esprime soltanto nel momento della sua dissoluzione”, dice una voce. Si è sottomessi al prato, alla sua cronaca ripida, inflessibile, egli mangia tutto ed è più semplice di una muta di lupi; si obbedisce al fiume, simile al tuono. Dunque, contatto Zamboni. (d.b.)

Perché la Mongolia, terra di sciamani, conquistatori, scorribande? Ci è stato come musicista, cercatore, padre… Da dove giunge il fascino per quella terra?

È un fascino che credo appartenga profondamente alla coscienza occidentale. Almeno a partire da quel “volentieri” dato come risposta da Marco Polo agli emissari del Khan che lo avevano invitato ad attraversare tutta l’Asia per recarsi in quelle terre inesplorate, fino alla capitale Cambaluc – l’odierna Pechino – dove risiedeva la corte di quell’imperatore che “mai aveva veduto nessuno latino” prima di Polo. A questo si aggiunge il richiamo della terra aperta, senza confini che non siano i limiti delle capacità visive, dove si vive secondo moduli millenari tracciati dagli antenati. E la bellezza degli animali, la potenza di questo patto che consente a uomini e bestie di vivere appaiati.

Un luogo, credo, si sceglie per una ragione spirituale, forse politica. Cosa ha trovato in Mongolia?

Non cercavo immagini esotiche, né aneddoti curiosi. A chiunque sia capitato di entrare in una tenda mongola, in una gher, è immediatamente chiaro il totale disinteresse della famiglia che l’abita nei nostri confronti. Non si sprecano chiacchiere, non c’è ansia di sapere chi siamo, da dove veniamo, cosa pensiamo. Questo innalzamento della comunicazione che non si avvale del conversare forse mi somiglia molto, mi trovo a mio agio, è come se tutta una serie di moine coercitive cessassero di esistere: ci si ritrova tra uomini e donne, colti nell’atto originario del convivere. Questo mi affascina profondamente.

In che modo il sacro, o meglio, la liturgia entra nel suo fare, nel suo dire?

Tutto in Mongolia traccia un movimento liturgico, ogni gesto è un segmento di una ritualità che conduce e indirizza tutti gli aspetti della vita umana e naturale. Da come si entra in una gher, a come si spezzano gli spaghetti, ai brindisi, al bollire le pecore, alla loro uccisione, al condividere la carne, ai saluti… Sono movimenti già sperimentati che si iscrivono in un procedere di secoli, e questo legame mai scisso è entusiasmante. Non c’è bisogno di definirsi religiosi, questa è una fisima occidentale; il sacro esiste di per sé, ogni montagna, ogni animale, ogni filo d’erba lo afferma con forza.

Che cos’è la Storia? Che significato ha la Storia in Mongolia, con che ritmo scorre?

In Mongolia la storia scorre con il ritmo dei singhiozzi. Lascia depositi che faticano a cumularsi, per il clima spietato. Il suo attuarsi è più evidente nei ricordi che nei manufatti o nei sedimenti. Certo questo paese non è esente dalla Storia, oggi come sempre, ma qua più che altrove l’erba o l’avanzare del deserto ricoprono le pretese degli uomini vanificandole incessantemente. Anche il richiamo dell’impero perduto, quello di Genghis Khan – il cui ritorno è atteso da tutti i mongoli – si ammanta di coordinate che toccano più le corde del mito che quelle del tempo storico. L’origine divina del condottiero, padre di tutti, contraddice l’analisi storica; e non dimentichiamo che questo è un popolo che discende dall’unione di un lupo azzurro con una cerva fulva, di cui la macchia mongolica – da noi narrata nel libro – è l’ultima testimonianza.

Mi dica l’episodio o l’incontro, in Mongolia, la visione o lo squarcio, che la ha ‘formata’.

La macchia mongolica di cui sopra, impressa sulla pelle di nostra figlia; marchio di una appartenenza indefinibile che tocca una piccola percentuale di nati europei. Segno che si può trascurare, poiché scompare alcuni mesi dopo la nascita. Ma si può anche esplorare, e trarne pensieri, così come è accaduto a noi.

Un disco, un libro che hanno segnato la sua vita

Dovessi guardare a me, direi Ortodossia di CCCP Fedeli alla Linea. Tutto discende da quell’azzardo. Forse la musica di Pink Floyd ascoltata e consumata a 17-18 anni è stata lo scossone inziale, quello che ti insegna che esistono altri mondi che ci riguardano. Ma poi tanti dischi, tanti libri, tanti film. Ognuno ha aggiunto un tassello.

*In copertina: fotografia dal film di Piergiorgio Casotti, “La macchia mongolica”

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