18 Novembre 2024

“L’uomo è un enigma, la sua felicità è un enigma”. Sull’opera di Martin Mosebach

Martin Mosebach è nato a Francoforte sul Meno nel 1951 ed è figlio di madre cattolica e di padre protestante. Giurista di formazione, è autore di decine di romanzi, sceneggiature, libretti d’opera, saggi sull’arte, testi per la radio e resoconti di viaggio. Tra le sue mete, come turista e narratore alla ricerca d’ispirazione, l’Italia delle città d’arte occupa una posizione speciale e la raccolta Die schöne Gewohnheit zu leben: eine italienische Reise (La bella abitudine di vivere: un viaggio italiano), pubblicata da Berlin Verlag nel 1997 e riedito nel 2018 da Rowohlt, è stata una prima dichiarazione d’amore, cui sono seguiti ambientazioni all’interno di racconti e romanzi (si vedano da ultimo Napoli e la costa nel Krass) e vari scritti di carattere storico-estetico-archeologico. Davvero di “grande bellezza” il suo inedito saggio-riflessione-racconto Rivedere Roma, tradotto da chi scrive e proposto in lettura presso la romana Casa di Goethe il 23 gennaio 2018: “Ho messo piede per la prima volta a Roma quando avevo quindici anni”, così l’incipit, “mi invitò una sorella di mia madre, abitavamo in un piccolo hotel vicino a Via Nomentana e ce ne andavamo in giro dalla mattina alla sera perché era mia intenzione vedere tutto e ripartivo con la convinzione di aver visto ‘tutto’”. A Mosebach, “un tedesco fissato con Roma”, come lui stesso si definisce, sono serviti anni per capire che della “città eterna” non avrebbe mai visto tutto, nonostante i numerosi soggiorni, anche come borsista di Villa Massimo.

Tra le altre destinazioni preferite, utili per disegnare contesti e caratterizzare personaggi da tutti i punti di vista “altro” rispetto a quelli europei, ci sono il Marocco, la Corea, la Turchia, l’Iran, l’India e l’Egitto (come in Krass).

Collaboratore alle pagine culturali della “Frankfurter Allgemeine Zeitung” e di altre testate, Mosebach è uno dei maggiori scrittori contemporanei di lingua tedesca. Sebbene la sua attività sia stata consacrata fin dal 1999 dal conseguimento di premi letterari tedeschi di particolare prestigio (Heimito von Doderer-Literaturpreis, Heinrich-von-Kleist-Preis, Büchner-Preis) e la sua narrativa sia da tempo tradotta in varie lingue, il suo primo scritto proposto al lettore italiano è stato il pamphlet Eresia dell’informe – La liturgia romana e il suo nemico (Cantagalli 2009, nel 2023 è uscita un’edizione ampliata), scritto a difesa dell’antica liturgia romano-cattolica e comprendente una serie di dodici, tra interventi e scritti d’occasione, cui si aggiunge un estratto dal suo romanzo Eine lange Nacht. Il libro raccoglie una serie di ricordi, incontri, riflessioni e sollecitazioni personali relative al significato imprescindibile della forma nell’ambito della liturgia cattolica. In realtà il libro è una preziosa riflessione laica su rappresentazione e bellezza, con frequenti citazioni da opere di poeti come Rilke e Claudel.

Martin Mosebach è cattolico a tutto tondo, nel senso di universale e cosmopolita, aperto e pronto a tutto, talentuoso nella capacità di esaltare contestualmente differenze e celebrazione polifonica. La sua è cattolicità curiosa del mondo, con la logica conseguenza che temi ecclesiastici e/o confessionali nei suoi romanzi non giocano mai un ruolo rilevante. Il mondo del suo universalismo è proprio l’oikós, il suo oggetto l’oikouméne. Così, nella letteratura tedesca non è facile trovare descrizioni dei rituali indù più persuasive e rispettose di quelle presenti nell’opera di Mosebach e, d’altra parte, sono pochi i libri così efficaci nel parodiare il nazionalismo coloniale dell’Impero guglielmino come lo è il suo romanzo Der Nebelfürst (Rowohlt, 2018), dove si narra la storia di un giornalista avventuriero e ricercatore polare che nel 1898 vuole impossessarsi di un pezzo della disabitata Isola degli Orsi, affinché venga annessa al Reich tedesco: Theodor Lerner, un personaggio storico che solo in questo romanzo raggiunge la sua piena grandiosità comica. Nella misura in cui gli permette di raccontare con ironia un mondo alieno rispetto presente, il piacere di Mosebach per lo spettacolo polare e imperial-tedesco di fine secolo assomiglia alla sua fascinazione per culture e costellazioni così diverse come quelle, per citare solo alcuni luoghi e tempi del suo lavoro, narrate in Sarajevo im November 1994 (nella capitale bosniaca ha vissuto l’assedio della città) o in Ein Winter in Shio Mghvime (dove racconta un inverno trascorso in un monastero ortodosso georgiano). Mosebach scopre tracce di vive tradizioni ortodosse, musulmane, buddiste e indù in mondi lontani così come a casa sua, nel Grüneburgpark: La chiesa di Hagios Georgios a Francoforte è il titolo di una delle foto di viaggio del suo Als das Reisen noch geholfen hat (Carl Hanser Verlag, 2011). Invitato una quindicina di anni fa a una conferenza dei seguaci di Friedrich Nietzsche a Naumburg, praticamente a casa dell’“Anticristo” per eccellenza, Mosebach lesse ad alta voce tre testi tratti da suoi romanzi e libri di viaggio: da Das Beben (Carl Hander Verlag, 2005) il capitolo sulla vacca sacra, dal libro di viaggio Stadt der wilden Hunde: Nachrichten aus dem alltäglichen Indien (Carl Hanser Verlag, 2008) un estratto dedicato al sistema indiano delle caste e dal manoscritto di un romanzo allora ancora inedito un passaggio, al centro della quale c’è la dea Kali: tre storie dionisiache, lette nella casa di Nietzsche.

Un aiuto nella comprensione del modo in cui la sua spiritualità s’intreccia e rende feconda la sua scrittura, alla ricerca dell’universale, l’ha fornito lo stesso francofortese attraverso un breve, ma denso saggio intitolato Che cos’è la letteratura cattolica?, nel quale tenta di definire anzitutto che cosa siano il soggetto che scrive, l’uomo, e la forma che sceglie per la propria scrittura, il romanzo.  

“L’uomo è un enigma, la sua felicità è un enigma, l’enigma più grande è la grazia che secondo una decisione insondabile fa diventare felici o infelici”.

Il romanzo invece “è un’orchestra di prosa che suona una sinfonia, e spesso i motivi di essa passano dal primo violino attraverso tutta l’orchestra, fino agli accordi che l’accompagnano, dove poi quasi non vengono più percepiti”. E quale relazione c’è tra la fede dell’uomo-enigma e l’attività del narrare storie?

“Se veramente credo che Dio ha creato il mondo e gli uomini, devo anche avere la certezza di incontrare in tutto ciò che è reale, che osservo e al quale accenno nei miei racconti, delle tracce della realtà di Dio, anche se queste tracce rimangono in un primo momento invisibili per me”.

Lo scrittore cattolico, al pari dello scienziato cattolico, che ha a che fare con una natura che sovente sembra contraddire la verità rivelata, è chiamato secondo Mosebach ad “aspettare così tanti anni in tranquillità e serenità, fino a quando la contraddizione si risolve. Il mondo come dovrebbe essere e come è pensato si mostrerà solo nell’ultimo giorno. Fino a quel giorno noi guardiamo in uno «specchio oscuro», e non dobbiamo far finta che questo specchio non sia oscuro o che non sia uno specchio”.

Le pagine bianche sulle quali Mosebach tesse storie, descrive pezzi di realtà visibile e invisibile e indaga le voragini interiori dei suoi personaggi, sono il luogo in cui l’uomo-scrittore chiede una soluzione al suo essere enigma, senza aver paura dello «specchio oscuro», dell’abisso. Senza la paura, da cattolico, di rompere un qualche ordine teologico, morale, sociale:

“Gli autori cattolici veri e propri”, è sempre lui che scrive, “trasgrediscono in modo noncurante il dogma cattolico, o meglio: proprio attraverso la violazione dei suoi confini, lo circondano, gli girano intorno”.

Ovvero, “cambiando una frase famosa si potrebbe dire dello scrittore cattolico: «Quod licet bovi, non licet Iovi», «quello che è permesso all’artista non è permesso al sacerdote e al teologo»”.

Per capire cosa intenda Mosebach con “violare i confini” e “circondare” in un contesto romanzesco, propongo dallo stesso saggio la sua lettura-esegesi di Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. “Il motivo centrale di questa opera imponente è la forza del ricordo, che è ciò che soltanto rende propriamente possibile l’incontro dell’uomo con la realtà. La realtà si tiene nascosta fin quando è presente – ma se senza volerlo viene provocato il ricordo di essa attraverso un avvenimento sensibile che congiunge presente e passato, si assiste a un diventar presente del passato, che solo fa vivere l’attimo passato con tutta la pregnanza del reale. Nel narratore delle Recherche questo avvenimento sensibile consiste in un cucchiaino pieno di infuso di tiglio nel quale viene inzuppato un pezzo di dolce a forma di conchiglia, una cosiddetta Madeleine – con il sapore di questo dolce inzuppato ritorna tutto il tempo della gioventù dell’autore, non però come immagine ricordata, ma come realtà proprio soltanto adesso diventata obbligante, irrecusabile. Proust era stato battezzato come cattolico, ma non era un figlio fedele della Chiesa e qui neanche si tenta di fare di Proust improvvisamente un cattolico. Lui è di più e di meno: si è allontanato dalla fede della Chiesa, ma ha anche – sicuramente senza pensarcene – fatto del modo di pensare e di agire della Chiesa il suo proprio metodo artistico di comprendere il mondo. Il pane e il vino che realmente rendono presente la morte di Gesù, diventano infuso di tiglio e Madeleine, che nel rendere presente il passato provocano la visione della realtà. Si potrebbe addirittura sostenere che l’agnostico Proust ha dato un nuovo contributo a interpretare il miracolo del sacramento dell’altare”.

Martin Mosebach

Se questo è il Mosebach lettore, s’intende bene come al Mosebach scrittore non interessi affatto la “letteratura cattolica”, tanto meno essere riconosciuto ed etichettato come “romanziere cattolico”. Le sue narrazioni sono liberi esercizi di scrittura di un artista che fa tesoro, traendone alimento per le sue storie e i suoi personaggi, della creatività e dell’ingegno altrui. Osserva, tocca, ascolta, per poi rielaborare, tessendo le proprie trame.

La sua straordinaria abilità di tessitore di trame è già stata proposta una prima volta al lettore italiano con la pubblicazione di Mogador (Edizioni e/o, 2018), che è romanzo poliziesco con continui sconfinamenti nelle profondità più inquietanti dell’umano preda di demoni. Qui i tratti stilistici sono quelli distintivi di tutta la sua scrittura narrativa. Qui Mosebach dimostra ancora una volta di essere un pittore virtuoso che per dipingere usa le parole. Le sue descrizioni di paesaggi, stanze, città, corpi e abiti sono minuziose (talvolta iperrealistiche), affinché il lettore possa immergersi in esse, non solo per vederle, ma anche per sentirne gli odori e ascoltarne i suoni. Qualcuno l’ha definito “l’epico tra gli artisti della descrizione”. La sua attenzione per dettagli apparentemente irrilevanti è ricerca di una minuziosità che non ingabbia, perché sulla sua tela bianca Mosebach crea con frequenza e rigore metafore, il cui fine è quello di sollecitare il lettore a tracciare insieme a lui linee immaginarie che leghino tra loro mondi apparentemente distanti e non comunicanti. È un suo tratto distintivo: l’uso della metafora come ponte tra visibile e invisibile.

Tutto è questo è anche Krass, l’ultimo suo romanzo edito in Germania nel 2022.

Come per ognuno dei personaggi delle storie di Martin Mosebach, anche in questo caso il nome che dà il titolo al romanzo serve per evocarne la personalità: “Non appena c’è il nome, ci sono anche i suoi contorni”, così il francofortese. Krass è un uomo d’affari, il cui modo di esserlo è racchiuso nella pluralità di significati che possiede la parola krass, che si può intendere come aggettivo (enorme, grossolano, abissale, inaudito, duro) e/o come avverbio (nettamente, duramente). Krass è un uomo cui piace l’esercizio del potere, ma, come vuole Mosebach, “è ancor più importante che sia un sognatore, uno che mentre persegue le sue fantasie e i suoi sogni, cammina sul ghiaccio sottile”.

Krass è un romanzo d’atmosfera, potente dal punto di vista visivo, la cui lettura, secondo la volontà di Mosebach, dev’essere intesa anche come ascolto, direi interpretazione di una scrittura che è concepita anche come musica, viste le indicazioni agogiche (in italiano, come d’abitudine tra i compositori) scelte dal romanziere per titolare le tre parti del libro: Allegro imbarazzante, Andante pensieroso e Marcia funebre.

Nella prima parte, ambientata nel 1988 a Napoli e Capri, il debordante Ralph Krass e il fido assistente-servitore Jürgel sono al centro di un piccolo gruppo di vacanzieri italiani, francesi e tedeschi. Krass è generoso fino all’essere sprecone, capace di consumare le persone in virtù del suo appetito da cannibale. È davvero infinitamente ricco, come sembra, o è solo un impostore, un freddo calcolatore? Forse un sognatore senza freni? Di certo un uomo che non ha mai tempo e vede gli altri solo come burattini. Quando a Napoli Lidewine, la bellissima assistente belga di un mago avventuriero, entra nella sua cerchia e gli resiste, lui le propone un insolito patto.

La seconda parte si svolge un anno dopo nel Massiccio Centrale francese. Tutto lì è arido, povero e remoto, solo la lingua di Mosebach, pur lasciando che sia Jüngel a narrare in prima persona, in forma diaristica e epistolare, continua ad essere lussureggiante. Jüngel ha un disperato bisogno di denaro e sta cercando di superare il fallimento del suo matrimonio, tuttavia la sua depressione non gli impedisce di osservare molto da vicino e raccontare i personaggi e le storie che incontra: un pastore muto, un vicino con un pappagallino assassino e un calzolaio che lavora in un monastero.

Il Cairo fa invece da sfondo alla terza parte. È la megalopoli egiziana il luogo scelto da Mosebach per compiere un gioco di prestigio che sembra rimandare all’illusionista Harry Renó incontrato a Napoli in apertura di romanzo. Sono passati vent’anni ed è a Il Cairo che Krass si ritrova per strada, letteralmente, senza soldi e senza prospettive, per essere salvato da un uomo, un avvocato di fede musulmana di nome Mohammed, che ha un debole per il Maometto, Marx e Hitler. Ed è lì che il mago Mosebach fa reincontrare Krass, il suo fido Jürgel e Lidewine.

Krass è romanzo che travolge per opulenza, cura dei dettagli e ossessione per la bellezza. Mosebach conferma qui di essere un maestro dell’arte della descrizione e della decorazione. L’azione e gli accadimenti sono per lui solo materiale per il gioco narrativo e base necessaria per far brillare efficacemente le superfici.

Krass è un romanzo sul modo in cui il passare del tempo trasforma le persone, sull’amore, sulla perdita e sul magico, cioè imprevedibile, ritrovarsi.

Vito Punzi

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Da “Krass”

Incedendo con la stessa andatura risoluta che teneva quand’era in scena, passò davanti al tavolinetto, entrando sul pianerottolo che riecheggiava dei suoi passi. Fuori, la classica giornata autunnale di Napoli, nella sua forma più mite e rigogliosa, un calore quasi primaverile, ma senza quella sensazione di ottimismo tipica della primavera. In autunno la città raggiungeva il suo stato ideale, nulla doveva più cambiare o svilupparsi, tutto sarebbe potuto rimanere così per sempre. L’aria morbida, la luce soffusa che faceva risplendere le facciate brune e riarse dal sole nella loro essenza maculata.

Mentre si allontanava lentamente dalla pensione, avvertiva dentro di sé una leggera inquietudine, come se stesse commettendo un errore: era il «Giardino Pensile» che sembrava richiamarla indietro, come se non l’avesse ancora guardato abbastanza e assorbito dentro di sé: come se ci fosse qualcosa di irrisolto. Improvvisamente le fu chiaro perché i suoi pensieri non riuscivano a staccarsi da quell’insieme così insolito: vi aveva già messo piede, la notte prima, in sogno, anzi, vi era stata dentro. L’edificio coronato dall’aranceto, un blocco che riposava in uno stato di fatiscenza senza tempo, era dotato di grandi cancelli chiusi da porte a battente che pendevano storte sui loro cardini; dietro i quali avrebbero potuto nascondersi capannoni, garage, officine. L’unica cosa certa del sogno: non era entrata nel giardino attraverso uno di questi cancelli o attraverso una scala – non era scesa dalla pensione al cortile per poi risalire su, ma dritta come una freccia, seguendo il percorso del suo sguardo e il movimento dei suoi desideri, diretti dalla finestra della camera da letto verso l’aranceto.

In un batter d’occhio si era ritrovata davanti alle sedie arrugginite che la invitavano ad arrestarsi prima di entrare nel boschetto. Ma era proprio lì che si spalancavano le meraviglie del giardino. C’era vita tra quegli aranci piantati così vicini. Quell’oscurità le provocava un fascino irresistibile, la trascinava dentro. E già dopo pochi passi aveva scordato il vasto cortile del monastero. Fra i tronchi e i pesanti frutti dorati in mezzo a quello scuro fogliame regnava una luce molto particolare. L’oscurità prendeva luce e calore dall’interno, l’atmosfera del tramonto riempiva il boschetto, e all’affievolirsi della luce bianca nel firmamento rispondeva una ricca fioritura di tutti i colori. Il mormorio delle voci l’accolse mentre procedeva, senza che gli alberi l’ostacolassero – era quasi come se si fossero spostati. Sì, c’erano persone lì riunite, uomini e donne eleganti e all’antica, con tazze da tè e bicchieri di aranciata in mano, che parlavano animatamente ma in modo trattenuto. E accanto a loro c’era un signore piccoletto e corpulento, vestito con un abito blu che gli stava largo e che parlava con insistenza a una signora in un abito di seta a pois, la quale teneva il suo guanto destro nella mano sinistra guantata, mentre con la destra accostava alle labbra dipinte di rosso una sigaretta dal bocchino dorato. Nessuno dei due parve sorpreso che lei si si unisse a loro; a quanto pareva l’arrivo di estranei era previsto. Ella sovrastava il pubblico piuttosto esiguo di questo goûter e avvertiva il suo corpo alto e snello molto chiaramente in tutta la sua compattezza. Questo le diede fiducia fornendole la sensazione di essere nel posto giusto, perché, malgrado nessuno la salutasse o le rivolgesse la parola, si accorse che la osservavano con la coda dell’occhio, con una curiosità per nulla ostile, ma riservata. La signora con il vestito a pois disse dolcemente: «Capiremo nel giro delle prossime ore se occorre conoscerla questa persona».

Verso di lei volteggiò una grande farfalla azzurra, probabilmente rara in Europa, e in questo senso assai più simile a una di quelle farfalle di carta velina che Harry Renó era così bravo a far svolazzare davanti a sé coi suoi ventagli. Numerose paia di occhi seguirono quel volo, un raggio di luce si fece strada attraverso il fogliame coriaceo facendola scintillare. Era come se la farfalla fosse attratta da lei, ma allo stesso tempo si rese conto di essere completamente nuda, tranne che per le scarpe con il tacco alto, che favorivano la sua postura allungata. Non si trattava di una scoperta in sé sconvolgente, ma solo di un invito a sé stessa di non attenuare quel suo naturale esibizionismo, limitandosi a starsene lì sorridente come la signora con i guanti. È tutta una questione di postura, si può sembrar vestiti anche quando si è nudi – qualcosa del genere le passò per la testa, come se andasse ripetendo una massima di sua madre che conosceva da tempo.

Martin Mosebach

*Si pubblica, per gentile concessione, il testo introduttivo e un brano dal romanzo di Martin Mosebach, “Krass”, Edizioni Medhelan, 2024, a cura di Vito Punzi; traduzione di Matteo Galli

In copertina: Alberto Giacometti, Rita Circa, 1965; © Succession Giacometti 

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