
“Vidi una donna che mi toccò il cuore”. Heinrich Böll, lo scrittore delle macerie e dell’amore
Letterature
Silvano Calzini
Un premio letterario è inutile quando si è vivi, figuriamoci post mortem. La proposta pietista di Giancarlo De Cataldo, magistrato che scrive libri ‘di genere’ e genericamente di successo, di assegnare il premio Strega a Severino Cesari, giornalista, storico editor Einaudi, stroncato dal male un mese fa, raccontando il male nel libro edito da Rizzoli, Con molta cura (dida un po’ laida: “La vita, l’amore e la chemioterapia a km zero”), dà il senso del valore che ha il premio Strega oggi. Zero. “A tutti gli scrittori ed editori italiani: quest’anno non si corra per lo Strega. Quest’anno lo si assegni a Severino e alla sua memoria”, cinguetta De Cataldo. Perché proprio a Severino Cesari? Perché ha conosciuto tanta gente, perché ha aiutato tanti scrittori, perché era una brava persona? Ma che cavolo c’entra questo con la letteratura. Un premio deve premiare l’eccellenza, la nitidezza formale, la grandezza. Il resto, è il retrobottega dei pietosi pietisti, dei buonisti del quartierino, degli scrivani che pensano che la scrittura sia una cosa così, cosa importa. La proposta di De Cataldo, però, è utile. Ci fa capire che la letteratura, a latitudine Italia, è per chi ha la lacrima facile e il cuore d’oro, notoriamente due attributi che non fanno un grande scrittore. Infatti, dove sono le grandi scritture in Italia? Nascoste sotto lo zerbino delle recensioni fatte dagli amici agli amici di banco agli amici del salotto buono dell’editore che sta in attico, aspetta un attimo, nascoste sotto il piagnisteo degli scrittori da comizio politico, i depravati dell’‘impegno’, gli afflitti, gli affetti da polluzione morale multipla. Però. Però De Cataldo ha ragione. Il premio Strega, di solito, va a scrittori che dopo averlo vinto si tramutano in morti viventi, in zombie dannati dal presenzialismo. Tanto vale darlo ai morti. Gli scrittori, infatti, se tali sono, se ne sbattono dei premi – nessun premio e nessuna giuria terrena sono in grado di certificare, se non parzialmente, il genio, il talento, la materia torbida, tellurica, oscura della scrittura – intascano i soldi e mandano i tribuni a quel paese. Esempio d’altro stampo. Andrea Temporelli. Non faccio in tempo a imbarcarlo su Pangea, che me le suona. Del suo romanzo, Tutte le voci di questo aldilà, ad esempio, pubblico nel 2015, ho scritto “meriterebbe Strega, Campiello e Viareggio tutti assieme, non fossimo il paese di intellettuali leccaculo e paraculo che siamo”. Lo penso davvero. E non lo penso solo io. Lo pensa pure Tiziano Scarpa, che il premio Strega lo ha vinto e che ha scoperto il libro di Temporelli tempo prima di me. Invece, Temporelli – che poi è Marco Merlin – si incazza. Mi scrive una Lettera aperta nel suo bunker digitale e mi bombarda. “Ti invito, ogni volta che avrai la bontà di chiamarmi in causa, ad azzannarmi, a saggiare la mia resistenza. Io prometto di fare altrettanto. Giacché non siamo nati per lisciarci il pelo a vicenda, ma per far leva l’uno dell’altro, per metterci alla prova, per concederci la morte e l’eventuale rinascita”, mi scrive. “Della credibilità ce ne infischiamo. Siamo oltre i commerci mondani, abitiamo la foresta infida, a nostro stesso rischio. Appena riconosciamo in una superficie riflettente il nostro volto, lo distruggiamo, per restare liberi. Scriviamo dando corpo al nemico, generiamo opere che ci tagliano il fiato. Abbiamo paura di noi stessi, perché intuiamo le tentazioni che a ogni passo ci solleticano la nuca”, mi scrive. E poi mi intaglia: “Insomma, caro Davide, non tentarmi mai più con le tue lusinghe. Esploriamo il dilemma di questa assurda, non credibile fratellanza. È giunto il momento. Non diamoci consolazione. Non mettere davanti ai miei occhi altri specchi. Io sono il tuo nemico e la tua salvezza, come tu lo sei per me”. Per me Marco Merlin – ovvero Andrea Temporelli – è un maestro. Un maestro indiscutibile. Io scrivo senza sapere perché, sbalestrato da tigri e unicorni; lui, ai miei occhi, sa tutto, anche la mappa cosmica sul dorso della tigre. Ha ragione Marco. Vedete cos’è la letteratura? Lotta. Massacro. Prima di tutto, lotta con i fratelli. Fino a spaccare le ossa come fossero endecasillabi, fino a perforare il torso come fosse il devastante incipit di un romanzo-capodoglio. Darsi addosso. A zanne spianate. Questa è la letteratura. Spiattellare le colpe, sputtanare le vergogne. Questa è la letteratura. Devozione dell’euforia e dell’eufemismo e poi, smarcare le tibie, non ammettere assoluzioni. Questa è la salvezza. Il tentativo di un raglio che abbaglia. Altro che dare decorosi premi a gran brave persone che non sono grandi scrittori, bravi.
Davide Brullo