Al telefono, un’amica mi racconta che, nel suo palazzo, a Milano, alle sei e venti di ogni sera inizia il concerto. Un suo vicino è tenore e dedica ai condomini un mini concerto. È bravissimo. Ma tu lo sapevi di avere un vicino di casa così? Le domando. “Ma no, Linda, figurati! Con la quarantena si fanno incredibili scoperte”. Chiusi in casa, si finisce per sentire, per ascoltare. Che cosa ascoltiamo? La musica dei vicini, ma anche le telefonate. I cani, i gatti. Le conversazioni altrui. Frammenti di altre vite.
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Non si ascolta, però, tutto quello che si vuole. Oltre agli scheletri dall’armadio (un’altra amica mi svela che ne escono parecchi dal suo, in questi giorni), escono, poco per volta, pezzettini di un passato che si voleva dimenticare. O forse no. Che si voleva conoscere. Mezze frasi, istantanee di altra vita piombate nell’ombra, su cui non si era mai caduto un raggio di luce. Si aprono i cassetti, si cerca un ordine che non c’è mai stato, una disciplina che non si riesce a mantenere. Juan è tornato in anticipo dal viaggio di lavoro. Senza avvisare nessuno. Ha disfatto le valigie e si è messo a letto, a riposare. Luisa, sua moglie, quando torna, non è sola. C’è Ranz con lei, il padre di Juan, suo suocero. Racconto, quindi, al telefono Un cuore così bianco di Javier Marías (1992, traduzione e cura di Paola Tomasinelli, Einaudi).
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Quello che vorremmo (e non vorremmo) sapere lo scopriamo per caso, tra i discorsi, dalle parole di altri. E a differenza del vedere (chiudi gli occhi!), quando ci capita di sentire, ascoltiamo anche ciò che non vorremmo. E le parole precipitano come macigni, illuminando la grotta del nostro passato, di una luce sinistra. “Ascoltare è davvero pericoloso – pensai – significa sapere, significa essere informato ed essere al corrente, le orecchie sono prive di palpebre che possano chiudersi istintivamente di fronte a ciò viene pronunciato, non si possono proteggere da ciò che si presume stia per essere ascoltato, è sempre troppo tardi. Ora sappiamo, e ciò che probabilmente macchia i nostri cuori così bianchi, o forse pallidi e timorosi, o codardi”. “My hands are of your colour;/ but I shame to wear a heart so white” è l’epigrafe in cima al libro. La citazione che dà il titolo al romanzo (come è per Domani nella battaglia pensa a me dello stesso autore) è di William Shakespeare, proviene dal Macbeth, lady Macbeth cerca di scacciare dal marito il pensiero dell’assassinio appena commesso.
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Dovremmo pensarci sopra un po’ di più prima di rivelare un segreto che riguarda le nostre vite. Le parole volano, spesso, troppo leggere e non sono prive di conseguenze. “Vedi, la propria vita non dipende dai fatti, da ciò che uno fa, ma da ciò che si sa di lui, da ciò che si sa che ha fatto”. E quando scopriamo la natura di ciò che ha fatto chi amiamo, ciò di cui si è sporcato le mani, ne diventiamo complici e si intorbida anche la nostra pura anima, il nostro cuore così bianco. Omnia munda mundis? Tutto è puro per i puri di cuore? Non proprio. Quando veniamo al corrente di qualcosa di tremendo, la strada per salvarci sembra quella che ci sfiora, provare a chiudere la porta. Non sentire, non ascoltare. “Pensai che fosse stato il caso di chiudere la porta, tappare la fessura affinché tutto tornasse a essere mormorio confuso o impercettibile sussurro, ma era già troppo tardi per me, l’avevo sentito, avevamo sentito la stessa cosa che doveva aver sentito Teresa durante il viaggio di nozze, alla fine del viaggio, quarant’anni prima, o forse non erano tanti”.
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Teresa era la zia di Juan, la seconda moglie di Ranz, suo padre. Teresa si era tolta la vita per aver scoperto il delitto commesso da suo marito. Un omicidio commesso per amor suo. Istigato, prodotto dall’effetto delle parole di lei su di lui. Anche se “nessuno si uccide per il passato”, non si può prevedere l’effetto che faranno le nostre parole sugli altri. “Tutti parlano senza sosta, in ogni momento ci sono milioni di conversazioni, di pettegolezzi, di confessioni, vengono detti e ascoltati e nessuno li può controllare. Nessuno può prevedere l’effetto esplosivo che causano, e neppure seguirlo. Perché sebbene le parole siano tante e senza valore, e tanto insignificanti, pochi sono in grado di non far loro caso. Si tende a caricarle d’importanza. O magari no, ma le si ascolta”. È tardi, mi dice la mia amica. E riaggancia. Sono quasi le sei e venti e sta per iniziare il concerto quotidiano. E lei si vuole mettere in ascolto.
Linda Terziroli
*In copertina: una fotografia da “Le vite degli altri” (2006), di Florian Henckel von Donnersmarck