Un altro decennale che rischia di passare inosservato è quello della morte di uno scrittore italiano sicuramente anomalo e periferico rispetto all’ambiente letterario, anche perché si è dedicato per la maggior parte del suo tempo alla letteratura per ragazzi. Parlo di Marcello Argilli, grande amico e collaboratore di Gianni Rodari, i cui libri per l’infanzia e l’adolescenza hanno conosciuto un meritato successo soprattutto negli anni Sessanta e Settanta. Quello che non tutti sanno è che Argilli, che ci ha lasciati il 14 ottobre 2014, è stato anche autore di racconti e romanzi per l’età adulta, alcuni dei quali riposano ancora in un fondo presso l’Università Roma Tre, peraltro accessibile, da cui speriamo possano essere prima o poi riesumati.
Non è una speranza puramente retorica, ma fondata su un precedente di assoluto rilievo. Argilli è stato infatti l’autore di un romanzo davvero fondamentale, e bellissimo, dal titolo L’altare nero, uscito postumo e pubblicato due anni fa dal piccolo editore romano Bordeaux. (Va segnalato subito, sia pure en passant, che il libro di Argilli è una delle punte di diamante della Biblioteca Bordeaux: una collana, degna di un editore medio o grande, che negli ultimi anni ci sta facendo scoprire libri originali e sorprendenti, fra i quali L’altare nero si inserisce benissimo. Si va dal bellissimo L’isola di Meša Selimović ai racconti di Ryūnosuke Akutagawa; dalle memorie dello storico dell’arte Victor Stochiţa alla biografia di Vladimir Pištalo dedicata a Tesla – quello vero, non il finto genio che ne ha usurpato il nome per le sue macchinette –; dal bel libro di Larry Tremblay sulle scorrerie amorose di Francis Bacon al romanzo più compiuto e riuscito di Mihail Sebastian, L’incidente, e così via.)
L’altare nero, dunque: il cui titolo, così evocativo, rappresenta già un’indicazione di massima di cui il lettore coglierà i riferimenti man mano che avanzerà nella lettura e nell’immersione in un mondo di desolazione e di grigia solitudine.
La storia è quella di Alberto Luini e dei suoi camerati, che nei mesi successivi all’8 settembre 1943 combattono da quella che oggi consideriamo la parte sbagliata, ma che all’epoca, e nella confusione di quei giorni, a un giovane idealista e un po’ ingenuo poteva anche sembrare giusta. Alberto è uno studente romano diciottenne che si arruola volontario in un reparto di paracadutisti dell’effimera Repubblica Sociale Italiana, combattendo nelle valli del Canavese. Il libro ci porta poi anche, con qualche digressione, a Milano e Torino, viste entrambe in una luce livida e cinerea, accerchiate da un freddo senza scampo che è – s’intuisce chiaramente – più un gelo e una paralisi dell’anima che un freddo atmosferico. Nelle licenze a Torino e Milano si snodano le vicende sentimentali, in cui al désert de l’âme vissuto da Alberto corrispondono figure di donne (impiegate, studentesse, prostitute) spesso problematiche e destinate a restare ai margini della vita sociale, che acquisiscono un ruolo temporaneo solo in quanto tappe obbligate di una sorta d’individuazione e rafforzamento della propria virilità da parte di Alberto e dei suoi camerati.
Attraverso un romanzo di formazione non solo individuale, ma che investe un’intera generazione, Argilli (nato nel 1926) ci racconta l’esperienza di un ragazzo frastornato, facile preda di decenni di propaganda incalzante. Nel dopoguerra questo stesso ragazzo, vinto dal decorso storico, a suo modo si riscatterà, seguendo un percorso politico del tutto opposto, che lo porterà da militante del PCI ai Democratici di Sinistra fino a Sinistra, Ecologia e Libertà. Ma di questo nel libro il lettore non troverà nulla, così come non troverà mai un facile apprezzamento critico o polemico ex post: la vicenda è seguita da Argilli con estrema aderenza ai fatti, con uno stile a un tempo spoglio e opulento e la sicurezza espressiva dello scrittore navigato.
Il protagonista, Alberto, è simile agli altri commilitoni, e da loro, per sensibilità, diversissimo; nella sua giovanile irruenza non accetta alcun compromesso, alcuna pacificazione con un destino che gli sembra di dover interpretare fino in fondo. Si veda questo brano a mo’ d’esempio:
“Il suo battaglione, i camerati, tutti uniti, come diceva la canzone, dallo stesso destino. Invece gli erano tutti estranei, da non riuscire a unirsi al coro. Neanche a Piazza Venezia, inquadrato con gli avanguardisti, ascoltando un discorso di Mussolini riusciva a unirsi al coro rimbombante che ritmava “du-ce, du-ce”. Eppure anche là, in quella marea di visi entusiasti, con gli occhi incollati al balcone, si sentiva più fascista di tutti.”
Il più fascista di tutti, ovvero uno dei pochi che nel fascismo non cerchi il tornaconto personale, ma la risposta a degli alti ideali. Non c’è peraltro alcuna intenzione, da parte di Argilli, di abbellire e giustificare il proprio protagonista, in cui la proiezione autobiografica, sia pure in terza persona, è del tutto evidente. Gli errori e anche le piccole infamie di cui Alberto si rende responsabile – con gli altri, con i camerati, soprattutto con le rare e sofferenti figure femminili del libro – non sono in realtà emendabili; sono anzi le cicatrici con cui l’Alberto maturo dovrà convivere per tutta la vita. Ma la sua forza sta nel non ridursi a semplice strumento nelle mani dei suoi superiori e dei capi e capetti fascisti, nell’essere capace di interrogarsi, anche nel fuoco dello scontro frontale, sui fatti atroci di quella guerra civile che sta vivendo e a cui sta attivamente contribuendo.
Sono stati fatti giustamente, dagli sparuti critici che si sono occupati del libro, i nomi di Fenoglio, Calvino, Flaiano e Berto; di più, Argilli è stato anzi spesso considerato un secondo Fenoglio, un anti-Fenoglio, in quanto il suo Alberto militava appunto sulla sponda opposta. Ma qui le comparazioni rischiano anche di arenarsi, perché L’altare nero ha poco a che vedere, in fondo, con Il partigiano Johnny o con I ventitré giorni della città di Alba. Alle certezze, sia pure contraddittorie, che permeano i personaggi di Fenoglio e alla loro proiezione verso un futuro migliore si contrappone qui un approccio quasi nichilistico, di cui il protagonista non si rende conto, ma che lo porta a negare qualunque possibilità di miglioramento sociale e civile. Alberto è immerso nella grande illusione costruita da un’ideologia di morte e sacrificio, a sua volta derivante da una distorta visione della mitologia e della sua interpretazione in chiave romantica. Particolarmente efficace risulta, il romanzo di Argilli, nel mostrarci come quest’ideologia abbia potuto far presa sulla mente di giovani di grande intelligenza ma in preda al tempo stesso a una grande confusione culturale. Confusione alimentata – com’è il caso del periodo che stiamo vivendo – da una scuola che non è più in grado di formare e dal proliferare di “cattivi maestri”, capaci di sfruttare al meglio le tecniche di persuasione. Succubo di miti eroici, alla ricerca spasmodica di esempi di fratellanza e virilità che non troverà fra i suoi commilitoni, spesso troppo impegnati a cercare di salvare la pelle, Alberto vivrà le prodezze e gli slanci della gioventù, la sua stessa alterigia e lo sprezzo del pericolo immerso in una nube di disillusione permanente.
La conclusione del romanzo è quanto di più drammatico (e riuscito) si possa immaginare, un esempio di virtuosismo narrativo:
“…non erano che marionette che ballavano frenetiche e ridicole, neppure si chinavano per offrire minore bersaglio, gli avrebbero spezzato i fili, facendoli crollare tutti nell’erba. (…) Tra i cespugli, gli uomini si rianimavano come risvegliatisi, già sciogliendosi dalle armi. Il tenente Furpoi strappava una tessera. Alberto si alzò lentamente, tra gli ultimi: il mitra, rimasto ai suoi piedi, fra l’erba, non aveva più l’otturatore, conficcato a forza nella terra molle.”
Nella liquidazione generale di tutta un’esperienza di vita, di tutta una giovinezza sprecata, Alberto emerge con le sue immedicabili fragilità da vero eroe sconfitto, il quale forse arriva a capire, a conclusione delle sue vicissitudini, una sola cosa: che, dall’altra parte della barricata, aveva probabilmente ragione Brecht quando definiva davvero povero quel mondo che ha bisogno di eroi.