29 Maggio 2022

La lezione animale. I bestiari di Gianna Manzini e Piero Polito

Scomparire è riflettere, rileggere in abbondanza le cose rimaste inclinate su un fianco, nell’indecisione. Accade di dimenticare, di sovrapporre i piani dediti all’ascolto, subentrano danni e sventure, altrimenti proposte incapaci di sovvertire la memoria. Memoria non è poi ricordare ma indebitarsi e chissà chi vuole veramente scontare gli anni, quelli più acerrimi che son da derubare, estorcere, di cui ci si deve appropriare con il tempismo delle allusioni, con le giuste guide. Ma no, oggi rivalutiamo, imbellettiamo il vecchio nella profusione dell’odierno, sempre a sperare che sarà attuale il gioco, che basti avvalersene.  Che il tempo possa ritrovare il giusto contatto non il giusto ritorno, il collettivo del ricordo!

Come altri che non trovano più spazio sulla carta stampata e siano lodati nel restarsene aperti a contribuire in silenzio, Gianna Manzini riposa su pagine vecchie e il presente vi passa sopra intimorito. Chi è Gianna Manzini, una scrittrice per signorine? Sì, anch’essa signorina nobile, laboriosa, tutta sistemata nel compatirsi, novecentesca in ogni suoi grembo, per nulla controversa, votata ad un muliebre distacco che cresce, sembra imparare ma si trattiene. Le donne sue protagoniste piangono e pensano, arretrano d’affanni, tutte assieme come farfalle ridipingono la parete, danzano attorno alla tortura con una chiave tra i denti. Gli uomini sono scrittura, ufficiale perimetro e nel parlare chiedono, rispondono. 

Nello svago di una letteratura feconda, a tratti ripetitiva e priva di un vero comando, si nasconde un capolavoro di stile, una somiglianza colorata coi colori che non è disegno, ritratto anzi un angusto scenario di terra ferma e maree che possono aspettare, che sono sempre in ritardo.  Nasce dall’afflizione, dal momentaneo sottrarsi alla famiglia, agli affetti, la stesura del bestiario, stampato in tre fasi e tre edizioni: Boscovivo (Fratelli Treves, 1932) poi Animali sacri e profani (Casini, 1953) e infine Arca di Noè (Mondadori, 1960).

L’impegno è morboso, una connessione etica che compila serie infinite di oggetti e sagome ombrose, osannate da una luce che fa lacrimare, bruscamente spenta ogni qual volta si accorre per rilanciare. Certo non la sentiamo mai esprimere omelie o giudizi estremi, apocalittici sulla rispettabilità delle creature. Il suo non è un interessamento beneficente ma un lavorio da orefice, da anatomista, da matematico: il gioiello, la carne e la logica, un labirinto sincero dove si va a scomparire. L’indizio di ciò potrebbe essere proprio quella scrittura d’eccesso che sa però di astinenza, come di interruzione a lungo sofferta, agognata. Il desiderio è quello di abbreviare, di sentenziare ma anche di commuoversi, di essere solidali.

“La sua maschera metallica, necessaria al silenzio che c’è sott’acqua, si fendeva ai lati, aprendo uno spiraglio sanguigno, o lasciando talvolta scorgere entro la testa un fiore di ciniglia rosso vivente; pur restava feroce armatura d’una costanza che era soprattutto espressa dal giro rivelato della bocca e dagli occhi nudi”.

La Trota (Arca di Noè, Mondadori, 1960)

In questo effetto di parola recisa o abusata ci si accorge lentamente della vera tenerezza, del dolore, del fraintendimento e le figure iniziano a pesare sulla pagina quasi indiscretamente; l’accortezza di un fiato pesante che non può essere soccorso e alla sentenza segue lo spaesamento, la soffice dentatura di una compassione piena.

Le sue bestie sono cose in ginocchio, cose che sospirano o gemono; sotto quei musi si celano altre voci, altri canti ininterrotti; gli istinti e le abitudini incupiscono anche la loro quiete. Non è solo sopravvivenza ciò cui anelano, è contorto l’esempio della natura, forse volutamente arrischiato nel silenzio, nell’esigua apparenza. Gli animali non aspirano ad altra intelligenza anzi ognuno di loro, con sentore di salute o giustizia, è avvolto in una serietà giocosa e nella fisiognomica un inizio mal provato, una leggerezza che dice di affondare. Essi posseggono un loro misero, infelice, passionale e ambiguo onore d’essere assenti, miseri e infelici; hanno un fardello e una grazia, su questa bilancia l’anima intera; sono perfette macchine e imperfette creature, il sangue è mosso correttamente ma fatto sgorgare ingiustamente. Attorno esiste un ambiente che sa di sfortuna, di fiato sospeso; la dimora è flessibile ma le pareti son fatte di carne, di domestico restano solo le catene ormeggiate e le loro ombre capitano altrove, nel fuoriuscire torcono la deità, si smascherano fino ai luoghi specchiati, adulteri del cosmo, nelle mani degli uomini; ed è un muro di indifferenza la scoperta del peccato. Nell’arretrare, nel comprimere lo stato preistorico sono sul palmo d’amicizia ma un esordio di cattiveria è già teso alla salvezza. La bellezza sa ostinarsi, ridursi a ignoranza.

“Ma da che non c’è più, io non ricerco l’appariscente pretesto d’un inganno che portavo in cuore prima di lui, ricerco lui, e imparo molte cose: per esempio che non ci si deve mai burlare di ciò che si ama. Io spesso mi burlavo di lui. Lui di me, mai. È la lezione di un animale. Ne terrò conto”.

Gatti: Romeo, il mendicante, il guercino, la bellona (Arca di Noè, Mondadori, 1960)

Anche sul capo di un’equilibrata osservatrice continuerà ad esserci un’ebrezza, una bizzarria da sfiorare accudendo; e le restanti osservazioni in bilico sempre sfacciate, sibilline occasioni di mentire nel coro, sotto voci che tacciono e non sanno adoperarsi. Non si può parlare di sopraffazione, sopruso ma di uso, manodopera, di ingegno. Tutto avviene sacrificando perché l’empatia è il tradimento più raffinato, geloso, e in questo assoluto di incomprensioni il mondo di una donna può far guerra a quello di una bestia e può addirittura uscirne umiliata più che perdente.

Ma di queste uccisioni e palestre non parlano i giornali, si feriscono tenere le creature che soffrono e periscono. Una donna altera può certamente affilarsi e resistere scontrosa all’altezza; un uomo paffuto e bianco si può inchinare alla zoologia e rendere onore alla parola più che al terriccio. In uno studio minore d’esistenza, da una scrollata di spalle che è intelligenza, licenza focale di uno che prende la parola e poi tace per placarsi, vien fuori l’uomo che non vuole rientrare, che sfuma in questo confronto: Piero Polito, un sultano nell’essere irriconoscibile, un bimbetto precoce che non si poteva in alcun modo predire e che attraversò, senza essere mai scoperto, le tare che bene conosciamo. La sua carta fu un lasciapassare tra innominati e le storie che intercorrono con lui risuonano più della sua presenza. Amico di Cristina Campo e Margherita Guidacci, fedelissimo discepolo di Ferdinando Tartaglia: queste le storie ma nessuna che parli di un’identità, di un destino, di un carattere. Polito nasconde, assieme a pochi altri, i tratti più innocenti che la storia sceglie a volte per qualcheduno, ovvero quel non so che di pagliuzza, di scheggia a fermare l’incendio, sfocatura di cui restano fastidio d’occhi e calci. Questo vale per non essere registrati, per non trovarsi mai con le tempie scottanti davanti ad un plotone o una dettatura; ma vale pure per non osar più apparire in pubblico, neppure da morti, per restarsene a portar fiori, a scaldare l’acqua, senza compromettersi. Da quest’uomo labile, elargito a noi gratuitamente, nasce Microcosmo (Vallecchi, 1963), un bestiario scientificamente acuto, rivelatore di un ambiente batterico, viscerale, strisciante; dimentico della specie, del rispetto, anzi sfacciato nella trasparenza linfatica, in quella brevità di natura che si riassesta. 

Osservare gli animali, pure sulle stampe, nei libri, sulle cartoline, è come rimanere accidentalmente in un silenzio censurato, dove altre voci hanno lasciato la chiusura. L’istinto è una concentrazione che non può durare e a volte capita di urtarli quando sono in preda allo sconforto, alla sorveglianza dell’animo; tutto si concedono, pure la chiaroveggenza di immaginarti nel loro inventario che è colmo per lo più di spazi o ritratti unici, di tragitti percorsi al contrario, di remissive forze e colpi accertati. Non resta che imporsi in questa distanza, sostare come sfingi e nell’attenzione di un dettaglio confondersi, non tornare mai al centro. Bisogna ingegnarsi per avvicinare una zampetta, un ciglio, una coda, spesso si perdono le parti, il circuito è chiuso nella maturità ma ogni animale si assesta su un particolare, una dannazione evoluta che è la creatura stessa a saltare per ornarsi. Il mantenimento delle funzioni in posizione eretta o strisciante, a quattro zampe oppure in fede agli artigli, alle proboscidi; la postura è il baratro, la terra che si può toccare con le sole pupille attive, con l’occhio angolare; e le pieghe, i mantelli bruciati, le piume cotte nell’albume dorato, le ciglia arretrate, le sopracciglia dipinte in fumo, i sinonimi dei ritagli nelle zigrinature, sono già il semplice ambito, senza tassonomia. Nessun ordinatore preleva la minuzia artistica e nella cattura di un solo dato già si possono partorire le multiformi arie che ne verranno fuori. Le parole possono la biologia e le ere geologiche vengono sforbiciate, rimesse in sincrono con l’avventura. Tutto è superficie e i nomi sono già nomenclatura, le schede pronte prima d’esser redatte, si stendono da soli i lunghi tappeti. In un’unica distesa la mascella d’insetto e il bulbo, il seme ricoperto e l’eone squadrato, le squame e la corteccia, l’odoroso patimento e lo squillare, nidi oppressi e pattini d’anfibio. Non è un cosmo ma un microcosmo, non sono i numeri e neppure i fenomeni ma la vita astuta, rimpicciolita, che si addice alla moltitudine come al singolare, all’episodico; che soccombe alla stranezza, alla trasgressione, all’ermafroditico; che non indietreggia e neppure evolve ma batte una certezza di indeterminato, un tempo cauto. 

“Nulla come l’anfibio fa pensare al segreto delle origini, la sua vita è tutto un nascere, uno stadio prenatale protratto oltre la luce; pure proprio gli anfibi toccano certe forme prive di coda, certe forme evolute, si direbbe”.

L’ Axolotl (Microcosmo, Vallecchi, 1963)

Polito si è introdotto in questi regni con la stregoneria rigida e manipolata di un perfetto uomo di scienza – uomo sovente abbattuto ma temerario –, con le parole già pronte sul palmo della mano e una serie di visioni metodiche a far da scalpello. Lo scienziato primigenio ancora incurante, a servizio della placenta, della nemesi, della sfera, sapiente dell’organico e inorganico, dell’argilloso pantano e dello scheletrico dardo; il guaritore fresco d’annientamento, dell’amichevole dissezione, lo stregone moderno e scientista – se esistesse un’ingombra figura tra due mondi – servirebbe gli stessi risultati, con il tono di enfasi e riduzione imprevista, di conquista inflessibile, con la stessa osservazione di lenti e mimiche, ed infine una parentesi di fallimento a disorientare i rimasugli, a sigillarne le porte.

Gianna Manzini finì nell’oblio che spetta agli innocenti, alle prede scattate fin troppo tardi dalla morsa, a quelle creature affannose e piene d’affanni che conoscono il lavoro e la generosa vendetta dei ricordi. La sua era una complessità astiosa, intima nella sua veste esasperata, autoritaria ma in chiarissima ricerca di attenzioni febbrili; era una volontà tenera di sofisticata, di asettica, una strana lusinga disimparata. Piero Polito fin troppo buono nelle strade, solido e lineare abitatore, si ritirò nell’amico, nella veglia e a scrivere furono i momenti, nessuna vita. Entrambi, nel tentativo di ridurre i doni effimeri, le sommarie identità, affinavano le lettere e nel tributo alla parola passavano lasciando linee scorrevoli, volti sul volto delle forme.

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