La mia amicizia con Luigi Spagnol è antica. Eravamo entrambi precoci, sia perché nati e cresciuti in case straripanti di cultura, sia perché negli anni Sessanta e Settanta si maturava in fretta. Eravamo non solo compagni di scuola elementare, in Via della Spiga, a Milano, ma anche schermitori controvoglia alla Società del Giardino, tiranneggiati da un certo maestro Volpini, che ci tartassava con commenti denigratori, mentre il leggendario maestro ungherese lanos Kevey, avendo capito la situazione, ci aveva presi sotto la sua… sciabola protettiva.
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Innumerevoli le serate passate da adolescenti a casa Spagnol, anche con il fratello, e con il padre, il leggendario editore Mario, con il quale intavolavo lunghissime discussioni letterarie e filosofiche mentre Luigi suonava la spinetta e la mamma ci offriva i suoi gelati fatti in casa dai gusti esotici. Sia per Luigi sia per me l’amore per la letteratura andava di pari passo con quello per la musica. Ricordo che nel 1975 gli regalai Jazz – La vicenda e i protagonisti della musica afro-americana, di Arrigo Polillo. Opera enciclopedica, la lesse nel giro di una settimana. Componevamo entrambi, e ricordo di avere, a Milano, alcune delle sue composizioni giovanili. Sia Luigi sia io eravamo outsiders, del tutto avulsi dal clima di politicizzazione oltranzista e violenta degli Anni di Piombo. Vivevamo in un mondo parallelo, quello dell’arte, con tante serate passate assieme al conservatorio e in altri teatri milanesi. D’estate andavamo entrambi in Liguria, ma in località distinte, e ogni tanto c’incrociavamo.
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A vent’anni lasciammo entrambi l’Italia. E, stranamente, ci perdemmo di vista. Poi, all’inizio di questo secolo, ci rincontrammo fugacemente, lui già editore, io già scrittore. Ma il matrimonio non ebbe da farsi—non ancora. E infine, è storia recente, grazie a Cinzia, una carissima amica comune, ci rincontrammo, chiedendoci, poco dopo, come mai non fossimo rimasti sempre in contatto, viste le affinità elettive. Lesse il mio The Metaphysics of Ping-Pong, e ne volle subito curare l’edizione italiana. Scoprivo in lui un editore atipico, e non solo per l’Italia; un editore onnivoro che prediligeva i libri “incatalogabili”.
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Avere ritrovato un’antica amicizia era stato inebriante, per tutti e due. L’ultima volta che gli ho scritto, il primo marzo, raccomandandomi di non esporsi a rischi per via del coronavirus, mi ha replicato: “Grazie, caro Guido. Ma devo dire che io sono malato di mio, non noto molto la differenza”. Preoccupato, gli ho risposto; “Mi spiace molto. Spero non gravemente e ti auguro di uscirne presto”. Mai più sentito. Conoscendolo, sapevo che non si sarebbe lamentato di un raffreddore. Temevo che ci fosse qualcosa di grave, ma non ho insistito, perché evidentemente non ne voleva parlare. Dignitoso fino in fondo.
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Probabilmente nato per fare l’artista, Luigi ha saputo raccogliere un’eredità importante e calarsi nel ruolo tanto bene da rivaleggiare il suo stesso padre come editore. Finisco con una constatazione: in vita mia ho permesso a solo due persone di toccare i miei scritti: Gillon Aitken e Luigi. Luigi era, mi resi conto subito, molto in gamba. Quella dell’editing è un’arte a sé – difficile e complicata dal dover avere a che fare con un autore – con sempre meno praticanti. In Inghilterra e negli USA le case editrici ormai si aspettano che siano gli agenti letterari a fare l’editing, una vera stramberia, considerando che non è detto che il testo, pasticciato o rabberciato dall’agente, venga accettato, cosicché rimane all’autore il dubbio che il suo testo originale fosse migliore. Luigi era all’antica, era un editore vero, ci sapeva fare, e in più aveva stile e humor. Un giorno, alla fine di un’intensa sessione di editing per il mio romanzo Sottovento e sopravvento, ammirato gli ho detto: “Luigi, sei un manico”. “Sì,” mi ha risposto, “un manico di scopa”.
Guido Mina di Sospiro