Sia chiaro, Houellebecq è un grande narratore. La vivacità e l’energia della sua prosa non sono in discussione. La sua resa del sentimento di decadenza non ha pari. Come ce lo ricorda lui, che la vita fa schifo, nessuno mai: è un vero gigante della pars destruens. Con le sue provocazioni e il suo tono dissacrante, riesce a risultare pure simpatico. Divertente come solo certi depressi sanno essere, cattivo ma forse no, volgare ma con stile, maschilista ma chi se ne frega.
Ora, di fronte a tutto un mondo culturale da mesi in attesa del suo sguardo sulla pandemia, Houellebecq finalmente si pronuncia, in una lunga lettera a France Inter. Ma del virus dice poco, e per lo più cose già dette. Houellebecq, a ben guardare, parla solo di Houellebecq.
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Il coronavirus è per lui “banale”, “senza qualità”, come se tra le righe gli rimproverasse di non essere in grado di sterminarci tutti sul serio. Afferma che a suo parere non è vero che “nulla sarà più come prima”, e qui è coerente nel ricordarci che la vita già faceva schifo, e rimarrà uguale, forse giusto un po’ peggio. Possiamo essere d’accordo, ci piace, in fondo, la sua ironia nichilista. Poi però, quando si addentra nelle motivazioni, finisce per piegare i fatti alla sua narrazione preesistente: l’obsolescenza delle relazioni umane, i danni della tecnologia, l’Occidente in declino. Un processo già in corso, che il virus può solo accelerare. Ma questa volta sbaglia bersaglio. Perché questa volta la tecnologia è stata ossigeno per le relazioni umane, e l’occidente ha dimostrato di voler vivere.
Con tutti i ritardi, le mancanze, le inefficienze, gli errori che sappiamo, le colpe su cui è sacrosanto indagare, ogni paese, chi più chi meno, a seconda della gravità del contagio e delle peculiarità sociali, ha chiuso battenti e serrande a tutela dei più fragili, gli anziani e i malati. L’ipotesi darwiniana del fare come se niente fosse perché tanto “muoiono solo i vecchi” è stata messa presto in minoranza. Ragion per cui quando Houellebecq parla di limiti di età per essere rianimati, affermando che “mai prima d’ora avevamo espresso con una sfrontatezza così tranquilla il fatto che la vita di tutti non ha lo stesso valore”, pone di certo un tema interessante (per quanto già abusato), ma trascura il fatto che si è trattato di drammatiche scelte contingenti.
Il tema è quello eterno dell’Arca di Noè, o delle scialuppe del Titanic. Quando non è possibile salvare tutti, chi ha più diritto di vivere? I forti, i deboli, le donne e i bambini, o si salvi chi può? Ai tempi dell’Arca, i predestinati scelti da Dio, ai tempi del Titanic, si dice, i favoriti dal censo. Oggi, di fronte a una malattia improvvisa e sconosciuta, i medici, se costretti a scegliere, salvano chi ha maggiori probabilità di sopravvivere, e l’età diventa un parametro rilevante anche se non l’unico. Questo è di certo crudele, ma chiunque abbia stipulato un’assicurazione, ricevuto un indennizzo per la morte di un parente o atteso la donazione di un organo per un trapianto, sa già bene che non tutte le vite hanno lo stesso valore, e che vivere o morire spesso dipende da numeri e probabilità. Possiamo migliorare i nostri sistemi sanitari in vista di nuove epidemie, fare di tutto perché ci siano sempre più posti sull’Arca e sulle scialuppe, ma questo non toglie che possa arrivare qualcosa di imponderabile cui di nuovo non saremo preparati. Trovo però profondamente ingiusto affermare che sia proprio della cultura occidentale sacrificare gli anziani, tanto che dopo l’iniziale smarrimento sono stati curati e a volte guariti anche centenari.
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Forse è proprio il contrario, invece: vorremmo non morire più, e in questo chiediamo aiuto proprio a quella scienza e tecnologia che Houellebecq tanto disprezza. Allo stesso modo, dicendo che “la gente muore in solitudine nelle stanze di ospedale o delle case di riposo”, sembra dimenticare che in caso di malattia infettiva l’isolamento diventa necessario, per tutelare i sani, i vivi. Ancora una volta, sovrappone un presunto decadimento morale a un triste stato di necessità. Preso dal furore di dimostrare le sue teorie, chiama in causa situazioni come il car-pooling o la procreazione medicalmente assistita, che con il virus nulla hanno a che fare.
In un caos a infinite variabili non lineari, Houellebecq è una linea retta. I fatti contingenti per lui non esistono, se non per venire sottomessi alle sue già note teorie sulla decadenza dei rapporti umani. A Houellebecq non interessa l’evento, che infatti definisce “non-evento”. È oltre la realtà. Houellebecq, come il Dio aristotelico, pensa sé stesso.
È un bravo creatore di distopie della solitudine, basta leggere La possibilità di un’isola. Ma questa distopia è la nostra realtà, non la sua narrazione. E, mai come in questo caso, la tecnologia è venuta in supporto alle relazioni umane. Cosa sarebbe stata la quarantena senza tecnologia? Houellebecq critica il telelavoro, gli acquisti su Internet, i social media, ma proprio grazie a queste cose abbiamo potuto continuare a vedere i volti, sentire le voci dei nostri cari, dei nostri amici. Siamo riusciti, per quanto possibile, a portare avanti il lavoro, a dare una continuità allo studio. A intrattenerci, con libri e cinema, anche tra quattro mura. La tecnologia ha diminuito la solitudine di chi era troppo solo, riportato al sé interiore quelli che erano troppo insieme.
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I social, il web, è pure innegabile che un po’ ci confondano. Stiamo sul picco dell’effetto Dunning-Kruger, vagamente informati di tutto, davvero competenti quasi di nulla, e sempre più diffidenti verso un potere oscuro, difficile da identificare. Così vaghiamo nel caos, eternamente arrabbiati, come se la potenza dell’incazzatura fosse metro del nostro senso di giustizia: verso i politici, i virologi, i runner, gli altri in genere. Pretendiamo che la scienza sappia già quel che non ha potuto studiare. E che la politica decida, senza sapere. Strepitiamo di laboratori cinesi segreti, di pipistrelli mutati collusi con Bill Gates, dell’economia italiana che verrà messa in ginocchio da Trump o dalla Cina o dal MES o da tutte queste cose insieme. Del 5G che ci controlla e ci inocula il virus e forse ci inocula anche il vaccino con la complicità delle multinazionali farmaceutiche e, intanto, cerca di venderci mascherine griffate Apple, però ci tiene nascosto il plasma, che è gratis ma non lo è, e soprattutto, non ce lo tengono nascosto affatto, infatti ne parliamo tutti. Il virus, come una sorta di Freddy Krueger, prende la forma della paura che in quel momento ci attanaglia di più: perdere la salute, o il lavoro, o la libertà, e chi vive una paura diversa, pur se altrettanto lecita, diventa il nemico, come se non fosse un’altra vittima come noi, in una quarantena che un giorno sembra protezione, il giorno dopo schiavitù.
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Ma a Houellebecq il caos in cui versiamo non interessa, lui ha già la sua distopia personale, in cui la tecnologia è il male, mentre il caos, in fondo, fa parte della nostra voglia di capire, e quindi di vivere. O forse anche lui, come noi, proietta le sue paure, e allora ci sembra già più umano. Allora possiamo rassicurarlo, non ci faremo inglobare nei social con l’intera coscienza, abbandonando i nostri corpi al destino mortale. È già forte, e non ha mai smesso di esserlo, il richiamo del sole. Non ci chiuderemo nel sesso virtuale, gli amanti già si incontravano, di notte, violando la quarantena, forti dell’immunità dell’amore. Siamo, per fortuna, umani e sciocchi come prima. C’eravamo ripromessi di leggere Proust, e perlopiù non l’abbiamo fatto. Abbiamo urlato “moriremo di fame!” e siamo quasi tutti ingrassati. Ma sotto le mascherine, già torniamo a sorriderci, desiderosi di nuove prime volte. Siamo stati lontani per forza maggiore, ma l’istinto è riunirci, forse fin troppo, forse al punto di rimetterci in pericolo. Abbiamo riscoperto i veri valori del passato impastando farina e lievito in famiglia, poi i veri valori ci han rotto le palle, e appena possibile ci siamo messi in coda per un panino al McDrive, un panino che sa di libertà, di normalità, o forse solo di salsa al bacon. Il capitalismo, torneremo a criticarlo poi. Ora addentiamo la nostra speranza, con buona pace di Houellebecq, che non mancherà di continuare a ricordarci quanto la vita fa schifo, ché non rischiamo di dimenticarlo, magari ce lo segniamo, come diceva il grande Troisi, noi fragili forme di vita a base di carbonio e di illusioni, ma ancora capaci di produrre abbastanza serotonina da dimenticare per qualche minuto – il tempo di una schitarrata al balcone, del primo gelato dell’estate, di un abbraccio ritrovato – il pensiero della morte.
Viviana Viviani
Editing di Luisa Baron