11 Ottobre 2019

Dopo Manzoni nessuno ha osato parlare dei Longobardi… Storia di Desiderio, l’ultimo re, il padre di Adelchi e di Ermengarda

Chi era Desiderio? L’ultimo re dei Longobardi è una figura ancora avvolta nel mistero; e per scoprirlo dobbiamo provare ad andare oltre le informazioni e il ritratto che ricaviamo dall’Adelchi di Alessandro Manzoni, la tragedia che ha orientato per molto tempo anche i giudizi degli storici sul regno longobardo (senza dimenticare che Manzoni all’argomento dedicò anche un saggio storico, il Discorso su alcuni punti della storia longobardica in Italia).

La nuova biografia di Stefano Gasparri, Desiderio (Salerno Editrice, 2019), porta un sottotitolo eloquente: L’ultimo re longobardo. Si batté contro i papi e i Franchi per il dominio sull’Italia. E se in effetti, come disse Francesco Borri, autore di una recente biografia di Alboino, il sovrano – morto nel 572 –  che condusse i Longobardi in Italia, la ricostruzione delle vicende esistenziali del primo re dei Longobardi occuperebbe poco più di mezza pagina, nemmeno la biografia di Desiderio, in senso stretto, per quanto attiene le vicende più intime e private, occuperebbe più un paio di facciate. Al contrario, però, la ricostruzione operata da Gasparri del panorama politico e sociale da cui emerse Desiderio è molto ampia e per certi versi innovativa e sorprendente.

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Dopo Manzoni, in effetti, non c’è più stato in pratica nessun autore che, per tutto il XIX secolo e poi per gran parte del XX secolo, abbia sostenuto posizioni da lui condannate, tanta è stata la forza del pensiero di Don Lisander. Il giudizio negativo sui Longobardi (barbari, stranieri, selvaggi, violenti, invasori), è stato a lungo inestirpabile; non solo: per lungo tempo si è pensato a una frattura mai sanata fra la componente della popolazione ‘Latina’, e cioè genuinamente e originariamente italica, e gli ‘invasori’ Longobardi, “gente più feroce della ferocia germanica”, come li definiva G. Pepe, nel suo saggio Il medioevo barbarico in Italia (1959), facendo propria una frase di Velleio Patercolo (II, 16). E tuttavia, nota Gaparri, in effetti già a partire dal loro ingresso in Italia, poco dopo la metà del VI secolo, i Longobardi avevano perso – se mai l’avevano avuta – quella ‘purezza’ etnica, in quanto al loro popolo in migrazione si sarebbero aggiunti componenti di altre popolazioni, Gepidi, Goti, e anche militari romani ansiosi di imprimere una svolta sostanziale alla loro condizione. Non solo: attorno all’VIII secolo doveva essersi ormai compiuta l’assimilazione pressoché totale fra componente autoctona e longobarda.

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In generale, bisogna andare al di là dell’immagine di un popolo fiero e selvaggio, dedito alla guerra e alla violenza; altrimenti, non si spiegherebbe la misera e repentina fine del regno longobardo davanti ai Franchi nel 773-774. Ma questo è dovuto appunto al fatto che i Longobardi del secolo VIII erano ormai del tutto diversi da quelli dei secoli precedenti all’invasione dell’Italia: questi erano stati gruppi barbarici insediati ai confini di un Impero ormai agonizzante, che avevano come occupazione continua la guerra, condotta ora contro l’Impero ora in alleanza con esso, a seconda della convenienza del momento. I Longobardi dell’VIII secolo, però, con quei gruppi di guerrieri avevano in comune soltanto il nome, ed erano ormai gli abitanti di condizione libera del regno, che partecipavano all’esercito quando erano convocati dal re: non c’era dunque più alcun discrimine etnico fra ‘Longobardi’ e ‘Romani’. Se proprio vogliamo essere puntigliosi, questi ultimi non esistevano più all’interno del regno; lo testimonia, per esempio, un contratto, siglato a Piacenza nel 758, in cui una certa Gunderada, nome schiettamente longobardo, vende un appezzamento di terreno, ed è definita honesta mulier, cioè, “donna di buona condizione”, ma anche Romana mulier, “donna romana”. Ovvero: gli abitanti liberi del regno erano, con pochissime eccezioni, i Longobardi stessi: quelli che venivano definiti ‘Romani’ erano gli abitanti delle regioni dell’Italia bizantina (che vivevano secondo le leggi romane), da poco annesse al regno, oppure gli immigrati dalle terre bizantine, le quali vivevano una crisi ormai irreversibile. La sola aristocrazia che avesse mantenuto le tradizioni e lo spirito guerriero delle origini era quella del Friuli, impegnata senza soluzione di continuità in lotte contro Svevi, Avari e popolazioni di confine, e in cui quindi i valori guerrieri erano obbligatoriamente praticati dall’aristocrazia.

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E Desiderio? La fonte più nota e accurata di notizie per quanto riguarda il regno longobardo, Paolo Diacono, nativo di Cividale del Friuli, interrompe la sua Historia Langobardorum al 744, con la morte di Liutprando; non narra quindi la storia degli ultimi tre re, i due fratelli Ratchis e Astolfo, prima duchi del Friuli e poi sovrani, e Desiderio. La storia degli ultimi trent’anni di vita del regno longobardo, quindi, dipende dalle voci esterne al regno, franche e papali: manca completamente una voce longobarda contemporanea. E Desiderio? La sua ascesa al trono è narrata dal Liber pontificalis, raccolta di biografie papali, stereotipate e spesso criptiche nella loro estrema sintesi. Verso la fine del papato di Stefano II (752-757), l’anonimo chierico romano autore della sua Vita ci informa che il re longobardo Astolfo, l’infelix Aistulfus, che era stato il maggior antagonista del papato, era stato percosso dall’ira divina, morendo improvvisamente per un incidente di caccia. E a quel punto, narra il Liber Pontificalis, “Desiderio, duca dei Longobardi, che era stato inviato dalle parti della Tuscia dal medesimo nequissimo Astolfo, sentendo che il predetto Astolfo era morto, riunendo in fretta tutto il numeroso esercito della Tuscia, cercò di impadronirsi del culmine del regno dei Longobardi”: l’impressione è quella di un uomo nuovo alle alte sfere del potere, dato che il biografo papale tradisce lo sforzo (nisus est, “cercò, si sforzò”), di arrivare a una posizione difficilissima da raggiungere, il fastigium regni, il “culmine del potere”. Inoltre, l’espressione letterale del testo è che Desiderio fu “mandato al regno”, ovvero, diremmo oggi “messo sul trono”: ma da chi? Le poche fonti delineano un forte conflitto dentro il regno longobardo: Ratchis, fratello di Astolfo e re prima di lui, era uscito dal monastero di Montecassino dove si era ritirato quando, nel 749, aveva rinunciato al regno, e si era messo alla testa di parecchi optimates Langobardorum, cioè dell’aristocrazia del regno, soprattutto di quella di origine friulana, tradizionalmente la più animosa, e si stava dirigendo contro Desiderio per fargli guerra. In altre parole, Desiderio sarebbe diventato re con un colpo di stato contro cui i nobili erano pronti a reagire; per cui, il nuovo sovrano aveva chiesto con molta forza l’aiuto papale, per poter assumere appieno la dignità regale, e giurando che avrebbe fatto in ogni cosa la volontà di Papa Stefano.

Ma i rapporti con il papato presto si guastarono, in forza della nuova alleanza che esso cementò con i Pipinidi, la dinastia di Pipino il Breve, e dei figli Carlo Magno e Carlomanno. Le fonti documentarie e archeologiche sono abbastanza chiare nel presentarci lo sforzo di Desiderio, insieme con la moglie, Ansa, di creare una dinastia, in un momento peraltro difficilissimo della storia nazionale: lo dimostra la fondazione del monastero di San Salvatore, in Brescia, la città da cui doveva essere originario il sovrano. Il monastero cittadino, dove doveva essere badessa una delle tre figlie della coppia regale, Anselperga, era concepito come centro di potere, e la sua chiesa come sede del sacrario familiare della dinastia; un’altra fondazione monastica, nel sito detto Leones, cioè Leno, è ulteriore testimone del legame fra Desiderio e il territorio bresciano.

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Anche la politica matrimoniale di Desiderio testimonia di questa volontà di potenza, visto che le altre due figlie divennero spose di Carlomanno e Carlo Magno. Ma le cose andarono diversamente dalle previsioni del padre: Gerberga ebbe da Carlomanno due figli, ma rimase improvvisamente vedova; Desiderio tentò di contare sull’appoggio dei seguaci di Carlomanno, chiedendo l’unzione regale per i nipoti, per consacrarli eredi del loro padre e quindi re dei Franchi, allo scopo di isolare Carlo Magno; ma non ci riuscì, e Gerberga dovette con i due bambini rientrare in Italia, bollata dalla storiografia franca come moglie malivola, ‘malvagia’, e pessima consigliera del marito. Peggio ancora andò alla terza figlia di Desiderio e Ansa, quella che l’Adelchi manzoniano chiama Ermengarda, ma di cui noi non sappiamo nemmeno il nome, dopo la feroce damnatio memoriae che subì il vertice del regno longobardo in seguito alla conquista franca: il testo noto come Gesta Karoli, scritto dal monaco di San Gallo Notkero Balbulo a fine IX secolo, pone le premesse per la trasformazione della vita di Carlo Magno in materia epica, e parla di questa moglie come di una consorte “malata e sterile”, ripudiata con il consenso dei sacerdoti “come se fosse stata morta”. A questo punto, scrive Notkero, Desiderio si ribellò contro “l’invincibile Carlo”, ma, benché chiusosi dentro le mura della capitale fortificata, Pavia, non poté resistere alla potenza del Re dei Franchi, che godeva di una netta supremazia nel numero degli armati, ma, soprattutto, della protezione divina.

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Svanì così ben presto anche in Italia il ricordo dell’ultimo re longobardo, sotto la coltre di una lettura degli eventi che era quella dei vincitori, cioè franco-papale. Però, in fonti più tarde, qualcosa riemerge, soprattutto a Salerno, dove, come in tutto il Sud rimasto longobardo, la tradizione del regno era forte. Lì, in pieno X secolo, il Chronicon Salernitanum racconta del lungo e pacifico regno del “pio re” Desiderio, che pure all’inizio venne funestato dalle ribellioni di Beneventani e Spoletini. Poi, dopo anni di apparente pace, la situazione precipitò: scoppiato un aspro conflitto dentro l’élite longobarda, alcuni dei capi mandarono un’ambasceria a Carlo e lo invitarono a venire in Italia a impadronirsi del regno, promettendogli di consegnare nelle sue mani, oltre a grandi ricchezze, anche Desiderio. Costui, tradito, venne quindi consegnato nelle mani del sovrano franco che lo fece accecare.

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Ma c’è anche un’altra tradizione circa la fine misteriosa di Desiderio: Franca d’Amico Sinatti, studiosa e storica di vaglia, nel suo Il mistero del Silenzio (Raffaelli editore, 2005), racconta, con lo strumento dell’invenzione romanzesca, di un re fattosi monaco per il bene del suo popolo a Montecassino, e poi sepolto nel monastero di Leno, in terra bresciana; un re costretto al silenzio, ma sempre presente fra i suoi, nella terra da cui era nato e che l’aveva reso, per pochi, brevi anni, un grande della Storia.

Silvia Stucchi

*In copertina: Arechi II (734-787), duca longobardo di Benevento, miniatura dal Codex Legum Langobardorum

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