07 Gennaio 2021

Il Libro dei Libri. Smodato elogio di Mario Pomilio

Ogni grande scrittore ha avuto la sua folgorazione sulla via di Damasco. Mario Pomilio fu trapassato dalla folgore nel 1968, quando si imbatté «nella traduzione dei quattro Vangeli curata per Neri Pozza da Lisi, Alvaro, Valeri e Bontempelli». Mario Pomilio, nato ad Orsagna, in Abruzzo, il 14 gennaio del 1921, era un bravo cristo, lo dicono tutti, era «un uomo estremamente dolce» (così la figlia), «sensibilissimo, umile, grato e generoso con gli amici» (Cesare Cavalleri). Letterato di platino – aveva studiato alla Normale di Pisa – a quell’epoca era uno scrittore sulla via della beatificazione nelle antologie scolastiche. Un epigono, insomma. Amico intimo di Michele Prisco e di Domenico Rea, con costoro fonda, a Napoli, “Le ragioni narrative”: la rivista esce nel 1960, proponendo «una narrativa che abbia l’uomo, i suoi problemi, il suo essere morale e sociale a proprio centro d’interesse». Questo sociologismo azzoppa un po’ i primi romanzi di Pomilio da cui tuttavia egli ricava gli elogi del club letterario del tempo e diversi allori (con La compromissione, 1965, si porta a casa il Campiello). Papà socialista integrale, mamma cattolica convinta, Pomilio passa dai socialisti ai democristiani, sedotto sulla via del Concilio Vaticano II. Fu pure deputato al Parlamento europeo, in lista per la Democrazia cristiana, come indipendente. Se ci fermassimo al Sessantotto, Pomilio sarebbe l’ennesimo cattocomunista con il vizio della penna, una sfiziosa nota sul margine di una letteratura che ha poco da dire, ormai. Poi arrivò la meteora, l’Ufo, la stella cometa.

Quando fu pubblicato Il quinto evangelio, nel febbraio del 1975, per la casa editrice Rusconi, al primitivo sconcerto si sostituì la certezza. «Nel libro di Pomilio ci sono il profumo e la presenza della Grazia, la letteratura è visitata dalla teologia come nei veri, grandi capolavori che l’umanità ha scritto nel corso dei secoli», scrisse Cesare Cavalleri su “Avvenire”, a caldo. Fu una folgorazione, appunto. Fu uno di quei rarissimi «momenti folli» che attraversano la vita, ricorda Pomilio, cercando di ragionare intorno all’irragionevole nella Preistoria d’un romanzo. Allora, nel 1968, con i Vangeli pubblicati da Neri Pozza tra le mani, a Pomilio viene «l’idea del quinto Vangelo, del Libro dei Libri o dell’Apocrifo degli Apocrifi che prolunga e reinvera perpetuamente il messaggio, l’idea del libro perpetuamente inseguito e perpetuamente nascosto il quale soggiace alle Scritture già note e di continuo ne modifica e ne amplifica il testo». Il quinto evangelio confonde: non si è mai visto un libro scritto così. Per non sbagliare, ornano il romanzo con il Premio Napoli, lo traducono qua e là, poi lo mettono in ghiacciaia fino al 1990, quando Mondadori lo riproduce negli Oscar. Pomilio morirà pochi mesi dopo, in quello stesso anno. Nell’edizione Bompiani del 2000 – che passa in libreria come un fulmine – Riccardo Scrivano deve tirare in ballo Boccaccio, il Manzoni, Italo Calvino, perfino Dante, per mettere la museruola alla muscolare strategia narrativa di Pomilio. Gabriele Frasca, nell’impeccabile edizione del romanzo pubblicata da L’Orma nel 2015, 25 anni dopo la morte di Pomilio (ma “attualmente non disponibile”), girovaga per quasi quaranta pagine per dirci, finalmente, che Il quinto evangelio è «uno degli ultimi grandi romanzi italiani».

Gabriele Frasca parla, a proposito di Pomilio, di «fantafilologia». Riccardo Bacchelli, disorientato, scrisse a Pomilio, «lei inventa, finge una documentazione con tanta perizia ed eccellenza storica e filologica, che ne nasce una perplessità, in quanto si è indotti a persuadersi che siano documenti reali e storici e filologici». Pomilio sa che l’unico modo per descrivere la realtà è superarla. Perciò costruisce un conturbante romanzo fondato su documenti fittizi. La trama è semplice: uno studioso americano, agnostico per noia, arruolato durante la Seconda guerra, si rifugia in una canonica, a Colonia. Lì, tra le carte del parroco scomparso, trova le prime tracce del fatidico «evangelo andato perduto», contenente la «promessa d’un supplemento di rivelazione». L’americano passa il resto della vita, aiutato da alcuni studenti, a cercare questo vangelo assoluto, in grado di riassumere e incenerire tutti gli altri.

Il romanzo è costruito su una immensa, dolente lettera di Peter Bergin («le parlo dall’orlo del fosso») a un misterioso «M. G.», alto prelato, «segretario della Pontificia Commissione Biblica» di Roma, al quale l’americano allega la mole di documenti che attesterebbero la reale presenza del Quinto evangelio. Con scelta mistica e azzardo narrativo, Pomilio ci fa viaggiare per oltre 400 pagine, sbordando tra i generi (il romanzo si chiude con l’abissale testo teatrale Il quinto evangelista ), negandoci l’approdo: del Quinto evangelio non leggiamo che scarsi brandelli, poco più che spunti (ispirati senza dubbio, come ha dimostrato Wanda Santini scavando nel fondo Pomilio all’università di Pavia, dall’apocrifo Vangelo di Tommaso); né ci è concesso leggere la lettera di risposta – forse risolutiva – del Reverendo, dacché, ci fa sapere la sbrigativa assistente Anne Lee, «il professor Bergin non ha fatto in tempo a leggerla», nel frattempo è morto. Pomilio, così, ci frega mostrandoci che la ricerca del tesoro è meglio del tesoro, che in un capolavoro il non detto, l’indicibile, è più importante di ciò che è scritto. In modo vertiginoso, tuttavia, il lettore, diventato esegeta di testi esotici ed esoterici, passa per cronache medioevali e iscrizioni bizantine, per poemi fiammighi del XVI secolo e dotte dissertazioni del secolo scorso, tutte fonti «immaginarie» o «adottate con la massima libertà», come se Pomilio fosse un Borges al cubo.

Mario Pomilio toccò la cima della gloria con Il Natale del 1833: per una fortuita casualità l’opera più bella, pubblicata da Rusconi nel 1983, ottiene il premio più importante, lo Strega. Pomilio entra nelle viscere del monumentale Alessandro Manzoni, scolpendo un busto titanico, mostrandoci «la fragilità mescolata alla bellezza, la squisitezza dei comportamenti mescolata all’inaccessibilità», estraendo il cuore cupo, volubile, eccellente del fondatore del romanzo italiano. Se ne esce innamorati del Manzoni, si vorrebbe indagare nell’epistolario manzoniano, compulsando il fatidico e incompiuto Giobbe: fatica inutile, perché nella postilla finale Pomilio ci avvisa che ogni documento «è immaginario».

*In copertina: Caravaggio, L’ispirazione di San Matteo, 1602 ca.

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