01 Dicembre 2017

L’Italia ha dei problemi demografici? Tranquilli, li risolve lui. Il filosofo che propone di non fare figli per vivere meglio

Terminato il piagnisteo nazionalpopolare? Lui ha la soluzione. Dati Istat: in Italia non facciamo più figli. Trombiamo (si spera), ma non procreiamo. “Nell’arco di 8 anni – dal 2008 al 2016 – le nascite sono diminuite di oltre 100 mila unità”, dice plumbeo l’istituzione nazionale delle statistiche. Precisando: “le donne italiane hanno in media 1,26 figli” e i figli si fanno sempre più tardi. E allora? Apriti cielo. Un Paese senza figli è un Paese sull’orlo della barbarie, preda dei barbari: adottiamo una ‘politica per le famiglie’, con assegni per il bebè e magari un dipendente pubblico che inietti gli spermatozoi di papà nell’ovulo sacro di mammà. Fermi tutti, state tranquilli. Un filosofo ha la soluzione per tutti i nostri mali riproduttivi. Lui si chiama David Benatar, 51 anni, prof e guida del dipartimento di filosofia dell’Università di Cape Town, Sudafrica. Il tipo è un pizzico sociopatico – non si fa fotografare, si fa vedere poco in giro – ed è il guru degli anti-natalisti. Che vuol dire? Questo: “Mentre le brave persone fanno ogni cosa per risparmiare la sofferenza ai propri figli, pochi di loro hanno capito che il modo migliore per prevenire le sofferenze dei figli è non metterli al mondo”. Semplice, rotondo, ovvio. Per non soffrire non occorre ritirarsi in monastero a fare i gargarismi con Siddharta; non bisogna far nascere i figli. Se c’è il nulla, non c’è il dolore. Il pensiero nitido e letale – corredato da sentenze come questa: “al contrario di quello che molti pensano, la qualità della vita umana è piuttosto terrificante” – è espresso in Better Never To Have Been, il libro del 2006 con cui Benatar, in modo piuttosto stupefacente, è salito sugli altari della filosofia. Ora queste idee sono sintetizzate in The Human Predicament: A Candid Guide to Life’s Biggest Questions (Oxford University Press, pp.288, $ 24.95), dove il filosofo parte in quarta: “Nasciamo, viviamo, soffriamo per poi morire – obliati per il resto dell’eternità. La nostra esistenza è soltanto un bagliore nel tempo e nello spazio cosmico. Non è sorprendente, allora, chiedersi: ‘perché tutto questo?’”. Convinto – e ha ragione da vendere – che “le grandi questioni dell’esistenza dovrebbero essere il pane e il burro dei filosofi”, i quali, al contrario, “come tanti scrittori e artisti pare abbiano altro a cui pensare”, Benatar ci spiega ciò che sappiamo da sempre: che il dolore ha la meglio sul piacere – “cinque minuti di dolore terrificante sono indimenticabili rispetto a cinque minuti di piacere estasiante, ma passeggero” – che la natura ci è avversaria e avversa – terremoti, gelo, caldo asfissiante – che l’uomo è notoriamente crudele, brutto e cattivo con il prossimo suo, che la sofferenza, di per sé, non ha alcun valore ‘maieutico’: “la sofferenza, semplicemente, non ha senso, la gente tenta di trovare un senso alla sofferenza perché pensare che la sofferenza sia gratuita è insopportabile”. Ergo: “non sono contrario al divertimento, ammetto che nella vita possano accadere cose buone e piacevoli”, ma è il dolore a sigillare il nostro passaggio sulla terra, “la vita è dolore tanto quanto la morte”, per questo, meglio non nascere, meglio, se si è buoni di cuori, evitare di arrecare altra sofferenza mettendo al mondo altri figli destinati a soffrire.

Il giovane favoloso
Elio Germano interpreta Giacomo Leopardi ne “Il giovane favoloso”

Per questo, filosofico paradosso, l’Istat corrobora le idee di Benatar: se gli italiani non fanno figli sono a un passo dall’illuminazione. “David Benatar può essere considerato il filosofo più pessimista del mondo”, attacca Joshua Rothman, che ha intervistato l’anti-natalista sulle pagine del New Yorker. Se agli americani le parole di Benatar risuonano nuove, tonanti, tenebrose, per noi vecchi di cultura sono, però, il ritorno del già detto e del già udito, un valzer un po’ rétro. Il pensiero di Benatar, infatti, è del tutto dipendente da Giacomo Leopardi, il quale, nel Canto notturno del pastore errante dell’Asia, che studiamo quando siamo alti così, si pone le stesse domande del filosofo sudafricano, ma con decuplicata forza lirica (“Se la vita è sventura/ perché da noi si dura?”). Di fatto, è proprio Leopardi – che pure non è citato – a costruire l’ossatura del pensierino ricalcato di Benatar: le domande sul senso del cosmo (“A che tante facelle?/ Che fa l’aria infinita, e quel profondo/ infinito seren? Che vuol dir questa/ solitudine immensa?”), la riflessione che “la vita è male”, che la sofferenza comincia con la nascita (“Nasce l’uomo a fatica… prova pena e tormento/ per prima cosa; e in sul principio stesso/ la madre e il genitore/ il prende a consolar dell’esser nato”) e che dunque è meglio non nascere, perché “è funesto a chi nasce il dì natale”. Vedete? L’anti-natalista l’abbiamo in antologia scolastica, è il più grande poeta dell’Italia moderna. D’altra parte, sono stati anti-natalisti pure i bravi cristi, i cristiani: gli encratiti, di cui parlano Ireneo di Lione e Clemente di Alessandria, ritenevano che il mondo fosse peculiarmente malvagio, che Gesù Cristo l’avesse liberato e che bisognasse adempiere alla sua opera non mettendo più al mondo figli, portando all’estinzione una umanità ormai benedetta, ma abietta. Insomma, questo edonismo del nulla attraversa la storia del pensiero occidentale: a volte l’uomo non ne può più di se stesso. Ora occorre programmare un incontro tra Silvio Berlusconi, che vuole vivere fino a 125 anni, e David Benatar, che vorrebbe morire domani.

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