L’austero cinismo cuneese si mescola, nel mio immaginario, al rigore della chioma, d’eleganza Stalingrado. Di primo acchito, mi dico che non avrei nulla da dire a Piergiorgio Odifreddi, i cui sillogismi, di norma, sono una doccia fredda per l’interlocutore, hanno in dote l’assertività caustica di una ghigliottina. Clamoroso inquisitore dell’ovvio odierno, Odifreddi è il Torquemada dei cattolici, di cui manda in cenere la fede insaporita di superstizioni, ma è anche fustigatore dei filosofi che spacciano fumo per arrosto, dei puri intelletti che speculano di spirito, degli spiritati della poesia, di quelli che parlano a vanvera, celebrando il proprio ego istoriato di nuvole. Devo dire che spesso – al netto di una spiccia rapacità di sintesi che gli fa pronunciare anatemi all’eccesso – leggere Odifreddi, specie di Voltaire zdanovista, uno stacanovista della lucidità mentale, mi intriga. Quando mi scrive, però, dopo che ho stroncato un libro in cui c’entra, di lato, pure lui, mi attendo la disfatta dei miei neuroni, una strage. Piuttosto, dopo i convenevoli, ci troviamo a parlare di Dio, lui, Presidente Onorario dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, e io, vago cane che odora il divino sotto un pagliaio di versetti, di fede, di fiducia nella poesia. Mi sorprende, del matematico “impertinente” e “impenitente”, che ha fatto dei numeri per pochi uno spettacolo per tutti – cito almeno il ciclo Donne che hanno cambiato la Storia, in cui racconta di Ipazia e di Ada Lovelace, di Simone Weil e di Rosalind Franklin, di Marie Curie e di Sof’ja Kovalevskaja, tra le altre –, il destino al confronto, la necessità di spezzare parole pur dagli antipodi. In effetti, è più simpatico di quel che appare – o che appare a me, che ho occhi foderati di ideologia e perbenismo culturale. Bene, gli dico, rendiamo pubblico il nostro parlare, ti sfido dall’antro della poesia. Lui ci sta, ed eccoci qua. (Davide Brullo)
Nel discorso di accettazione del Nobel per la letteratura, il poeta Saint-John Perse azzarda una affinità tra scienza e poesia, tra scienziato e poeta (lui si dilettava in esplorazioni geologiche), dicendo che “la grande avventura della mente poetica non è in alcun modo secondaria rispetto agli avanzamenti della scienza moderna. Gli astronomi sono stati scossi dalla teoria dell’universo in espansione, ma non ve n’è di meno, di espansione, nella morale infinita dentro l’uomo”. Che dice, le aggrada?
Un matematico potrebbe ribaltare l’affermazione di Saint-John Perse, e dire che “la grande avventura della mente scientifica non è in alcun modo secondaria rispetto agli avanzamenti della poesia (o della letteratura e della filosofia) moderna. Gli umanisti sono stati scossi dall’espansione della morale dentro l’uomo, ma non ve n’è di meno nella teoria dell’universo in espansione”. Perché finora è semmai la scienza a fare la parte della cenerentola nella cultura moderna: se ne lamentò più di mezzo secolo fa C. P. Snow, che peraltro era un letterato (sensibile), ma non è cambiato molto da allora.
Il matematico è stato mai sedotto dalla poesia? Che poeti conosce l’acerrimo matematico? Forse ha sentito dire di Ion Barbu, eccelso in algebra e assiomatica, non meno bravo come poeta.
Io non so bene cosa sia la poesia, ma Ezra Pound, che se ne intendeva, diceva (nell’ABC della letteratura, se ben ricordo) che “la poesia è linguaggio carico di significato al massimo grado”. Se è così, allora sarebbe difficile immaginare qualcosa di più poetico di una formula matematica, fisica o chimica, dove una manciata di simboli spesso codifica un’enormità di significato. Basta pensare alla famosa equazione di Einstein, “E = mc2”, che racchiude il segreto dell’equivalenza tra materia ed energia. Quanto a me, Pound mi ha sempre affascinato, soprattutto quello dei “Canti pisani”. Ma il poeta che ho letto di più è Dante, fin da bambino, anche se oggi sono infastidito dal contenuto dei suoi versi: il problema della della poesia è che, per sua natura, la forma ha la meglio sul contenuto: il che significa che spesso i poeti dicono benissimo delle banalità, quando non delle vere e proprie stupidaggini. Ion Barbu non l’ho mai sentito, ma mi informerò. Alla cieca potrei azzardare un parallelo con Jacques Roubaud, un membro storico dell’Oulipo francese (tra parentesi, io sono un indegno membro della sua versione italiana, l’Oplepo).
Lei è presidente onorario dell’Uaar, cosa le importa allora di Dio? E poi, perché limitarsi a scassinare il cristianesimo senza prendersela con l’islam: non saranno ‘cretini’ soltanto i cristiani (al di là della famigerata filologia)…
A dire il vero, io ho “scassinato” equanimamente tutte le religioni, nel mio Vangelo secondo la scienza (1999). Ma ciascuno è sensibile alla propria, e in Italia i cristiani sono in maggioranza (tra i religiosi. Non tra la popolazione, che è più sensibile alla letteratura fantastica moderna, che a quella antica): dunque, mi identificano come un apologeta dell’anticristianesimo, mentre sono semplicemente un critico della superstizione, più o meno paludata. Sono tanto anticristiano quanto antiastrologo, ad esempio. In ogni caso, nel mio libro Perché non possiamo essere cristiani, e meno che mai cattolici (2007) mi sono limitato a decostruire i testi sacri della nostra tradizione. Poiché la sua obiezione sull’islam mi è stata fatta fin dagli inizi, appena è uscito quel libro, ho pensato subito a un sequel intitolato “Perché non possiamo essere islamici, e meno che mai sunniti”. Ma mi sono arenato presto sul Corano, perché ho scoperto che si tratta di un testo più poetico che parastorico-parafilosofico-parascientifico, qual è invece la Bibbia. E decostruire la poesia è tanto facile, quanto inutile: un tipico esempio di “missing the point”.
Perché ha assegnato al geniale Marcel Proust l’epiteto di “perdigiorno”? Già che c’è, mi relazioni intorno al suo rapporto con Dostoevskij. Non si può amare la Russia, eludendo l’icona, che grida ancora, del Grande Inquisitore.
Non ho nulla contro il Proust letterato: piuttosto, contro coloro (e sono loro i veri “perdigiorno”) che pretendono di trovare nella “Ricerca del tempo perduto” qualcosa di significativo sul tempo fisico. O, se per questo, nell’Essere e tempo di Heidegger, o nelle opere di Bergson: il quale, non ha caso, ha preso il premio Nobel per la letteratura, e non per la fisica. Ma non sono stati solo i suoi lettori, bensì lui stesso, a confondere i due piani: Bergson fece un imbarazzante dibattito con Einstein, sull’argomento, e ne uscì distrutto, scientificamente e psicologicamente. In realtà i letterati e i filosofi parlano della percezione psicologica del tempo, e non della sua natura fisica. Tra l’altro, anche i fisici (Rovelli, ad esempio) a volte compiono un errore analogo a quello degli umanisti, quando non specificano di quale tempo stiano parlando: ad esempio, se quello microscopico (che è reversibile), o quello macroscopico (che è invece irreversibile). O quello classico (che è un parametro indipendente), o quello relativistico (che è una variabile dipendente). In altre parole, la maggior parte dei discorsi sul tempo è disinformata, se non insensata. Ma la gente se ne bea, come si bea della stupidaggine detta al proposito da sant’Agostino. E per mostrare che era una stupidaggine, basta pensare a come reagirebbe un professore quando uno studente gli dicesse, rispondendo a una qualunque domanda: “se non me lo chiede, lo so, ma se me lo chiede, non lo so”…
In che contesto Gödel prova matematicamente l’esistenza di Dio? Perché c’è questa ossessione della ‘cifra’ – cioè: del ‘verbo’ – che riassuma il tutto, che dia la risposta giusta, per sempre? La matematica, mi pare, ha anche a che fare con la forma, con la pulizia, con lo stile… è un po’ come la scrittura di un sonetto!
La prova di Gödel è un esercizio logico, e non va oltre i limiti che si era prefissa. Gödel aveva semplicemente notato un errore logico nella versione di Leibniz della versione di Cartesio della prova ontologica di sant’Anselmo, e ha voluto correggerlo. Ovviamente, come già diceva Hume a proposito di questo genere di argomenti: “non ammettono la minima confutazione, e non provocano la minima convinzione”. In altre parole, è inutile pensare di arrivare alla fede con la ragione: i due approcci sono incompatibili.
La democrazia non le va, come non va a molti, è ormai il sovranismo del fittizio. Con che cosa la sostituiamo?
Un conto è accorgersi che una risposta a un problema è sbagliata, e un altro saper dare la risposta corretta. Nel mio libro La democrazia non esiste (2018) mi sono limitato a mostrare i problemi, grossi e piccoli, che essa mostra. Il primo dei quali ha a che fare con quello che lei chiama il “sovranismo del fittizio”, e che una volta si chiamava invece “dittatura della maggioranza”. Con l’avvento delle leggi-truffa maggioritarie, oggi la democrazia è diventata semplicemente la “dittatura di una minoranza”: cioè, una dittatura pura e semplice. Sostituirla con qualunque cosa che non sia una dittatura, sarebbe già un bel passo avanti: ad esempio, anche solo tornando al proporzionale puro, o separando i poteri legislativo ed esecutivo, che da noi sono sempre stati bellamente mescolati, alla faccia di Montesquieu.
Qual è la sua visione etica? Che cosa pensa dell’uomo?
L’uomo è un animale, e ha con gli animali, soprattutto con quelli più vicini ad esso nell’albero evolutivo, molti tratti in comune. Una piccola differenza con questi vicini è la sua illusione di essere diverso e superiore a loro, ma i fatti dimostrano che non è affatto così. Forse potremmo migliorare un po’ se accettassimo la nostra animalità e ne affrontassimo apertamente i problemi, invece di rimuoverla e nasconderla.
Perché dovremmo “requisire agli italiani” la metà dei risparmi investiti “in attività speculative, come le azioni e le obbligazioni”? Non credo (lo dico da poveraccio) che la ricchezza sia condannabile, né che i beni privati debbano essere sottratti ai pochi per essere dati ai molti, perché? Non è meglio, eventualmente, far sì che anche i pochi riescano, con le proprie doti, a vivere meglio?
La mia proposta non ha nulla contro la ricchezza: semmai, contro la povertà. Noi siamo molto poveri, nel senso preciso che siamo pieni di debiti: il nostro debito pubblico ammonta a più di 2300 miliardi, e ci costa ogni anno 50 miliardi di interessi, che vengono buttati al vento senza intaccare il debito stesso. Ora, il debito non è come un fiume che finisce nel deserto, disperdendo le acque nel nulla, ma è come un canale abusivo, che dirotta le acque in luoghi impropri. In altre parole, il debito non si è perso, ma è finito nelle tasche di qualcuno. In particolare, si può immaginare che sia finito nelle tasche degli speculatori che oggi hanno risparmi investiti in obbligazioni, titoli e azioni, che assommano a più di 4000 miliardi. Requisire metà di questi “risparmi” non sarebbe solo una giusta restituzione del maltolto, ma avrebbe anche effetti virtuosi sulla nostra ricchezza. Ad esempio, non pagheremmo più i 50 miliardi annui di interessi, e in quarant’anni l’intera requisizione ritornerebbe nelle tasche di tutti i cittadini (non solo degli speculatori), nella forma di mancato prelievo fiscale o di opere pubbliche. Ovviamente, non c’è comunque bisogno di azzerare completamente il debito: qualunque prelievo avrebbe l’effetto di abbatterlo parzialmente, e sarebbe auspicabile, soprattutto da parte di coloro che non si sono arricchiti impropriamente alle spalle degli altri.
Una cosa mi interessa, piuttosto. Dove sta andando la ricerca matematica, verso quali territori si sviluppa, cresce, si moltiplica?
È un po’ difficile rispondere brevemente a questa domanda, ma sicuramente la matematica è viva e vegeta, e continua a crescere e a svilupparsi: anche troppo, com’è tipico dei nostri tempi, in cui la quantità viene preferita spesso alla qualità.
Cosa c’è dopo la vita? Immaginando che lei mi risponda, nulla, le chiedo: e quindi, ama la vita?
Dopo la vita c’è ovviamente la stessa cosa che c’era prima. Chissà perché, in genere la gente non si preoccupa affatto di cosa c’era prima della nascita, ma si preoccupa molto di cosa ci sarà dopo la morte. Io, meno metafisicamente (o meno infantilmente, che è quasi un sinonimo) mi preoccupo solo di cosa c’è durante la vita: cioè, appunto, della vita stessa.